La chiesetta della Santissima Trinità a Crogole

Foto Elisabetta Marcovich

La piccola chiesa della SS Trinità a Crogole, sotto il Monte Carso, fa parte della parrocchia di san Dorligo/Dolina. E’ stata costruita nel XVII secolo, con un 1662 scolpito sui pinnacoli dell’ingresso e poi un 1682 sull’ingresso. La soglia è costituita da antica pietra tombale.la facciata venne completamente rifatta nel 1910.

foto Gabriella Amstici
EFoto Dario Neddi

L’interno presenta un presbiterio affrescato con immagini degli Evangelisti cavalcanti i rispettivi simboli e immagini di santi vescovi o diaconi .

L’altare di legno scolpito mostra , fra colonnette tortili, la Trinità che incorona la Vergine. In alto, angioletti festanti, il tutto di uno stile barocco popolare. E’ stata restaurata nel 2006.

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TRIESTE – Monrupino

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Monrupino, comune di provincia di Trieste, è insediamento tra i più antichi del Carso, riconducibile a un notevole castelliere esistente dalla media età del bronzo alla prima metà del ferro (dal 1400 al 700 a.C. circa). Il toponimo Monrupino è un parziale rifacimento, risalente all’inizio del 1900, della voce slovena Repentabor (cfr. C. de Marchesetti, a. 1903: Monrupino (Repentabor). L’etimo di Repentabor, per la parte relativa alla forma Repen (tabor ha un preciso significato riferito a un insediamento protetto posto in posizione dominante) è tuttavia incerto. (A. Trampus, Vie e Piazze di Trieste Moderna.)

Verteneglio – Brtonigla, dalla Loggia di Buie.

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Verteneglio – Brtonigla, dalla Loggia di Buie. In secondo piano a destra l’abitato di Businia – Bužinija. (Foto Paolo Parenzan).

Verteneglio (in croato Brtonigla) è un comune di 1.600 abitanti situato nella parte settentrionale dell’Istria, amministrato dalla Repubblica di Croazia.

Costruito su un antico castelliere preistorico, in precedenza apparteneva al comune di Buie. Il paese, dedito all’agricoltura, fu citato per la prima volta nel 1234 con l’antico nome Ortoneglo o Hortus Niger, ossia orto di terra nera.
Fin dall’epoca carolingia è documentata l’esistenza dell’antico monastero benedettino di San Martino di Tripoli insediatosi su un’altura ancora oggi denominata Monte delle Madri (o Monte delle Monache) posta fuori Verteglio nella zona a sud-est lungo la strada che conduce a Villanova.
Nell’XI secolo si insediarono nella zona nuclei di famiglie venete e nel XVI e XVII secolo contadini slavi in fuga dai turchi. Fece parte della Serenissima Repubblica di Venezia e poi dell’Impero austro-ungarico. Dopo la prima guerra mondiale e quindi il trattato di Rapallo, il paesino entrò a far parte dell’Italia; dopo la seconda guerra mondiale fu incluso nella Zona B del Territorio Libero di Trieste. In seguito venne assegnato alla Jugoslavia.


Monumenti e luoghi d’interesse:


Chiesa di San Zenone
La chiesa parrocchiale di Verteneglio è dedicata a San Zenone, vescovo di Verona e patrono della cittadina. Il soffitto della chiesa è piatto, l’abside poligonale, e le pareti laterali sono decorate da altari di marmo realizzati secondo i principi del neo-barocco. Sulla facciata, di colore giallo ci sono due grandi finestre poste ai lati. Sopra l’entrata si alza un alto campanile rosso, ed ai lati del tetto ci sono due piccole guglie.
La chiesa fu edificata tra il 1859 e il 1861 sulle fondamenta dell’omonima chiesa più antica che datata intorno al 1480.


Parco naturale Scarlini
Il parco naturale di Scarlini è una riserva che si trova a due chilometri da Verteneglio. Prende il nome dal ruscelletto Scarlini, il quale sfocia nel fiume Quieto. All’interno del parco il ruscello ristagnando in una piccola conca forma un lungo stagno di colore verde.

Stridone / Sdregna / Zrenj – anni ’70, cortile della fabbreria Kmet

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Stridone anni ’70, cortile della fabbreria Kmet, al centro le basi in pietra delle incudini e a destra ancora attrezzi agricoli probabilmente diventati obsoleti e mai riparati. (Foto Sergio Sergas)

L’antica Stridone, conosciuta con il nome di Sdregna, si trova a 427 metri s.l.m., nell’Istria verde.

Si ritiene che questo paese fosse la patria, piuttosto contestata, del dotto scrittore cattolico S. Gerolamo, la cui presenza a Stridone fece sorgere numerose leggende.

Il paese è costituito da un insieme di case, alcune ancora con i tetti ricoperti da lastre di pietra. Ad est, una distesa di arenaria boscosa precipita verso il torrente Brazzana che scorre a 400 metri più in basso, dove resistono le rovine del castello di Pietra Pelosa.

La località fu borgo fortificato, distrutto durante un’incursione dei Goti. Nel 1063 l’imperatore Enrico IV donò la villa allora chiamata Strengi, che dovrebbe identificarsi in Stridone, a Ravangero, patriarca di Aquileia. Nel 1300 faceva parte della signoria di Pietra Pelosa ed era dotata di una cinta muraria fortificata. Fu feudo dei patriarchi di Aquileia fino alla conquista veneziana del 1420. Nel 1440 i Veneziani infeudarono la famiglia Gravisi del possesso di Pietra Pelosa, e Stridone, che faceva parte del territorio della Signoria, ne seguì la sorte. Nel XVI secolo, ci furono insediamenti da parte di fuggiaschi slavi che provenivano dalla Bosnia invasa dai Turchi. Durante la guerra degli Uscocchi, nel 1616, che vide affrontarsi Veneziani ed Austriaci, questi ultimi misero a fuoco il territorio e la stessa Stridone.

La chiesa parrocchiale, con abside poligonale, è dedicata a S. Giorgio. Edificata su un edificio di culto più antico, la chiesa è stata ampliata nel 1627 e l’ultimo restauro risale al 1953. Il campanile, che si affaccia nella piazzetta, discosto dalla chiesa, è stato completato in pietra calcarea bianca nel 1887.

Sergio Sergas: Fotografo e videoamatore classe 1947, da cinquant’anni documenta la città di Trieste e il Territorio, con una particolare attenzione alle tradizioni delle popolazioni istriane. Suoi più di 1500 video, pubblicati su You Tube e Fb.

Meda fatta a regola d’arte, in Zaberniza, provincia di Stridone.

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Meda fatta a regola d’arte, in Zaberniza, provincia di Stridone.

L’antica Stridone, conosciuta con il nome di Sdregna, si trova a 427 metri s.l.m., nell’Istria verde. (Foto Livio Crovatto)

Il paese è costituito da un insieme di case, alcune ancora con i tetti ricoperti da lastre di pietra.

La località fu borgo fortificato, distrutto durante un’incursione dei Goti. Nel 1063 l’imperatore Enrico IV donò la villa allora chiamata Strengi, che dovrebbe identificarsi in Stridone,a Ravangero, patriarca di Aquileia. Nel 1300 faceva parte della signoria di Pietra Pelosa ed era dotata di una cinta muraria fortificata. Fu feudo dei patriarchi di Aquileia fino alla conquista veneziana del 1420. Nel 1440 i Veneziani infeudarono la famiglia Gravisi del possesso di Pietra Pelosa, e Stridone, che faceva parte del territorio della Signoria, ne seguì la sorte. Nel XVI secolo, ci furono insediamenti da parte di fuggiaschi slavi che provenivano dalla Bosnia invasa dai Turchi. Durante la guerra degli Uscocchi, nel 1616, che vide affrontarsi Veneziani ed Austriaci, questi ultimi misero a fuoco il territorio e la stessa Stridone.

La chiesa parrocchiale, con abside poligonale, è dedicata a S. Giorgio. Edificata su un edificio di culto più antico, la chiesa è stata ampliata nel 1627 e l’ultimo restauro risale al 1953. Il campanile, che si affaccia nella piazzetta, discosto dalla chiesa, è stato completato in pietra calcarea bianca nel 1887.

Fienagione. (Stridone, anni ’70)

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Fienagione. Stridone, anni ’70 (Foto: Livio Crovatto)

L’antica Stridone, conosciuta con il nome di Sdregna, si trova a 427 metri s.l.m., nell’Istria verde.

Il paese è costituito da un insieme di case, alcune ancora con i tetti ricoperti da lastre di pietra.

La località fu borgo fortificato, distrutto durante un’incursione dei Goti. Nel 1063 l’imperatore Enrico IV donò la villa allora chiamata Strengi, che dovrebbe identificarsi in Stridone,a Ravangero, patriarca di Aquileia. Nel 1300 faceva parte della signoria di Pietra Pelosa ed era dotata di una cinta muraria fortificata. Fu feudo dei patriarchi di Aquileia fino alla conquista veneziana del 1420. Nel 1440 i Veneziani infeudarono la famiglia Gravisi del possesso di Pietra Pelosa, e Stridone, che faceva parte del territorio della Signoria, ne seguì la sorte. Nel XVI secolo, ci furono insediamenti da parte di fuggiaschi slavi che provenivano dalla Bosnia invasa dai Turchi. Durante la guerra degli Uscocchi, nel 1616, che vide affrontarsi Veneziani ed Austriaci, questi ultimi misero a fuoco il territorio e la stessa Stridone.

La chiesa parrocchiale, con abside poligonale, è dedicata a S. Giorgio. Edificata su un edificio di culto più antico, la chiesa è stata ampliata nel 1627 e l’ultimo restauro risale al 1953. Il campanile, che si affaccia nella piazzetta, discosto dalla chiesa, è stato completato in pietra calcarea bianca nel 1887.

Vita quotidiana a Stridone, primi anni ’80.

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Vita quotidiana a Stridone, primi anni ’80.(Foto: Livio Crovatto)

L’antica Stridone, conosciuta con il nome di Sdregna, si trova a 427 metri s.l.m., nell’Istria verde.

Il paese è costituito da un insieme di case, alcune ancora con i tetti ricoperti da lastre di pietra.

La località fu borgo fortificato, distrutto durante un’incursione dei Goti. Nel 1063 l’imperatore Enrico IV donò la villa allora chiamata Strengi, che dovrebbe identificarsi in Stridone,a Ravangero, patriarca di Aquileia. Nel 1300 faceva parte della signoria di Pietra Pelosa ed era dotata di una cinta muraria fortificata. Fu feudo dei patriarchi di Aquileia fino alla conquista veneziana del 1420. Nel 1440 i Veneziani infeudarono la famiglia Gravisi del possesso di Pietra Pelosa, e Stridone, che faceva parte del territorio della Signoria, ne seguì la sorte. Nel XVI secolo, ci furono insediamenti da parte di fuggiaschi slavi che provenivano dalla Bosnia invasa dai Turchi. Durante la guerra degli Uscocchi, nel 1616, che vide affrontarsi Veneziani ed Austriaci, questi ultimi misero a fuoco il territorio e la stessa Stridone.

La chiesa parrocchiale, con abside poligonale, è dedicata a S. Giorgio. Edificata su un edificio di culto più antico, la chiesa è stata ampliata nel 1627 e l’ultimo restauro risale al 1953. Il campanile, che si affaccia nella piazzetta, discosto dalla chiesa, è stato completato in pietra calcarea bianca nel 1887.

Stridone / Sdregna / Zrenj, fine anni ’70. L’arte “de bater fasioi”

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Stridone / Sdregna / Zrenj, fine ’70. L’arte “de bater fasioi” (Foto: Livio Crovatto)

L’antica Stridone, conosciuta con il nome di Sdregna, si trova a 427 metri s.l.m., nell’Istria verde.

Il paese è costituito da un insieme di case, alcune ancora con i tetti ricoperti da lastre di pietra.

La località fu borgo fortificato, distrutto durante un’incursione dei Goti. Nel 1063 l’imperatore Enrico IV donò la villa allora chiamata Strengi, che dovrebbe identificarsi in Stridone,a Ravangero, patriarca di Aquileia. Nel 1300 faceva parte della signoria di Pietra Pelosa ed era dotata di una cinta muraria fortificata. Fu feudo dei patriarchi di Aquileia fino alla conquista veneziana del 1420. Nel 1440 i Veneziani infeudarono la famiglia Gravisi del possesso di Pietra Pelosa, e Stridone, che faceva parte del territorio della Signoria, ne seguì la sorte. Nel XVI secolo, ci furono insediamenti da parte di fuggiaschi slavi che provenivano dalla Bosnia invasa dai Turchi. Durante la guerra degli Uscocchi, nel 1616, che vide affrontarsi Veneziani ed Austriaci, questi ultimi misero a fuoco il territorio e la stessa Stridone.

La chiesa parrocchiale, con abside poligonale, è dedicata a S. Giorgio. Edificata su un edificio di culto più antico, la chiesa è stata ampliata nel 1627 e l’ultimo restauro risale al 1953. Il campanile, che si affaccia nella piazzetta, discosto dalla chiesa, è stato completato in pietra calcarea bianca nel 1887.

Stridone / Sdregna / Zrenj. Campagne nei dintorni di Stridone, verso l’abitato di Zaberniza.

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Campagne nei dintorni di Stridone, verso l’abitato di Zaberniza. (Foto: Livio Crovatto)

L’antica Stridone, conosciuta con il nome di Sdregna, si trova a 427 metri s.l.m., nell’Istria verde.

Il paese è costituito da un insieme di case, alcune ancora con i tetti ricoperti da lastre di pietra.

La località fu borgo fortificato, distrutto durante un’incursione dei Goti. Nel 1063 l’imperatore Enrico IV donò la villa allora chiamata Strengi, che dovrebbe identificarsi in Stridone,a Ravangero, patriarca di Aquileia. Nel 1300 faceva parte della signoria di Pietra Pelosa ed era dotata di una cinta muraria fortificata. Fu feudo dei patriarchi di Aquileia fino alla conquista veneziana del 1420. Nel 1440 i Veneziani infeudarono la famiglia Gravisi del possesso di Pietra Pelosa, e Stridone, che faceva parte del territorio della Signoria, ne seguì la sorte. Nel XVI secolo, ci furono insediamenti da parte di fuggiaschi slavi che provenivano dalla Bosnia invasa dai Turchi. Durante la guerra degli Uscocchi, nel 1616, che vide affrontarsi Veneziani ed Austriaci, questi ultimi misero a fuoco il territorio e la stessa Stridone.

La chiesa parrocchiale, con abside poligonale, è dedicata a S. Giorgio. Edificata su un edificio di culto più antico, la chiesa è stata ampliata nel 1627 e l’ultimo restauro risale al 1953. Il campanile, che si affaccia nella piazzetta, discosto dalla chiesa, è stato completato in pietra calcarea bianca nel 1887.

Stridone / Sdregna / Zrenj, Vecchio casolare.

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Vecchio casolare a Stridone. (Foto: Livio Crovatto)

L’antica Stridone, conosciuta con il nome di Sdregna, si trova a 427 metri s.l.m., nell’Istria verde.

Il paese è costituito da un insieme di case, alcune ancora con i tetti ricoperti da lastre di pietra.

La località fu borgo fortificato, distrutto durante un’incursione dei Goti. Nel 1063 l’imperatore Enrico IV donò la villa allora chiamata Strengi, che dovrebbe identificarsi in Stridone,a Ravangero, patriarca di Aquileia. Nel 1300 faceva parte della signoria di Pietra Pelosa ed era dotata di una cinta muraria fortificata. Fu feudo dei patriarchi di Aquileia fino alla conquista veneziana del 1420. Nel 1440 i Veneziani infeudarono la famiglia Gravisi del possesso di Pietra Pelosa, e Stridone, che faceva parte del territorio della Signoria, ne seguì la sorte. Nel XVI secolo, ci furono insediamenti da parte di fuggiaschi slavi che provenivano dalla Bosnia invasa dai Turchi. Durante la guerra degli Uscocchi, nel 1616, che vide affrontarsi Veneziani ed Austriaci, questi ultimi misero a fuoco il territorio e la stessa Stridone.

La chiesa parrocchiale, con abside poligonale, è dedicata a S. Giorgio. Edificata su un edificio di culto più antico, la chiesa è stata ampliata nel 1627 e l’ultimo restauro risale al 1953. Il campanile, che si affaccia nella piazzetta, discosto dalla chiesa, è stato completato in pietra calcarea bianca nel 1887.

Il Carso

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Il Carso è un paese di calcari e ginepri. Un grido terribile, impietrito. Macigni grigi di piova e di licheni, scontorti, fenduti, aguzzi. Ginepri aridi. Lunghe ore di calcare e di ginepri. L’erba è setolosa. Bora. Sole
(“Il mio Carso” di S. Slataper)

 


Il Carso (noto anche come altopiano Carsico o Carsia, Iulia Carsa in latino, Kras in sloveno e croato, Cjars in friulano, Karst in tedesco) è una regione storica, un altopiano roccioso calcareo che si estende a cavallo tra Venezia Giulia (provincia di Gorizia e Trieste), Slovenia e Croazia, noto storicamente per essere stato teatro di violente battaglie durante la prima guerra mondiale, tra le truppe italiane e quelle austro-ungariche.
Dal nome della regione geografica del Carso di Trieste, oggetto dei primi studi e presa come riferimento, nota anche come “Carso Classico”, è derivato il termine carsismo. Questo toponimo a sua volta deriva dalla radice “kar” o “karra”, di origine paleoindoeuropea con significato di roccia, pietra. Stessa radice hanno i toponimi Carnia, Carinzia, Carnaro e Carniola.


Il Carso triestino è formato prevalentemente da rocce calcaree, costituite da carbonato di calcio (un composto chimico quasi insolubile), che in acqua acidula si trasforma in bicarbonato (molto solubile). Queste rocce si sono formate per l’accumulo, in milioni di anni, di fanghi e resti calcarei di miliardi di organismi marini dalle dimensioni più varie.
La zona in cui si formerà il Carso, milioni di anni fa era un mare poco profondo, caratterizzata da un clima tropicale molto diverso da quello attuale, abitata prevalentemente da organismi con guscio e scheletro calcareo.

Si estende a sud-est delle Prealpi Giulie, (zona del Collio), giunge fino al mare Adriatico e prosegue poi in Slovenia occidentale e Istria settentrionale, fino al punto di congiunzione con il massiccio delle Alpi Bebie (Velebit) all’estremo nord-ovest della Croazia. L’altopiano si estende su una anticlinale parzialmente erosa.

Secondo la Partizione delle Alpi del 1926 il Carso è considerato facente parte del sistema alpino ed è visto come una delle 26 sezioni delle Alpi, e precisamente la ventiduesima. Secondo questo criterio, si suddivide Piccolo Carso (gruppo 22a) e Carso Istriano (gruppo 22b).
Secondo la SOIUSA il Carso non fa parte delle Alpi, ma appartiene al sistema delle Alpi Dinariche, seguendo la letteratura geografica slovena, che lo suddivide nel seguente modoː Montagne dell’Istria e del Carso (sigla A1); Gruppo della Selva di Tarnova (sigla B1); Gruppo del Monte Nevoso-Risnjak (sigla B2); Largo altopiano della Carniola-interna e della Bassa Carniola (sigla B3).
Secondo altri criteri, può essere suddiviso in Carso Triestino, Carso goriziano, Carso sloveno e Carso istriano (in talune suddivisioni si espande anche più a sud con il Carso dalmata e il Carso bosniaco).

Aree della superficie terrestre ricoperte da formazioni di rocce calcaree.
Le rocce calcaree sono solubili dagli agenti atmosferici, in particolare dall’acido carbonico disciolto nelle acque, e vengono quindi da questi modellate nel tempo in varie forme, causando il fenomeno del carsismo. Nel mondo solo il 15% delle aree con affioramenti carbonatici presentano i caratteristici fenomeni carsici. Uno degli aspetti più rilevanti sono le doline.

Nei secoli scorsi le condizioni di vita furono sempre dure sia per gli inverni rigidi che per le estati estremamente secche che danneggiavano vigne e oliveti. La prolungata siccità verificatasi nel 1782 provocò una vera e propria carestia che ridusse alla miseria più di 1000 famiglie e i cui effetti si prolungarono fino ai primi decenni dell’ Ottocento quando le autorità furono costrette a importare grano dall’Ucraina distribuendolo alle famiglie che avevano perduto tutti i raccolti.
Con la successiva siccità degli anni 1841-42 vi fu un alta mortalità per malnutrizione e malattie e se i paesani di Prosecco, Santa Croce e Opicina si mantenevano con i loro mestieri di scalpellini, muratori e carrettieri quelli di Trebiciano, Padriciano, Gropada e Basovizza con le loro terre pietrose e poco fertili sopravvivevano con i proventi del latte e delle poche verdure che le donne vendevano in città.
Solo il lavoro delle attività industriali di Trieste, l’istituzione della Casa dei poveri e l’affidamento stipendiato delle balie soccorsero i più poveri e chi rimaneva in Carso si arrangiava a frantumare le pietre per venderlo agli appaltatori delle strade. Sul Carso triestino si trovano ancora degli stagni e delle cisterne, che per secoli hanno rappresentato la principale fonte d’acqua per gli abitanti e per gli animali.
A Opicina la più importante riserva d’acqua era rappresentata dalla cisterna di Ovçjak o cisterna romana, che si trova in fondo a una dolina nei pressi della centrale elettrica di Opicina.
Le sue origini sono molto antiche, collegate perfino al primo nucleo abitativo di Opicina, ma la forma attuale risale al 1836, quando venne completamente ricostruita dalla comunità di Opicina, data scolpita sul muretto della scala. Oltre a essere utilizzata come fonte d’acqua per l’abitato, fu anche una “jazera” e infine utilizzata come cisterna d’acqua per rifornire le locomotive a vapore della vicina ferrovia.
La larga carrareccia, che scende a spirale lungo i versanti della dolina, serviva proprio per il transito dei carri che dovevano prelevare l’acqua per le locomotive della vicina stazione ferroviaria.
Ha una forma circolare, una profondità di 3 m e un diametro di 16 (la più grande cisterna del Carso triestino) ed è circondata da un parapetto formato da grossi conci di pietra. Ha rappresentato la principale riserva d’acqua potabile di tutta l’area fino al 1908, quando Opicina fu allacciata all’acquedotto di Aurisina.

Aurisina – Nabrežina
Già nel 1300 il paese carsico era chiamato Lebrosina, Lebresina, negli anni seguono si trovano altre varianti, verso il 1600 Nebresin, Nibresina fino ad arrivare, nel 1800 Nabrežina che tradotto significa sopra il costone, anche  “nabrežje” che significa bacino, limite di un corso d’ acqua.
“Aurisina” (con le varianti Aurisin, Aurisyns, Aurexino e successivamente Aurisino e Auresina) invece era il nome della zona costiera con le sorgenti d’acqua che dal 1853 alimentavano l’acquedotto costruito per i bisogni della Ferrovia Meridionale. Solo nel 1923 il paese carsico è stato ribattezzato “Aurisina”.
Nel 1853 era stato approvato il progetto per la costruzione dell’acquedotto che utilizzava le sorgenti di Aurisina per i bisogni della Ferrovia Meridionale, del porto e della città de Trieste. Oggi le sorgenti di Aurisina sono spesso chiamate “Filtri di Santa Croce”.

Le cave di Aurisina presentano una notevole varietà di materiali che hanno tutti la stessa definzione: “brecciola calcarea” di origine organogena, formatisi nel Cretacico superio¬re. E’ durante questo periodo che iniziò il rapido sviluppo delle Angiosperme. Le ammoniti svilupparono forme a spirale svolta o a guscio quasi completamente diritto (eteromorfe) e nei mari poco profondi si diversificarono le rudiste, un particolare gruppo di lamellibranchi nei quali una valva assumeva forma conica rovesciata, fissata al substrato, mentre l’altra formava una sorta di opercolo.
La fine del Cretacico superiore è caratterizzata da un’importante estinzione di massa, avvenuta 65 milioni di anni fa, famosa perché associata all’estinzione dei dinosauri.
Dal punto di vista chimico, la base di tutti i marmi di Aurisina è il carbonato di calcio, mentre il carbonato di magnesio ed il residuo insolubile, quando ci sono, si trovano soltanto in traccia. Dal punto di vista dell’aspetto, i vari tipi di pietra di Aurisina si distinguono per la pezzatura delle inclusioni di fossili che sono più o meno sminuzzati; solo l’ “Aurisina fiorita” si differenzia dalle altre, per il fatto che i fossili sono di notevoli dimensioni.
Il Carso triestino è formato prevalentemente da rocce calcaree, costituite da carbonato di calcio (un composto chimico quasi insolubile), che in acqua acidula si trasforma in bicarbonato (molto solubile). Queste rocce si sono formate per l’accumulo, in milioni di anni, di fanghi e resti calcarei di miliardi di organismi marini dalle dimensioni più varie.
La zona in cui si formerà il Carso, milioni di anni fa era un mare poco profondo, caratterizzata da un clima tropicale molto diverso da quello attuale, abitata prevalentemente da organismi con guscio e scheletro calcareo.
Già all’epoca romana, dalla fine del I secolo avanti Cristo, le cave di pietra di Aurisina fornivano materiale da costruzione e decoro per Aquileia. Le pietre estratte venivano calate per mezzo di giganteschi scivoli, costituiti da lastre di piombo, lungo il ciglione carsico, e giungevano a destinazione via mare.
Ireneo della Croce scrive: “ […] non lungi dalle cave si vedono ancor oggi i vestigi di due strade, addimandate comunemente “Piombino”, perchè tutta coperte da lastre di piombo grosse, oltre due palmi dalla sommità del monte, sino alla riva del mare, servivano per trasportare le colonne ed altre machine levate dalle suddette cave e caricarle nelle navi”.



Ceroglie (Cerovlje)

Ceroglie (in sloveno Cerovlje, circa 150 abitanti), villaggio che aveva i toponimi Ceroglan (1305), Zirolach (1494), Cerole nel 1600, Ceroula, Ceroule e Cereule nel 1700, poi Zereule: forse il nome si può far risalire al latino arcaico cerrus o quercus cerris, la quercia che un tempo abbondava nella zona.
Centro agricolo posto nel comune di Duino-Aurisina, è abitato da una popolazione prevalentemente di lingua slovena. Posto ai piedi del Monte Ermada (da cui la denominazione “Ceroglie dell’Ermada”) è un tipico centro carsico costituito da un nucleo di costruzioni tipiche, affiancate ad edifici più recenti. Il toponimo deriverebbe dal latino Cerrus (quercia), albero che caratterizza i boschi circostanti.
Viene citato per la prima volta nel 1305 in un contratto di compravendita, ma l’esistenza di un castelliere nelle sue vicinanze fa presumere che l’area fosse abitata anche in epoca preistorica. Viene poi riportato sul libro paga di Duino col nome di Zivolach (cervo) nel 1494. La chiesetta dei santi Cirillo e Metodio venne consacrata nel 1988.
Il paesino venne profondamente danneggiato nel corso della prima guerra mondiale, stante la vicinanza con il fronte del monte Ermada. Già nell’estate del ’14 il Carso triestino ne subì le conseguenze: la popolazione civile dei villaggi della cintura carsica più prossimi al fronte – come Ceroglie e Malchina – dovette abbandonare le proprie case; furono approntate opere di difesa.
Il paese subì la devastazione il 16 agosto 1944 da parte delle truppe tedesche come rappresaglia all’azione dei partigiani della Brigata Trieste, i cui guastatori il 9 agosto fecero saltare il viadotto ferroviario presso Moschenizza. A Ceroglie, che contava circa quaranta case, fu distrutto quasi tutto il paese, tranne tre case.
Ceroglie (di 170 abitanti, 27 deportati e 20 partigiani, di cui 4 caduti).
Castelliere di Ceroglie
Scoperto dalla Commissione Grotte dell’Alpina delle Giulie nel 1964, risulta di piccole dimensioni, con una sola cinta della circonferenza di appena 70 metri, mancante in più punti: potrebbe rientrare nel gruppo dei castellieri che il Marchesetti considera vedette. Esso si trova infatti ubicato poco distante da quelli del Monte Ermada, su di una bassa collina isolata, a quota m. 215, un chilometro a nord-ovest della frazione di Ceroglie.
Gli scavi di assaggio praticati su un modesto ripiano, sul versante ovest, hanno portato al reperimento di pochi frammenti fittili, tra cui un’ansa angolare e l’orlo di un vaso decorato con incisioni triangolari piuttosto irregolari. C’è da tener presente che anche questo castelliere risulta molto rovinato dalle opere belliche.
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Castelliere di Ceroglie, aggiornamenti Stanko Flego – Lidia Rupel (I Castellieri della provincia di Trieste, 1993):
Un castelliere in discreto stato di conservazione si trova a ridosso del confine di stato sul M. Ostri vrh (214,5 m), a nord dell’abitato di Ceroglie. Vi si giunge per la strada che da Ceroglie porta al confine e che in passato collegava il paese con Medeazza. … possiamo visitare le macerie del muro di cinta che si conserva per circa 70 m di lunghezza ed è ancora ben conservato. Esso difendeva un castelliere di piccole dimensioni non riportato dal Marchesetti. Nella parte occidentale del sito si può distinguere un ripiano abitativo, ad est invece le strutture del castelliere risultano danneggiate da opere, eseguite durante la prima guerra mondiale. Dalla cima sono visibili altri tre abitati protostorici e precisamente a sud ovest i Castellieri del M. Ermada Superiore e Inferiore e a sud il Castelliere di Ceroglie (q. 173 m) -Na Vrtaci.
Il Castelliere di Ceroglie fu scoperto nel 1964 da S, Andreolotti). Egli effettuò assieme ad altri soci della Società Alpina delle Giulie un piccolo sondaggio nel lato meridionale del castelliere all’interno delle mura, rinvenendo alcuni frammenti ceramici databili al bronzo finale.


Il Carso è ricco di grotte di varie dimensioni, per cui nel territorio si sono sviluppate molte società speleologiche. Le più famose sono la Grotta dell’Orso, la grotta Gigante, la Grotta delle Torri di Slivia, la Grotta Azzurra, le grotte di San Canziano e le grotte di Postumia.

La grotta dell’Orso (Caverna di Gabrovizza), si trova sul Carso triestino, a circa mezzo chilometro da Gabrovizza, nel comune di Sgonico.

Ampia circa 175 metri e suddivisa in tre tronconi, rispettivamente di 50, 90 e 30 metri, con una larghezza massima di poco superiore ai 20 metri ed una profondità di 39 metri, per la sua conformazione è stata un rifugio ideale sia per animali, sia per gli uomini della preistoria. Nella parte iniziale della caverna sono stati rinvenuti resti di cibo e manufatti di vario genere, risalenti all’uomo neolitico, nella parte finale, interessata peraltro da piccoli crolli, sono emersi resti fossili di più di 23 specie di animali di epoche e climi differenti, tra cui l’Ursus spelaeus, il lupo, la volpe, la iena e il leone.

I primi scavi scientifici vennero eseguiti alla fine del 1800 dal Marchesetti, dal Neumann e dal Weithofer. I reperti si trovano nei musei di Vienna e di Trieste.

Scriveva il Marchesetti nel 1880:
” Dieci anni fa non solo nulla si conosceva ancora intorno all’esistenza dei nostri trogloditi, ma nessuno ancora aveva rivolta l‘attenzione alle mille caverne delle nostre montagne calcari, nessuno aveva pensato di frugare sotto la crosta stalagmitica, che nel corso de’ secoli si era rappresa al fondo degli antri, nessuno si era data la briga di rovistare gli strati poderosi di terriccio che vi si erano accumulati. Qualche esplorazione, perché probabilmente troppo superficiale, non aveva fornito alcun risultato, e da ciò si voleva negare presso di noi resistenza di un popolo di trogloditi, quantunque la regione eminentemente cavernosa vi si prestasse meglio di qualunque altra. Delle nostre caverne e de’ loro abitatori, mi limiterò qui a descrivere quella di Gabrovizza (la prima notizia su questa caverna e sui resti diluviali contenutivi, venne da me pubblicata nel 1885 negli Atti dell’Istituto geologico di Vienna), non lungi da Prosecco, che finora ci fornì maggior copia di oggetti sia dal lato paleontologico che preistorico e che merita perciò ne venga fatta speciale menzione. Fu in un’escursione intrapresa nel Marzo 1884, che, smuovendo un po’ il terriccio, ritrovai verso l’estremità interna della grotta alcuni cocci quasi a fior di terra, i quali mi determinarono a farvi ritorno per praticarvi un qualche assaggio più esteso. Quale non fu però la mia sorpresa, allorché scavati appena pochi centimetri, mi si presentò un bellissimo dente dell’orso delle caverne (Ursus Spelacus) e poco appresso un’intera mascella inferiore dello stesso animale!
L’animale di gran lunga più frequente nella caverna di Gabrovizza era l’orso speleo (Ursus spelaeus) avendovi raccolto ben 10 crani più o meno completi, 50 mascelle inferiori, 310 denti sparsi, oltre ad un’enorme quantità di altre ossa. Essi erano di tutte le dimensioni di tutte l’età, dagl’individui al cui paragone il nostro orso bruno appare un pigmeo, superando per mole l’orso polare, ai giovanissimi, cui stavano appena appena per spuntare i denti. I numerosi oggetti rinvenuti nella grotta giacevano sparsi ne’ vari strati senza alcun ordine, come non altrimenti era da attendersi di cose smarrite o gettate via. In generale più ricchi d’oggetti ed anzitutto di cocci e di resti d’animali erano i luoghi più vicini alle pareti, e specialmente una piccola insenatura, ove la caverna forma gomito, che sembra aver servito da mondezzaio.
Gli oggetti più interessanti sono senza dubbio i manufatti litici di cui questa caverna, a differenza della maggior parte delle altre del Carso, finora esplorate, si mostrò molto ricca. D’istrumenti in pietra si raccolsero ne’ nostri scavi: Coltelli, seghe, lesine, raschiatoi . . 124; Cuspidi 7; Schegge 24; Nuclei 5; Asce 2; Pestello di quarzite 1; Cote e lisciatoi d’arenaria …. 42.
In un’ epoca in cui mancava del tutto la conoscenza dei metalli e l‘uomo era costretto a plasmare in argilla gli utensili d’uso domestico, non è da stupirsi dell’enorme quantità di stoviglie rispettivamente dei cocci che ne risultarono, onde riboccano le nostre caverne ed i nostri castellieri. E sono appunto i cocci spesse volte gli unici avanzi che ci rivelano l’esistenza dell’uomo preistorico su qualche vetta denudata dei nostri monti od in qualche antro umido e di difficile accesso. Né la caverna di Gabrovizza vi fa eccezione: che abitata per lunghissimo tempo, vi si accumulò un’ingente quantità di cocci, che se anche non ci permettono che una parziale ricostruzione delle vecchie pentole, ci offrono tuttavia un materiale molto importante per giudicare dello sviluppo e della perfezione, cui giunse la ceramica durante il periodo neolitico. La decorazione più comune ed in pari tempo più semplice, consiste in un intreccio di linee senza alcun ordine, quasiché il figulo fosse passato con un mazzo di vimini sulla pasta ancor molle. Gli animali di cui più frequentemente si pascevano gli abitanti di questa caverna erano la capra e la pecora. Oltre a queste due specie trovansi rappresentati il capriolo ed il cighiale, il primo da molte corna e da qualche mascella ed il secondo da alcune zanne veramente colossali, che fanno presupporre animali di dimensioni considerevoli. Si rinvennero pure resti di lepre e di volpe, di quest’ultima una testa perfettamente intatta. Appresso alle ossa di vertebrati, rinvengonsi in gran copia molluschi marini, disseminati in tutti gli strati di cenere. Numerosissime sono specialmente le così dette naridole (Monodonta turbinata Born, meno frequente la Monodonta articulata Lam) delle quali contai più di mille esemplari. Quasi altrettanto copiose sono le pantalone (900 esemplari) appartenenti alle specie Patella scutellaris Blain. P. aspera Lam. e P. suhplana Pot. e Mich., più raramente alla P. tarentina Sal. Del pari frequenti (750 esemplari) sono le ostriche (Ostrea plicatida L., meno comune l‘O. Cyrnusi Payr., le valve delle quali trovaronsi di preferenza in uno strato intermedio ed in prossimità della parete della caverna, divenendo molto più rare verso il centro. Molte valve però portano tracce di lavorazione, avendo i margini arrotondati e la superficie esterna lisciata, sicché con molta probabilità avranno servito da cucchiai, o fors’anche quali istrumenti da taglio o per lo meno raschianti, come avviene ancor al presente presso molti popoli selvaggi. A quest’ultimo scopo veniva adoperata evidentemente la valva di un mitilo, che ha il margine affilato. Devo inoltre notare che queste specie non trovansi sparse equabilmente nella grotta, predominando in un luogo l’una, altrove l‘altra con esclusione quasi assoluta delle specie diverse. Gli altri molluschi non apparvero che in piccolo numero, cosi si ebbero 24 cozze (Mytilus galloprorincialis Lam.), 8 canestrelli (Peeten glaber L.), 12 campanari (Cerithium vulgatum Brug) e 3 piè d’asino (Pectunculus insubricus Broc). Per quanta attenzione vi facessi, non potei trovare alcun resto di pesci o di crostacei, come pure d’echinodermi, di cefalopodi, ecc. Del pari vi faceva difetto qualsiasi avanzo vegetale. Che la grotta abbia servito per lunghi secoli da dimora agli animali ed all’ uomo, chiaro emerge dallo spessore degli strati di cenere e dalla quantità delle ossa e degli oggetti rinvenutivi….”

La Grotta Gigante, costituita da rocce carbonatiche prevalentemente calcaree e in minor misura dolomitiche, venne esplorata per la prima volta, e soltanto parzialmente, nel 1840 dall’ingegnere Anton Friedrich Lindner al fine di trovare nuove risorse idriche per la città. Appena nel 1890 una nuova spedizione portò alla scoperta di due nuovi ingressi, uno dei quali si prestava alla costruzione di scalinate per le visite turistiche; fu così che tra il 1905 ed il 1908 si costruì il primo percorso, ancora oggi in parte utilizzato – venne aperta ufficialmente al turismo dal Club Touristi Triestini nel 1908. Fino al 1957 per l’illuminazione si utilizzavano lampade ad acetilene, sostituite poi dall’impianto elettrico. La sua principale caratteristica è quella di essere la grotta turistica con la sala naturale più grande al mondo: alta circa 100 metri, lunga 280 metri e larga 76 metri.
Nel corso di scavi archeologici, nella Grotta Gigante sono stati rinvenuti numerosi reperti risalenti a varie epoche: punte di freccia e raschietti in selce, resti umani datati al tardo Neolitico; reperti dell’Età del bronzo (un pugnale e vasellame); tre monete di epoca romana del primo secolo d.C. e vasellame medievale.
L’origine della grotta viene fatta risalire tra i 100 e i 20 milioni di anni fa (tra il Cretacico inferiore e l’Eocene superiore), per il lento accumulo di sedimenti carbonatici sui fondali di antichi mari caldi. Questi sedimenti erano rappresentati soprattutto da parti dure (conchiglie) di organismi morti, tra i quali microscopici coralli, crostacei e molluschi misti a fanghi carbonatici. I naturali processi di diagenesi hanno in seguito trasformato tali sedimenti sciolti in strati di roccia compatta.
Questi strati dei sedimenti rocciosi, generatisi sotto i fondali marini, sono emersi circa 20-30 milioni di anni fa a causa dei lenti movimenti della crosta terrestre. La Grotta Gigante contiene abbondanti fossili di rudiste, molluschi lamellibranchi estinti 65 milioni di anni fa nel corso della grande estinzione che portò anche alla scomparsa dei dinosauri. Una volta emerse dal mare, le rocce calcaree del Carso rimasero esposte all’azione delle acque piovane e dei fiumi, che cominciarono a scavare progressivamente, per dissoluzione ed erosione, ampie gallerie sotterranee, processo rinforzato dalle acque che deviarono il loro corso nel sottosuolo. Veri e propri fiumi sotterranei continuarono in seguito ad allargare le vecchie gallerie e a crearne di nuove, ancora più profonde, mentre quelle superiori venivano gradualmente abbandonate dai corsi d’acqua. Queste cavità cominciarono a subire lenti processi di riempimento di sostanze trasportate dall’acqua di gocciolamento proveniente dagli strati di roccia superiori. L’apporto di calcare costituisce la base per la formazione di concrezioni come stalattiti, stalagmiti e colate calcitiche, mentre altri minerali contribuiscono a dare a tali concrezioni differenti colorazioni. I corsi d’acqua hanno abbandonato la cavità ormai da moltissimo tempo, in un’epoca risalente ad almeno cinque milioni di anni fa. La morfologia attuale è frutto di profonde modifiche strutturali: la spettacolare Grande Caverna deve infatti la sua origine e la sua ampiezza al crollo di un diaframma di roccia che inizialmente separava due distinte gallerie sovrapposte. Tale colossale frana, databile a circa 500.000 anni fa, ha causato l’occlusione del proseguimento della grande galleria inferiore ma ha permesso la fusione di ciò che resta di questa con la più piccola galleria superiore, creando il vastissimo ambiente oggi visitabile. Un altro antico crollo ha permesso l’unione della Grotta Gigante con un profondo pozzo verticale attiguo, generato dall’acqua piovana in epoca più recente rispetto all’origine del resto della grotta. Da quando la cavità è stata abbandonata dai corsi d’acqua, al suo interno è cominciata anche la crescita di concrezioni calcitiche. Numerosissime infatti sono le stalattiti e stalagmiti che impreziosiscono la grotta. Tra le stalagmiti, che crescono attualmente ad una velocità media di 1mm ogni 15-20 anni, spicca l’imponente “Colonna Ruggero”, alta 12 metri e formatasi in circa 200.000 anni. Molte di queste concrezioni presentano una colorazione rossastra, dovuta alla presenza di ossidi di ferro.
La gestione turistica della Grotta Gigante è affidata alla Commissione Grotte “E. Boegan”, il gruppo speleologico della Società Alpina delle Giulie (la Sezione di Trieste del Club Alpino Italiano).Visitabile tutto l’anno, oltre alle attività turistiche (90.000 visitatori all’anno) e didattiche, vi si svolgono attività di ricerca scientifica.
Nel 1997 fu costruito il nuovo percorso di risalita, dedicato a Carlo Finocchiaro, a lungo presidente della Commissione Grotte E. Boegan e figura di spicco nel mondo della speleologia internazionale. Nel 2007 si concluse l’esplorazione dell’ultimo ramo laterale della Grotta Gigante, oggi dedicato allo speleologo Giorgio Coloni, che consente di raggiungere con l’ausilio di una vera e propria via ferrata la profondità di 250 metri, termina quindi a solo 20 metri sul livello del mare. Nel 2005 è stato inaugurato il nuovo “Centro accoglienza visitatori”, che ospita anche il Museo scientifico speleologico, mentre nel 2009 è stato rinnovato integralmente l’impianto d’illuminazione della grotta.




 (Fonti: Trieste di ieri e di oggi; Trieste e la sua Storia; Wikipedia e altre)