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Il mercato in piazza della Legna (ora piazza Goldoni)

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Il mercato in piazza della Legna (piazza Goldoni). In mezzo la piazza è visibile la fontana. 
Foto collezione Antonio Paladini

Nel 1774 venne costruita una fontana a pompa, sull’antico pozzo di San Lazzaro, modificata nel 1846 con una struttura ottagonale, più elaborata a edicola. Già tre anni dopo veniva sostituita da una elegante fontanella appoggiata su uno zoccolo poligonale in pietra con quattro vasche a coppa su una colonnetta, con l’acqua che sgorgava dal becco di mitici volatili ad ali spiegate, la colonnetta era sovrastata da un lampione. Non posso proporvi l’ingrandimento per la bassa definizione dell’immagine.
A sinistra si vedono ancora le case che saranno demolite per la costruzione dell’elegante palazzo commissionato dell’avvocato Teodoro Georgiadis. (M. Tauceri)

Riva Carciotti con il treno

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La riva Carciotti con il treno, in primo piano la chiesa greco-ortodossa di San Nicolò e l'Hotel de la Ville 
Foto collezione Sergio Sergas

Galleria di Montuzza

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Galleria di Montuzza. Foto collezione Antonio Paladini.
Un abusivo sul carro che sta per entrare nella galleria di Montuzza (Sandrinelli)… Mi hanno raccontato che i ragazzi usavano salire sui carri, senza farsi vedere, per usufruire di passaggi, spesso il conducente si accorgeva del passeggero irregolare e faceva schioccare la frusta all’indietro per indurlo a scendere.
Via Silvio Pellico denominazione apposta nel 1906, durante il primo conflitto mondiale la strada si chiamò via San Primo, in origine era un tratto di via della Fornace.  (M. Tauceri)

Piazza Grande (ora Unità d’Italia), 1905

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Piazza Grande (ora Unità d'Italia), 1905.
Foto collezione privata
La dicitura della foto scrive “un gruppo di popolani 1905”, forse si sono messi in posa alla vista del fotografo, oppure si tratta di un gruppo di persone in visita alla città. (M. Tauceri)

Rive – fra il ponte Verde e il ponte Nuovo o Bianco

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Fra il ponte Verde (a sinistra) e il ponte Nuovo o Bianco. Foto collezione Antonio Paladini
Fra il ponte Verde (a sinistra) e il ponte Nuovo o Bianco (costruito nel 1909) alcuni bambini guardano qualcosa con curiosità, forse i pescatori, mi sembra di vedere delle nasse molto grandi.
(M. Tauceri)

Tor Cucherna

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Tor Cucherna
A sinistra la Tor Cucherna, l’edificio un po’ particolare al centro, è l’asilo comunale aperto nel 1855, poi scuola materna di tor Cucherna. Una strada particolare, fatta di scale che si arrampica fino al colle di San Giusto è via Giuseppe Rota (dedicata all’illustre musicista-compositore 1833-1911), fino al 1919 si chiamava via di Montuzza, in alto la Casa di Carlo Regensdorf, un intraprendente uomo d’affari venuto a Trieste dalla Frisia nel 1815. Sull’ ingresso della casa si può vedere ancora oggi, la data di costruzione e la “R” iniziale del proprietario. (M. Tauceri)

Piazza Venezia – Monumento a Massimiliano

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Monumento dedicato a Ferdinando Massimiliano d'Austria, opera di J. Schilling. Fu inaugurato il 3 aprile 1875 in piazza Giuseppina (ora piazza Venezia).Collezione Sergio Sergas
 
Mentre Massimiliano in divisa di ammiraglio guarda il suo mare, in piazza e sulle rive si vede un’intensa vita lavorativa. Si stanno allargando le rive e creando il terrapieno sul quale sarà edificata la pescheria. Si vedono i barconi carichi di pietre e uno yacht bianco con una ruota a pale
Alla base del monumento si riescono ad apprezzare molto bene gli altorilievi allegorici dei quattro continenti, alternati a piccoli medaglioni con i simboli della scienza, della poesia, delle arti e dell’industria. (M. Tauceri)

Giuseppe Barison (Trieste 1853 – 1931) – Bragozzi al largo

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Giuseppe Barison (Trieste 1853 – 1931). Bragozzi al largo, olio su tavola. Trieste, collezione privata
 
L’artista nacque a Trieste il 5 settembre del 1853 da Francesco, di professione sarto e Caterina Frausin.
Notato sin da giovane per le capacità nel disegno, fu sostenuto dalla nobile Anna De Rin la quale, lo avviò dapprima all’arte frequentando lo studio del pittore Karl Emil Haase a Trieste ed in seguito gli permise di iscriversi all’Accademia di Belle Arti di Vienna.
Qui a partire dal 1872 Barison prese a seguire le lezioni del nazareno Karl Von Blaas, Eduard Von Engerth e soprattutto di August Eisenmenger che accostò il giovane alla pittura di storia.
Dai taccuini del periodo accademico presso gli eredi del pittore, possiamo stabilire quanto l’iter formativo fosse rigido sia dal punto di vista pratico che teorico con Barison pronto ad appuntarsi i volumi da leggere per proseguire negli studi.
Tornato a Trieste nel 1876 egli si impose l’anno seguente, nel 1877, partecipando alla Nona Esposizione di Belle Arti con il dipinto a carattere storico Isabella Orsini e il suo paggio che gli consentì di ottenere dal Comune di Trieste un ricco pensionato da poter usufruire per due anni a Roma.
Così Barison giunse nella città eterna fissando su carte e tele i luoghi che andava visitando e che aveva visto nelle opere del suo primo maestro a Trieste, Karl Haase. Tuttavia il soggiorno romano non fu proficuo a causa delle critiche piovute sul dipinto Muzio Attendolo Sforza (Museo Civico Revoltella di Trieste) che si accanivano sulla postura del cavallo definita “non naturale”. In realtà il gusto dell’epoca era cambiato e Barison si trovava a proporre un dipinto di matrice storicista in una città, Roma, che aveva ormai abbandonato tali soggetti. Eppure la tela, sebbene anacronistica, vede Barison sganciarsi da un rigido accademismo e aprirsi, se pur timidamente, ad ariosi scorci naturalistici.
Conclusa l’amara parentesi romana, egli tornò a Trieste ed iniziò a dedicarsi a quello che fu indubbiamente il pezzo forte del suo repertorio pittorico, vale a dire il ritratto; un genere, questo, che gli consentì non solo di esprimersi al meglio ma di sostenersi economicamente.
Eppure la parentesi romana aveva lasciato qualcosa di buono nel pittore; egli infatti aveva capito di doversi sintonizzare sulle nuove tendenze artistiche dell’epoca. Si indirizzò quindi verso Venezia e la pittura di Giacomo Favretto che lo influenzò in modo decisivo. Iniziò a partecipare alle esposizioni organizzate dalla Società Veneta Promotrice di Belle Arti a partire dal 1880 e copiò Il Farmacista del maestro veneziano oltre a carpire i segreti di quella tradizione coloristica veneziana, mai passata di moda.
Prima di trasferirsi in pianta stabile a Venezia, però, egli si era innamorato di Giulia Rosa Desman una ragazza di famiglia alto borghese di Trieste; nonostante la diversità di ceto egli la sposò nel 1883 e ne fu legato con estremo affetto sino alla morte, avvenuta, per Giulia, nel 1926.
Domiciliato quindi a Venezia, dove vi rimase sino al 1887, si dedicò alla pittura di genere riportando notevoli successi, anche di critica che sfociarono nel 1886 in occasione della mostra di Brera a Milano con la Pescheria a Rialto (Alessandria, Pinacoteca Civica). Il dipinto vinse il premio Principe Umberto ma, a causa della nazionalità non italiana di Barison, venne revocato. Ma al di là dell’increscioso episodio, la tavolozza di Barison si era arricchita tra le lagune, aveva trovato nuova linfa e una sua connotazione ben precisa tra i pittori veneziani. Tuttavia la moglie Giulia, che poco si era ambientata a Venezia e che già aveva dato a Giuseppe ben tre figli (Arnaldo, Cesare ed Ester), chiese al marito di rientrare a Trieste e Barison acconsentì. Tornò dunque a Trieste, accolto dai circoli artistici con rispetto ma anche con una certa freddezza, dovuta in parte al sua carattere certo non facile e malleabile ed in parte da questa sua dichiarata pittura veneziana. Ma che pittura fu quella di Barison dal 1887 al 1931, anno della sua morte? Ancora una volta ci viene incontro Venezia; questa volta non per un clima generale ma per l’esposizione nazionale del 1887. Barison, in quell’occasione, poté vedere alcuni dipinti di primo piano nel panorama artistico italiano dell’epoca. Furono due i quadri che lo colpirono maggiormente; uno, del napoletano Michele Cammarano dal titolo La Rissa, caratterizzato da accenti patetici, un forte dinamismo e una assoluta teatralità nei gesti, l’altro, del genovese Nicolò Barabino dal titolo Quasi oliva speciosa, dal forte impatto sacrale rivisto in chiave simbolista che diede il la per il capolavoro nella produzione di Giuseppe Barison.
La rissa venne ripreso poco tempo dopo l’esposizione veneziana da Barison e tramutata in Dopo una rissa, mentre Quasi oliva speciosa in campis vide una sua personale e poetica versione nel 1899, a distanza di ben dodici anni.
La tela – che ha rivisto la luce con il volume edito dalla Fondazione Cassa di Risparmio e si presenta entro una ricca e monumentale cornice dell’epoca intagliata e dipinta dallo stesso Barison – trova nelle parole di introduzione del professor Giuseppe Pavanello la giusta descrizione: “sospesa fra realtà e idealità, da cui si sprigiona l’incanto, o, meglio, l’incantesimo dell’apparizione divina, accostante e, al tempo stesso, ieratica”.
Un momento unico il 1899 per il pittore (ben testimoniato anche dal piccolo e prezioso autoritratto) com se, idealmente, egli sprigionasse gli ultimi bagliori della sua arte e volesse rifuggire l’arrivo del nuovo secolo. Con il ‘900 infatti, la sua pennellata perde in fluidità e sebbene la sua fama a Trieste cresca notevolmente sino a portarlo a realizzare i pannelli per la Cassa di Risparmio di Trieste nel 1912 raffiguranti I Costruttori (dove ci offre un autoritratto nell’uomo in primo piano caratterizzato dalla svolazzante veste rossa) e I Mercanti egli non ha più quella forza di fine XIX secolo.
Protagonisti indiscussi delle sue tele nei primi del secolo sono i cavalli realizzati con estrema cura e meticolosità come nel dipinto Antica Canzone (Comune di Trieste) che sebbene utilizzati a cornice del dipinto divengono il fulcro della composizione facendo finire la scena degli innamorati in secondo piano.
Molti i dipinti rintracciati di formato fortemente verticale di tale filone che, con ogni probabilità, permettevano a Barison di creare quell’effetto della corsa a cavallo in maniera il più possibile veritiera.
Barison, ormai maturo, poteva così pensare ad una onesta vecchiaia fra le mura domestiche ed invece arrivò la guerra che lo costrinse ad emigrare in terra italiana e più precisamente a Pegli, in Liguria. Qui vi soggiornò dal 1915 al 1918 in casa del genero Roberto Amadi e della figlia Ester e iniziò ad accostarsi con continuità alla pittura di paesaggio e di marine.
Tornato a Trieste infatti, non abbandonò più tali soggetti e divenne con Guido Grimani e Ugo Flumiani uno dei massimi cantori di Trieste e del suo mare.
Nel raffigurare il mare di Trieste riuscì a raggiungere a volte un gusto post-impressionista come ben evidenziano le ultime ed estreme tavole realizzate en plein air; una volta a settimana egli chiudeva lo studio e si recava con i pennelli e queste piccole tavole in giro per la città posizionandosi ore ed ore nell’attesa di vedere con un particolare effetto luministico un’immagine nuova di Trieste e del suo mare.
In questi ultimi anni Barison non aveva chiuso del tutto le porte alle nuove istanze pittoriche ben esemplificate dai dipinti di Umberto Veruda, che aveva avuto modo di ritrarre Giuseppe nella sua breve esistenza, che sebbene superato faceva ancora presa per quella sua pittura sfarfallante “alla Boldini” e contraddistinta da larghe campiture di colore.
Ne sono un chiaro esempio l’Autoritratto del 1925 ed il Ritratto di donna (Trieste, collezione privata) creduto proprio di mano di Veruda.
Purtroppo la scomparsa di Giulia nel 1926 diede una spallata notevole al modus operandi di Barison che su volere dei figli, non abbandonò del tutto la pittura; gli ultimi ritratti mostrano chiaramente solo l’ombra del grande mestierante quale fu alla fine dell’Ottocento, un secolo che non aveva mai abbandonato.
Era uomo comunque dall’animo curioso anche in piena maturità tanto da cimentarsi con la musica (il figlio Cesare era un affermato violinista) e con le lingue per le quali era particolarmente portato.
Chiuse la sua parabola esistenziale nel 1931.
(Matteo Gardonio)

Giuseppe Barison (Trieste 1853 – 1931) – Navi nel porto di Trieste

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Giuseppe Barison (Trieste 1853 – 1931). Navi nel porto di Trieste.
Olio su tavoletta, Trieste, collezione privata
 
L’artista nacque a Trieste il 5 settembre del 1853 da Francesco, di professione sarto e Caterina Frausin.
Notato sin da giovane per le capacità nel disegno, fu sostenuto dalla nobile Anna De Rin la quale, lo avviò dapprima all’arte frequentando lo studio del pittore Karl Emil Haase a Trieste ed in seguito gli permise di iscriversi all’Accademia di Belle Arti di Vienna.
Qui a partire dal 1872 Barison prese a seguire le lezioni del nazareno Karl Von Blaas, Eduard Von Engerth e soprattutto di August Eisenmenger che accostò il giovane alla pittura di storia.
Dai taccuini del periodo accademico presso gli eredi del pittore, possiamo stabilire quanto l’iter formativo fosse rigido sia dal punto di vista pratico che teorico con Barison pronto ad appuntarsi i volumi da leggere per proseguire negli studi.
Tornato a Trieste nel 1876 egli si impose l’anno seguente, nel 1877, partecipando alla Nona Esposizione di Belle Arti con il dipinto a carattere storico Isabella Orsini e il suo paggio che gli consentì di ottenere dal Comune di Trieste un ricco pensionato da poter usufruire per due anni a Roma.
Così Barison giunse nella città eterna fissando su carte e tele i luoghi che andava visitando e che aveva visto nelle opere del suo primo maestro a Trieste, Karl Haase. Tuttavia il soggiorno romano non fu proficuo a causa delle critiche piovute sul dipinto Muzio Attendolo Sforza (Museo Civico Revoltella di Trieste) che si accanivano sulla postura del cavallo definita “non naturale”. In realtà il gusto dell’epoca era cambiato e Barison si trovava a proporre un dipinto di matrice storicista in una città, Roma, che aveva ormai abbandonato tali soggetti. Eppure la tela, sebbene anacronistica, vede Barison sganciarsi da un rigido accademismo e aprirsi, se pur timidamente, ad ariosi scorci naturalistici.
Conclusa l’amara parentesi romana, egli tornò a Trieste ed iniziò a dedicarsi a quello che fu indubbiamente il pezzo forte del suo repertorio pittorico, vale a dire il ritratto; un genere, questo, che gli consentì non solo di esprimersi al meglio ma di sostenersi economicamente.
Eppure la parentesi romana aveva lasciato qualcosa di buono nel pittore; egli infatti aveva capito di doversi sintonizzare sulle nuove tendenze artistiche dell’epoca. Si indirizzò quindi verso Venezia e la pittura di Giacomo Favretto che lo influenzò in modo decisivo. Iniziò a partecipare alle esposizioni organizzate dalla Società Veneta Promotrice di Belle Arti a partire dal 1880 e copiò Il Farmacista del maestro veneziano oltre a carpire i segreti di quella tradizione coloristica veneziana, mai passata di moda.
Prima di trasferirsi in pianta stabile a Venezia, però, egli si era innamorato di Giulia Rosa Desman una ragazza di famiglia alto borghese di Trieste; nonostante la diversità di ceto egli la sposò nel 1883 e ne fu legato con estremo affetto sino alla morte, avvenuta, per Giulia, nel 1926.
Domiciliato quindi a Venezia, dove vi rimase sino al 1887, si dedicò alla pittura di genere riportando notevoli successi, anche di critica che sfociarono nel 1886 in occasione della mostra di Brera a Milano con la Pescheria a Rialto (Alessandria, Pinacoteca Civica). Il dipinto vinse il premio Principe Umberto ma, a causa della nazionalità non italiana di Barison, venne revocato. Ma al di là dell’increscioso episodio, la tavolozza di Barison si era arricchita tra le lagune, aveva trovato nuova linfa e una sua connotazione ben precisa tra i pittori veneziani. Tuttavia la moglie Giulia, che poco si era ambientata a Venezia e che già aveva dato a Giuseppe ben tre figli (Arnaldo, Cesare ed Ester), chiese al marito di rientrare a Trieste e Barison acconsentì. Tornò dunque a Trieste, accolto dai circoli artistici con rispetto ma anche con una certa freddezza, dovuta in parte al sua carattere certo non facile e malleabile ed in parte da questa sua dichiarata pittura veneziana. Ma che pittura fu quella di Barison dal 1887 al 1931, anno della sua morte? Ancora una volta ci viene incontro Venezia; questa volta non per un clima generale ma per l’esposizione nazionale del 1887. Barison, in quell’occasione, poté vedere alcuni dipinti di primo piano nel panorama artistico italiano dell’epoca. Furono due i quadri che lo colpirono maggiormente; uno, del napoletano Michele Cammarano dal titolo La Rissa, caratterizzato da accenti patetici, un forte dinamismo e una assoluta teatralità nei gesti, l’altro, del genovese Nicolò Barabino dal titolo Quasi oliva speciosa, dal forte impatto sacrale rivisto in chiave simbolista che diede il la per il capolavoro nella produzione di Giuseppe Barison.
La rissa venne ripreso poco tempo dopo l’esposizione veneziana da Barison e tramutata in Dopo una rissa, mentre Quasi oliva speciosa in campis vide una sua personale e poetica versione nel 1899, a distanza di ben dodici anni.
La tela – che ha rivisto la luce con il volume edito dalla Fondazione Cassa di Risparmio e si presenta entro una ricca e monumentale cornice dell’epoca intagliata e dipinta dallo stesso Barison – trova nelle parole di introduzione del professor Giuseppe Pavanello la giusta descrizione: “sospesa fra realtà e idealità, da cui si sprigiona l’incanto, o, meglio, l’incantesimo dell’apparizione divina, accostante e, al tempo stesso, ieratica”.
Un momento unico il 1899 per il pittore (ben testimoniato anche dal piccolo e prezioso autoritratto) com se, idealmente, egli sprigionasse gli ultimi bagliori della sua arte e volesse rifuggire l’arrivo del nuovo secolo. Con il ‘900 infatti, la sua pennellata perde in fluidità e sebbene la sua fama a Trieste cresca notevolmente sino a portarlo a realizzare i pannelli per la Cassa di Risparmio di Trieste nel 1912 raffiguranti I Costruttori (dove ci offre un autoritratto nell’uomo in primo piano caratterizzato dalla svolazzante veste rossa) e I Mercanti egli non ha più quella forza di fine XIX secolo.
Protagonisti indiscussi delle sue tele nei primi del secolo sono i cavalli realizzati con estrema cura e meticolosità come nel dipinto Antica Canzone (Comune di Trieste) che sebbene utilizzati a cornice del dipinto divengono il fulcro della composizione facendo finire la scena degli innamorati in secondo piano.
Molti i dipinti rintracciati di formato fortemente verticale di tale filone che, con ogni probabilità, permettevano a Barison di creare quell’effetto della corsa a cavallo in maniera il più possibile veritiera.
Barison, ormai maturo, poteva così pensare ad una onesta vecchiaia fra le mura domestiche ed invece arrivò la guerra che lo costrinse ad emigrare in terra italiana e più precisamente a Pegli, in Liguria. Qui vi soggiornò dal 1915 al 1918 in casa del genero Roberto Amadi e della figlia Ester e iniziò ad accostarsi con continuità alla pittura di paesaggio e di marine.
Tornato a Trieste infatti, non abbandonò più tali soggetti e divenne con Guido Grimani e Ugo Flumiani uno dei massimi cantori di Trieste e del suo mare.
Nel raffigurare il mare di Trieste riuscì a raggiungere a volte un gusto post-impressionista come ben evidenziano le ultime ed estreme tavole realizzate en plein air; una volta a settimana egli chiudeva lo studio e si recava con i pennelli e queste piccole tavole in giro per la città posizionandosi ore ed ore nell’attesa di vedere con un particolare effetto luministico un’immagine nuova di Trieste e del suo mare.
In questi ultimi anni Barison non aveva chiuso del tutto le porte alle nuove istanze pittoriche ben esemplificate dai dipinti di Umberto Veruda, che aveva avuto modo di ritrarre Giuseppe nella sua breve esistenza, che sebbene superato faceva ancora presa per quella sua pittura sfarfallante “alla Boldini” e contraddistinta da larghe campiture di colore.
Ne sono un chiaro esempio l’Autoritratto del 1925 ed il Ritratto di donna (Trieste, collezione privata) creduto proprio di mano di Veruda.
Purtroppo la scomparsa di Giulia nel 1926 diede una spallata notevole al modus operandi di Barison che su volere dei figli, non abbandonò del tutto la pittura; gli ultimi ritratti mostrano chiaramente solo l’ombra del grande mestierante quale fu alla fine dell’Ottocento, un secolo che non aveva mai abbandonato.
Era uomo comunque dall’animo curioso anche in piena maturità tanto da cimentarsi con la musica (il figlio Cesare era un affermato violinista) e con le lingue per le quali era particolarmente portato.
Chiuse la sua parabola esistenziale nel 1931.
(Matteo Gardonio)

Giuseppe Barison (Trieste 1853 – 1931) – In prossimità del Carso

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Giuseppe Barison (Trieste 1853 – 1931). In prossimità del Carso, olio su tavola. Trieste, collezione privata
 
L’artista nacque a Trieste il 5 settembre del 1853 da Francesco, di professione sarto e Caterina Frausin.
Notato sin da giovane per le capacità nel disegno, fu sostenuto dalla nobile Anna De Rin la quale, lo avviò dapprima all’arte frequentando lo studio del pittore Karl Emil Haase a Trieste ed in seguito gli permise di iscriversi all’Accademia di Belle Arti di Vienna.
Qui a partire dal 1872 Barison prese a seguire le lezioni del nazareno Karl Von Blaas, Eduard Von Engerth e soprattutto di August Eisenmenger che accostò il giovane alla pittura di storia.
Dai taccuini del periodo accademico presso gli eredi del pittore, possiamo stabilire quanto l’iter formativo fosse rigido sia dal punto di vista pratico che teorico con Barison pronto ad appuntarsi i volumi da leggere per proseguire negli studi.
Tornato a Trieste nel 1876 egli si impose l’anno seguente, nel 1877, partecipando alla Nona Esposizione di Belle Arti con il dipinto a carattere storico Isabella Orsini e il suo paggio che gli consentì di ottenere dal Comune di Trieste un ricco pensionato da poter usufruire per due anni a Roma.
Così Barison giunse nella città eterna fissando su carte e tele i luoghi che andava visitando e che aveva visto nelle opere del suo primo maestro a Trieste, Karl Haase. Tuttavia il soggiorno romano non fu proficuo a causa delle critiche piovute sul dipinto Muzio Attendolo Sforza (Museo Civico Revoltella di Trieste) che si accanivano sulla postura del cavallo definita “non naturale”. In realtà il gusto dell’epoca era cambiato e Barison si trovava a proporre un dipinto di matrice storicista in una città, Roma, che aveva ormai abbandonato tali soggetti. Eppure la tela, sebbene anacronistica, vede Barison sganciarsi da un rigido accademismo e aprirsi, se pur timidamente, ad ariosi scorci naturalistici.
Conclusa l’amara parentesi romana, egli tornò a Trieste ed iniziò a dedicarsi a quello che fu indubbiamente il pezzo forte del suo repertorio pittorico, vale a dire il ritratto; un genere, questo, che gli consentì non solo di esprimersi al meglio ma di sostenersi economicamente.
Eppure la parentesi romana aveva lasciato qualcosa di buono nel pittore; egli infatti aveva capito di doversi sintonizzare sulle nuove tendenze artistiche dell’epoca. Si indirizzò quindi verso Venezia e la pittura di Giacomo Favretto che lo influenzò in modo decisivo. Iniziò a partecipare alle esposizioni organizzate dalla Società Veneta Promotrice di Belle Arti a partire dal 1880 e copiò Il Farmacista del maestro veneziano oltre a carpire i segreti di quella tradizione coloristica veneziana, mai passata di moda.
Prima di trasferirsi in pianta stabile a Venezia, però, egli si era innamorato di Giulia Rosa Desman una ragazza di famiglia alto borghese di Trieste; nonostante la diversità di ceto egli la sposò nel 1883 e ne fu legato con estremo affetto sino alla morte, avvenuta, per Giulia, nel 1926.
Domiciliato quindi a Venezia, dove vi rimase sino al 1887, si dedicò alla pittura di genere riportando notevoli successi, anche di critica che sfociarono nel 1886 in occasione della mostra di Brera a Milano con la Pescheria a Rialto (Alessandria, Pinacoteca Civica). Il dipinto vinse il premio Principe Umberto ma, a causa della nazionalità non italiana di Barison, venne revocato. Ma al di là dell’increscioso episodio, la tavolozza di Barison si era arricchita tra le lagune, aveva trovato nuova linfa e una sua connotazione ben precisa tra i pittori veneziani. Tuttavia la moglie Giulia, che poco si era ambientata a Venezia e che già aveva dato a Giuseppe ben tre figli (Arnaldo, Cesare ed Ester), chiese al marito di rientrare a Trieste e Barison acconsentì. Tornò dunque a Trieste, accolto dai circoli artistici con rispetto ma anche con una certa freddezza, dovuta in parte al sua carattere certo non facile e malleabile ed in parte da questa sua dichiarata pittura veneziana. Ma che pittura fu quella di Barison dal 1887 al 1931, anno della sua morte? Ancora una volta ci viene incontro Venezia; questa volta non per un clima generale ma per l’esposizione nazionale del 1887. Barison, in quell’occasione, poté vedere alcuni dipinti di primo piano nel panorama artistico italiano dell’epoca. Furono due i quadri che lo colpirono maggiormente; uno, del napoletano Michele Cammarano dal titolo La Rissa, caratterizzato da accenti patetici, un forte dinamismo e una assoluta teatralità nei gesti, l’altro, del genovese Nicolò Barabino dal titolo Quasi oliva speciosa, dal forte impatto sacrale rivisto in chiave simbolista che diede il la per il capolavoro nella produzione di Giuseppe Barison.
La rissa venne ripreso poco tempo dopo l’esposizione veneziana da Barison e tramutata in Dopo una rissa, mentre Quasi oliva speciosa in campis vide una sua personale e poetica versione nel 1899, a distanza di ben dodici anni.
La tela – che ha rivisto la luce con il volume edito dalla Fondazione Cassa di Risparmio e si presenta entro una ricca e monumentale cornice dell’epoca intagliata e dipinta dallo stesso Barison – trova nelle parole di introduzione del professor Giuseppe Pavanello la giusta descrizione: “sospesa fra realtà e idealità, da cui si sprigiona l’incanto, o, meglio, l’incantesimo dell’apparizione divina, accostante e, al tempo stesso, ieratica”.
Un momento unico il 1899 per il pittore (ben testimoniato anche dal piccolo e prezioso autoritratto) com se, idealmente, egli sprigionasse gli ultimi bagliori della sua arte e volesse rifuggire l’arrivo del nuovo secolo. Con il ‘900 infatti, la sua pennellata perde in fluidità e sebbene la sua fama a Trieste cresca notevolmente sino a portarlo a realizzare i pannelli per la Cassa di Risparmio di Trieste nel 1912 raffiguranti I Costruttori (dove ci offre un autoritratto nell’uomo in primo piano caratterizzato dalla svolazzante veste rossa) e I Mercanti egli non ha più quella forza di fine XIX secolo.
Protagonisti indiscussi delle sue tele nei primi del secolo sono i cavalli realizzati con estrema cura e meticolosità come nel dipinto Antica Canzone (Comune di Trieste) che sebbene utilizzati a cornice del dipinto divengono il fulcro della composizione facendo finire la scena degli innamorati in secondo piano.
Molti i dipinti rintracciati di formato fortemente verticale di tale filone che, con ogni probabilità, permettevano a Barison di creare quell’effetto della corsa a cavallo in maniera il più possibile veritiera.
Barison, ormai maturo, poteva così pensare ad una onesta vecchiaia fra le mura domestiche ed invece arrivò la guerra che lo costrinse ad emigrare in terra italiana e più precisamente a Pegli, in Liguria. Qui vi soggiornò dal 1915 al 1918 in casa del genero Roberto Amadi e della figlia Ester e iniziò ad accostarsi con continuità alla pittura di paesaggio e di marine.
Tornato a Trieste infatti, non abbandonò più tali soggetti e divenne con Guido Grimani e Ugo Flumiani uno dei massimi cantori di Trieste e del suo mare.
Nel raffigurare il mare di Trieste riuscì a raggiungere a volte un gusto post-impressionista come ben evidenziano le ultime ed estreme tavole realizzate en plein air; una volta a settimana egli chiudeva lo studio e si recava con i pennelli e queste piccole tavole in giro per la città posizionandosi ore ed ore nell’attesa di vedere con un particolare effetto luministico un’immagine nuova di Trieste e del suo mare.
In questi ultimi anni Barison non aveva chiuso del tutto le porte alle nuove istanze pittoriche ben esemplificate dai dipinti di Umberto Veruda, che aveva avuto modo di ritrarre Giuseppe nella sua breve esistenza, che sebbene superato faceva ancora presa per quella sua pittura sfarfallante “alla Boldini” e contraddistinta da larghe campiture di colore.
Ne sono un chiaro esempio l’Autoritratto del 1925 ed il Ritratto di donna (Trieste, collezione privata) creduto proprio di mano di Veruda.
Purtroppo la scomparsa di Giulia nel 1926 diede una spallata notevole al modus operandi di Barison che su volere dei figli, non abbandonò del tutto la pittura; gli ultimi ritratti mostrano chiaramente solo l’ombra del grande mestierante quale fu alla fine dell’Ottocento, un secolo che non aveva mai abbandonato.
Era uomo comunque dall’animo curioso anche in piena maturità tanto da cimentarsi con la musica (il figlio Cesare era un affermato violinista) e con le lingue per le quali era particolarmente portato.
Chiuse la sua parabola esistenziale nel 1931.
(Matteo Gardonio)

Giuseppe Barison (Trieste 1853 – 1931) – Marina

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Giuseppe Barison (Trieste 1853 – 1931). Marina, aste pubbliche
 
L’artista nacque a Trieste il 5 settembre del 1853 da Francesco, di professione sarto e Caterina Frausin.
Notato sin da giovane per le capacità nel disegno, fu sostenuto dalla nobile Anna De Rin la quale, lo avviò dapprima all’arte frequentando lo studio del pittore Karl Emil Haase a Trieste ed in seguito gli permise di iscriversi all’Accademia di Belle Arti di Vienna.
Qui a partire dal 1872 Barison prese a seguire le lezioni del nazareno Karl Von Blaas, Eduard Von Engerth e soprattutto di August Eisenmenger che accostò il giovane alla pittura di storia.
Dai taccuini del periodo accademico presso gli eredi del pittore, possiamo stabilire quanto l’iter formativo fosse rigido sia dal punto di vista pratico che teorico con Barison pronto ad appuntarsi i volumi da leggere per proseguire negli studi.
Tornato a Trieste nel 1876 egli si impose l’anno seguente, nel 1877, partecipando alla Nona Esposizione di Belle Arti con il dipinto a carattere storico Isabella Orsini e il suo paggio che gli consentì di ottenere dal Comune di Trieste un ricco pensionato da poter usufruire per due anni a Roma.
Così Barison giunse nella città eterna fissando su carte e tele i luoghi che andava visitando e che aveva visto nelle opere del suo primo maestro a Trieste, Karl Haase. Tuttavia il soggiorno romano non fu proficuo a causa delle critiche piovute sul dipinto Muzio Attendolo Sforza (Museo Civico Revoltella di Trieste) che si accanivano sulla postura del cavallo definita “non naturale”. In realtà il gusto dell’epoca era cambiato e Barison si trovava a proporre un dipinto di matrice storicista in una città, Roma, che aveva ormai abbandonato tali soggetti. Eppure la tela, sebbene anacronistica, vede Barison sganciarsi da un rigido accademismo e aprirsi, se pur timidamente, ad ariosi scorci naturalistici.
Conclusa l’amara parentesi romana, egli tornò a Trieste ed iniziò a dedicarsi a quello che fu indubbiamente il pezzo forte del suo repertorio pittorico, vale a dire il ritratto; un genere, questo, che gli consentì non solo di esprimersi al meglio ma di sostenersi economicamente.
Eppure la parentesi romana aveva lasciato qualcosa di buono nel pittore; egli infatti aveva capito di doversi sintonizzare sulle nuove tendenze artistiche dell’epoca. Si indirizzò quindi verso Venezia e la pittura di Giacomo Favretto che lo influenzò in modo decisivo. Iniziò a partecipare alle esposizioni organizzate dalla Società Veneta Promotrice di Belle Arti a partire dal 1880 e copiò Il Farmacista del maestro veneziano oltre a carpire i segreti di quella tradizione coloristica veneziana, mai passata di moda.
Prima di trasferirsi in pianta stabile a Venezia, però, egli si era innamorato di Giulia Rosa Desman una ragazza di famiglia alto borghese di Trieste; nonostante la diversità di ceto egli la sposò nel 1883 e ne fu legato con estremo affetto sino alla morte, avvenuta, per Giulia, nel 1926.
Domiciliato quindi a Venezia, dove vi rimase sino al 1887, si dedicò alla pittura di genere riportando notevoli successi, anche di critica che sfociarono nel 1886 in occasione della mostra di Brera a Milano con la Pescheria a Rialto (Alessandria, Pinacoteca Civica). Il dipinto vinse il premio Principe Umberto ma, a causa della nazionalità non italiana di Barison, venne revocato. Ma al di là dell’increscioso episodio, la tavolozza di Barison si era arricchita tra le lagune, aveva trovato nuova linfa e una sua connotazione ben precisa tra i pittori veneziani. Tuttavia la moglie Giulia, che poco si era ambientata a Venezia e che già aveva dato a Giuseppe ben tre figli (Arnaldo, Cesare ed Ester), chiese al marito di rientrare a Trieste e Barison acconsentì. Tornò dunque a Trieste, accolto dai circoli artistici con rispetto ma anche con una certa freddezza, dovuta in parte al sua carattere certo non facile e malleabile ed in parte da questa sua dichiarata pittura veneziana. Ma che pittura fu quella di Barison dal 1887 al 1931, anno della sua morte? Ancora una volta ci viene incontro Venezia; questa volta non per un clima generale ma per l’esposizione nazionale del 1887. Barison, in quell’occasione, poté vedere alcuni dipinti di primo piano nel panorama artistico italiano dell’epoca. Furono due i quadri che lo colpirono maggiormente; uno, del napoletano Michele Cammarano dal titolo La Rissa, caratterizzato da accenti patetici, un forte dinamismo e una assoluta teatralità nei gesti, l’altro, del genovese Nicolò Barabino dal titolo Quasi oliva speciosa, dal forte impatto sacrale rivisto in chiave simbolista che diede il la per il capolavoro nella produzione di Giuseppe Barison.
La rissa venne ripreso poco tempo dopo l’esposizione veneziana da Barison e tramutata in Dopo una rissa, mentre Quasi oliva speciosa in campis vide una sua personale e poetica versione nel 1899, a distanza di ben dodici anni.
La tela – che ha rivisto la luce con il volume edito dalla Fondazione Cassa di Risparmio e si presenta entro una ricca e monumentale cornice dell’epoca intagliata e dipinta dallo stesso Barison – trova nelle parole di introduzione del professor Giuseppe Pavanello la giusta descrizione: “sospesa fra realtà e idealità, da cui si sprigiona l’incanto, o, meglio, l’incantesimo dell’apparizione divina, accostante e, al tempo stesso, ieratica”.
Un momento unico il 1899 per il pittore (ben testimoniato anche dal piccolo e prezioso autoritratto) com se, idealmente, egli sprigionasse gli ultimi bagliori della sua arte e volesse rifuggire l’arrivo del nuovo secolo. Con il ‘900 infatti, la sua pennellata perde in fluidità e sebbene la sua fama a Trieste cresca notevolmente sino a portarlo a realizzare i pannelli per la Cassa di Risparmio di Trieste nel 1912 raffiguranti I Costruttori (dove ci offre un autoritratto nell’uomo in primo piano caratterizzato dalla svolazzante veste rossa) e I Mercanti egli non ha più quella forza di fine XIX secolo.
Protagonisti indiscussi delle sue tele nei primi del secolo sono i cavalli realizzati con estrema cura e meticolosità come nel dipinto Antica Canzone (Comune di Trieste) che sebbene utilizzati a cornice del dipinto divengono il fulcro della composizione facendo finire la scena degli innamorati in secondo piano.
Molti i dipinti rintracciati di formato fortemente verticale di tale filone che, con ogni probabilità, permettevano a Barison di creare quell’effetto della corsa a cavallo in maniera il più possibile veritiera.
Barison, ormai maturo, poteva così pensare ad una onesta vecchiaia fra le mura domestiche ed invece arrivò la guerra che lo costrinse ad emigrare in terra italiana e più precisamente a Pegli, in Liguria. Qui vi soggiornò dal 1915 al 1918 in casa del genero Roberto Amadi e della figlia Ester e iniziò ad accostarsi con continuità alla pittura di paesaggio e di marine.
Tornato a Trieste infatti, non abbandonò più tali soggetti e divenne con Guido Grimani e Ugo Flumiani uno dei massimi cantori di Trieste e del suo mare.
Nel raffigurare il mare di Trieste riuscì a raggiungere a volte un gusto post-impressionista come ben evidenziano le ultime ed estreme tavole realizzate en plein air; una volta a settimana egli chiudeva lo studio e si recava con i pennelli e queste piccole tavole in giro per la città posizionandosi ore ed ore nell’attesa di vedere con un particolare effetto luministico un’immagine nuova di Trieste e del suo mare.
In questi ultimi anni Barison non aveva chiuso del tutto le porte alle nuove istanze pittoriche ben esemplificate dai dipinti di Umberto Veruda, che aveva avuto modo di ritrarre Giuseppe nella sua breve esistenza, che sebbene superato faceva ancora presa per quella sua pittura sfarfallante “alla Boldini” e contraddistinta da larghe campiture di colore.
Ne sono un chiaro esempio l’Autoritratto del 1925 ed il Ritratto di donna (Trieste, collezione privata) creduto proprio di mano di Veruda.
Purtroppo la scomparsa di Giulia nel 1926 diede una spallata notevole al modus operandi di Barison che su volere dei figli, non abbandonò del tutto la pittura; gli ultimi ritratti mostrano chiaramente solo l’ombra del grande mestierante quale fu alla fine dell’Ottocento, un secolo che non aveva mai abbandonato.
Era uomo comunque dall’animo curioso anche in piena maturità tanto da cimentarsi con la musica (il figlio Cesare era un affermato violinista) e con le lingue per le quali era particolarmente portato.
Chiuse la sua parabola esistenziale nel 1931.
(Matteo Gardonio)

Giuseppe Barison (Trieste 1853 – 1931) – Piazza della Borsa

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Giuseppe Barison (Trieste 1853 – 1931). Piazza della Borsa, olio su tavola, 18,5 x 12 cm. Trieste, collezione privata.
 
L’artista nacque a Trieste il 5 settembre del 1853 da Francesco, di professione sarto e Caterina Frausin.
Notato sin da giovane per le capacità nel disegno, fu sostenuto dalla nobile Anna De Rin la quale, lo avviò dapprima all’arte frequentando lo studio del pittore Karl Emil Haase a Trieste ed in seguito gli permise di iscriversi all’Accademia di Belle Arti di Vienna.
Qui a partire dal 1872 Barison prese a seguire le lezioni del nazareno Karl Von Blaas, Eduard Von Engerth e soprattutto di August Eisenmenger che accostò il giovane alla pittura di storia.
Dai taccuini del periodo accademico presso gli eredi del pittore, possiamo stabilire quanto l’iter formativo fosse rigido sia dal punto di vista pratico che teorico con Barison pronto ad appuntarsi i volumi da leggere per proseguire negli studi.
Tornato a Trieste nel 1876 egli si impose l’anno seguente, nel 1877, partecipando alla Nona Esposizione di Belle Arti con il dipinto a carattere storico Isabella Orsini e il suo paggio che gli consentì di ottenere dal Comune di Trieste un ricco pensionato da poter usufruire per due anni a Roma.
Così Barison giunse nella città eterna fissando su carte e tele i luoghi che andava visitando e che aveva visto nelle opere del suo primo maestro a Trieste, Karl Haase. Tuttavia il soggiorno romano non fu proficuo a causa delle critiche piovute sul dipinto Muzio Attendolo Sforza (Museo Civico Revoltella di Trieste) che si accanivano sulla postura del cavallo definita “non naturale”. In realtà il gusto dell’epoca era cambiato e Barison si trovava a proporre un dipinto di matrice storicista in una città, Roma, che aveva ormai abbandonato tali soggetti. Eppure la tela, sebbene anacronistica, vede Barison sganciarsi da un rigido accademismo e aprirsi, se pur timidamente, ad ariosi scorci naturalistici.
Conclusa l’amara parentesi romana, egli tornò a Trieste ed iniziò a dedicarsi a quello che fu indubbiamente il pezzo forte del suo repertorio pittorico, vale a dire il ritratto; un genere, questo, che gli consentì non solo di esprimersi al meglio ma di sostenersi economicamente.
Eppure la parentesi romana aveva lasciato qualcosa di buono nel pittore; egli infatti aveva capito di doversi sintonizzare sulle nuove tendenze artistiche dell’epoca. Si indirizzò quindi verso Venezia e la pittura di Giacomo Favretto che lo influenzò in modo decisivo. Iniziò a partecipare alle esposizioni organizzate dalla Società Veneta Promotrice di Belle Arti a partire dal 1880 e copiò Il Farmacista del maestro veneziano oltre a carpire i segreti di quella tradizione coloristica veneziana, mai passata di moda.
Prima di trasferirsi in pianta stabile a Venezia, però, egli si era innamorato di Giulia Rosa Desman una ragazza di famiglia alto borghese di Trieste; nonostante la diversità di ceto egli la sposò nel 1883 e ne fu legato con estremo affetto sino alla morte, avvenuta, per Giulia, nel 1926.
Domiciliato quindi a Venezia, dove vi rimase sino al 1887, si dedicò alla pittura di genere riportando notevoli successi, anche di critica che sfociarono nel 1886 in occasione della mostra di Brera a Milano con la Pescheria a Rialto (Alessandria, Pinacoteca Civica). Il dipinto vinse il premio Principe Umberto ma, a causa della nazionalità non italiana di Barison, venne revocato. Ma al di là dell’increscioso episodio, la tavolozza di Barison si era arricchita tra le lagune, aveva trovato nuova linfa e una sua connotazione ben precisa tra i pittori veneziani. Tuttavia la moglie Giulia, che poco si era ambientata a Venezia e che già aveva dato a Giuseppe ben tre figli (Arnaldo, Cesare ed Ester), chiese al marito di rientrare a Trieste e Barison acconsentì. Tornò dunque a Trieste, accolto dai circoli artistici con rispetto ma anche con una certa freddezza, dovuta in parte al sua carattere certo non facile e malleabile ed in parte da questa sua dichiarata pittura veneziana. Ma che pittura fu quella di Barison dal 1887 al 1931, anno della sua morte? Ancora una volta ci viene incontro Venezia; questa volta non per un clima generale ma per l’esposizione nazionale del 1887. Barison, in quell’occasione, poté vedere alcuni dipinti di primo piano nel panorama artistico italiano dell’epoca. Furono due i quadri che lo colpirono maggiormente; uno, del napoletano Michele Cammarano dal titolo La Rissa, caratterizzato da accenti patetici, un forte dinamismo e una assoluta teatralità nei gesti, l’altro, del genovese Nicolò Barabino dal titolo Quasi oliva speciosa, dal forte impatto sacrale rivisto in chiave simbolista che diede il la per il capolavoro nella produzione di Giuseppe Barison.
La rissa venne ripreso poco tempo dopo l’esposizione veneziana da Barison e tramutata in Dopo una rissa, mentre Quasi oliva speciosa in campis vide una sua personale e poetica versione nel 1899, a distanza di ben dodici anni.
La tela – che ha rivisto la luce con il volume edito dalla Fondazione Cassa di Risparmio e si presenta entro una ricca e monumentale cornice dell’epoca intagliata e dipinta dallo stesso Barison – trova nelle parole di introduzione del professor Giuseppe Pavanello la giusta descrizione: “sospesa fra realtà e idealità, da cui si sprigiona l’incanto, o, meglio, l’incantesimo dell’apparizione divina, accostante e, al tempo stesso, ieratica”.
Un momento unico il 1899 per il pittore (ben testimoniato anche dal piccolo e prezioso autoritratto) com se, idealmente, egli sprigionasse gli ultimi bagliori della sua arte e volesse rifuggire l’arrivo del nuovo secolo. Con il ‘900 infatti, la sua pennellata perde in fluidità e sebbene la sua fama a Trieste cresca notevolmente sino a portarlo a realizzare i pannelli per la Cassa di Risparmio di Trieste nel 1912 raffiguranti I Costruttori (dove ci offre un autoritratto nell’uomo in primo piano caratterizzato dalla svolazzante veste rossa) e I Mercanti egli non ha più quella forza di fine XIX secolo.
Protagonisti indiscussi delle sue tele nei primi del secolo sono i cavalli realizzati con estrema cura e meticolosità come nel dipinto Antica Canzone (Comune di Trieste) che sebbene utilizzati a cornice del dipinto divengono il fulcro della composizione facendo finire la scena degli innamorati in secondo piano.
Molti i dipinti rintracciati di formato fortemente verticale di tale filone che, con ogni probabilità, permettevano a Barison di creare quell’effetto della corsa a cavallo in maniera il più possibile veritiera.
Barison, ormai maturo, poteva così pensare ad una onesta vecchiaia fra le mura domestiche ed invece arrivò la guerra che lo costrinse ad emigrare in terra italiana e più precisamente a Pegli, in Liguria. Qui vi soggiornò dal 1915 al 1918 in casa del genero Roberto Amadi e della figlia Ester e iniziò ad accostarsi con continuità alla pittura di paesaggio e di marine.
Tornato a Trieste infatti, non abbandonò più tali soggetti e divenne con Guido Grimani e Ugo Flumiani uno dei massimi cantori di Trieste e del suo mare.
Nel raffigurare il mare di Trieste riuscì a raggiungere a volte un gusto post-impressionista come ben evidenziano le ultime ed estreme tavole realizzate en plein air; una volta a settimana egli chiudeva lo studio e si recava con i pennelli e queste piccole tavole in giro per la città posizionandosi ore ed ore nell’attesa di vedere con un particolare effetto luministico un’immagine nuova di Trieste e del suo mare.
In questi ultimi anni Barison non aveva chiuso del tutto le porte alle nuove istanze pittoriche ben esemplificate dai dipinti di Umberto Veruda, che aveva avuto modo di ritrarre Giuseppe nella sua breve esistenza, che sebbene superato faceva ancora presa per quella sua pittura sfarfallante “alla Boldini” e contraddistinta da larghe campiture di colore.
Ne sono un chiaro esempio l’Autoritratto del 1925 ed il Ritratto di donna (Trieste, collezione privata) creduto proprio di mano di Veruda.
Purtroppo la scomparsa di Giulia nel 1926 diede una spallata notevole al modus operandi di Barison che su volere dei figli, non abbandonò del tutto la pittura; gli ultimi ritratti mostrano chiaramente solo l’ombra del grande mestierante quale fu alla fine dell’Ottocento, un secolo che non aveva mai abbandonato.
Era uomo comunque dall’animo curioso anche in piena maturità tanto da cimentarsi con la musica (il figlio Cesare era un affermato violinista) e con le lingue per le quali era particolarmente portato.
Chiuse la sua parabola esistenziale nel 1931.
(Matteo Gardonio)

Giuseppe Barison (Trieste 1853 – 1931) – Il porto di Trieste

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Giuseppe Barison (Trieste 1853 – 1931).Il porto di Trieste, olio su tela, 83 x 159 cm. Reggio Emilia, collezione privata
 
L’artista nacque a Trieste il 5 settembre del 1853 da Francesco, di professione sarto e Caterina Frausin.
Notato sin da giovane per le capacità nel disegno, fu sostenuto dalla nobile Anna De Rin la quale, lo avviò dapprima all’arte frequentando lo studio del pittore Karl Emil Haase a Trieste ed in seguito gli permise di iscriversi all’Accademia di Belle Arti di Vienna.
Qui a partire dal 1872 Barison prese a seguire le lezioni del nazareno Karl Von Blaas, Eduard Von Engerth e soprattutto di August Eisenmenger che accostò il giovane alla pittura di storia.
Dai taccuini del periodo accademico presso gli eredi del pittore, possiamo stabilire quanto l’iter formativo fosse rigido sia dal punto di vista pratico che teorico con Barison pronto ad appuntarsi i volumi da leggere per proseguire negli studi.
Tornato a Trieste nel 1876 egli si impose l’anno seguente, nel 1877, partecipando alla Nona Esposizione di Belle Arti con il dipinto a carattere storico Isabella Orsini e il suo paggio che gli consentì di ottenere dal Comune di Trieste un ricco pensionato da poter usufruire per due anni a Roma.
Così Barison giunse nella città eterna fissando su carte e tele i luoghi che andava visitando e che aveva visto nelle opere del suo primo maestro a Trieste, Karl Haase. Tuttavia il soggiorno romano non fu proficuo a causa delle critiche piovute sul dipinto Muzio Attendolo Sforza (Museo Civico Revoltella di Trieste) che si accanivano sulla postura del cavallo definita “non naturale”. In realtà il gusto dell’epoca era cambiato e Barison si trovava a proporre un dipinto di matrice storicista in una città, Roma, che aveva ormai abbandonato tali soggetti. Eppure la tela, sebbene anacronistica, vede Barison sganciarsi da un rigido accademismo e aprirsi, se pur timidamente, ad ariosi scorci naturalistici.
Conclusa l’amara parentesi romana, egli tornò a Trieste ed iniziò a dedicarsi a quello che fu indubbiamente il pezzo forte del suo repertorio pittorico, vale a dire il ritratto; un genere, questo, che gli consentì non solo di esprimersi al meglio ma di sostenersi economicamente.
Eppure la parentesi romana aveva lasciato qualcosa di buono nel pittore; egli infatti aveva capito di doversi sintonizzare sulle nuove tendenze artistiche dell’epoca. Si indirizzò quindi verso Venezia e la pittura di Giacomo Favretto che lo influenzò in modo decisivo. Iniziò a partecipare alle esposizioni organizzate dalla Società Veneta Promotrice di Belle Arti a partire dal 1880 e copiò Il Farmacista del maestro veneziano oltre a carpire i segreti di quella tradizione coloristica veneziana, mai passata di moda.
Prima di trasferirsi in pianta stabile a Venezia, però, egli si era innamorato di Giulia Rosa Desman una ragazza di famiglia alto borghese di Trieste; nonostante la diversità di ceto egli la sposò nel 1883 e ne fu legato con estremo affetto sino alla morte, avvenuta, per Giulia, nel 1926.
Domiciliato quindi a Venezia, dove vi rimase sino al 1887, si dedicò alla pittura di genere riportando notevoli successi, anche di critica che sfociarono nel 1886 in occasione della mostra di Brera a Milano con la Pescheria a Rialto (Alessandria, Pinacoteca Civica). Il dipinto vinse il premio Principe Umberto ma, a causa della nazionalità non italiana di Barison, venne revocato. Ma al di là dell’increscioso episodio, la tavolozza di Barison si era arricchita tra le lagune, aveva trovato nuova linfa e una sua connotazione ben precisa tra i pittori veneziani. Tuttavia la moglie Giulia, che poco si era ambientata a Venezia e che già aveva dato a Giuseppe ben tre figli (Arnaldo, Cesare ed Ester), chiese al marito di rientrare a Trieste e Barison acconsentì. Tornò dunque a Trieste, accolto dai circoli artistici con rispetto ma anche con una certa freddezza, dovuta in parte al sua carattere certo non facile e malleabile ed in parte da questa sua dichiarata pittura veneziana. Ma che pittura fu quella di Barison dal 1887 al 1931, anno della sua morte? Ancora una volta ci viene incontro Venezia; questa volta non per un clima generale ma per l’esposizione nazionale del 1887. Barison, in quell’occasione, poté vedere alcuni dipinti di primo piano nel panorama artistico italiano dell’epoca. Furono due i quadri che lo colpirono maggiormente; uno, del napoletano Michele Cammarano dal titolo La Rissa, caratterizzato da accenti patetici, un forte dinamismo e una assoluta teatralità nei gesti, l’altro, del genovese Nicolò Barabino dal titolo Quasi oliva speciosa, dal forte impatto sacrale rivisto in chiave simbolista che diede il la per il capolavoro nella produzione di Giuseppe Barison.
La rissa venne ripreso poco tempo dopo l’esposizione veneziana da Barison e tramutata in Dopo una rissa, mentre Quasi oliva speciosa in campis vide una sua personale e poetica versione nel 1899, a distanza di ben dodici anni.
La tela – che ha rivisto la luce con il volume edito dalla Fondazione Cassa di Risparmio e si presenta entro una ricca e monumentale cornice dell’epoca intagliata e dipinta dallo stesso Barison – trova nelle parole di introduzione del professor Giuseppe Pavanello la giusta descrizione: “sospesa fra realtà e idealità, da cui si sprigiona l’incanto, o, meglio, l’incantesimo dell’apparizione divina, accostante e, al tempo stesso, ieratica”.
Un momento unico il 1899 per il pittore (ben testimoniato anche dal piccolo e prezioso autoritratto) com se, idealmente, egli sprigionasse gli ultimi bagliori della sua arte e volesse rifuggire l’arrivo del nuovo secolo. Con il ‘900 infatti, la sua pennellata perde in fluidità e sebbene la sua fama a Trieste cresca notevolmente sino a portarlo a realizzare i pannelli per la Cassa di Risparmio di Trieste nel 1912 raffiguranti I Costruttori (dove ci offre un autoritratto nell’uomo in primo piano caratterizzato dalla svolazzante veste rossa) e I Mercanti egli non ha più quella forza di fine XIX secolo.
Protagonisti indiscussi delle sue tele nei primi del secolo sono i cavalli realizzati con estrema cura e meticolosità come nel dipinto Antica Canzone (Comune di Trieste) che sebbene utilizzati a cornice del dipinto divengono il fulcro della composizione facendo finire la scena degli innamorati in secondo piano.
Molti i dipinti rintracciati di formato fortemente verticale di tale filone che, con ogni probabilità, permettevano a Barison di creare quell’effetto della corsa a cavallo in maniera il più possibile veritiera.
Barison, ormai maturo, poteva così pensare ad una onesta vecchiaia fra le mura domestiche ed invece arrivò la guerra che lo costrinse ad emigrare in terra italiana e più precisamente a Pegli, in Liguria. Qui vi soggiornò dal 1915 al 1918 in casa del genero Roberto Amadi e della figlia Ester e iniziò ad accostarsi con continuità alla pittura di paesaggio e di marine.
Tornato a Trieste infatti, non abbandonò più tali soggetti e divenne con Guido Grimani e Ugo Flumiani uno dei massimi cantori di Trieste e del suo mare.
Nel raffigurare il mare di Trieste riuscì a raggiungere a volte un gusto post-impressionista come ben evidenziano le ultime ed estreme tavole realizzate en plein air; una volta a settimana egli chiudeva lo studio e si recava con i pennelli e queste piccole tavole in giro per la città posizionandosi ore ed ore nell’attesa di vedere con un particolare effetto luministico un’immagine nuova di Trieste e del suo mare.
In questi ultimi anni Barison non aveva chiuso del tutto le porte alle nuove istanze pittoriche ben esemplificate dai dipinti di Umberto Veruda, che aveva avuto modo di ritrarre Giuseppe nella sua breve esistenza, che sebbene superato faceva ancora presa per quella sua pittura sfarfallante “alla Boldini” e contraddistinta da larghe campiture di colore.
Ne sono un chiaro esempio l’Autoritratto del 1925 ed il Ritratto di donna (Trieste, collezione privata) creduto proprio di mano di Veruda.
Purtroppo la scomparsa di Giulia nel 1926 diede una spallata notevole al modus operandi di Barison che su volere dei figli, non abbandonò del tutto la pittura; gli ultimi ritratti mostrano chiaramente solo l’ombra del grande mestierante quale fu alla fine dell’Ottocento, un secolo che non aveva mai abbandonato.
Era uomo comunque dall’animo curioso anche in piena maturità tanto da cimentarsi con la musica (il figlio Cesare era un affermato violinista) e con le lingue per le quali era particolarmente portato.
Chiuse la sua parabola esistenziale nel 1931.
(Matteo Gardonio)

Giuseppe Barison (Trieste 1853 – 1931) – Verso il Carso

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Giuseppe Barison (Trieste 1853 – 1931). Verso il Carso, olio su tavola, 12 x 18 cm. Trieste, collezione privata.
 
Nell'area, come si presentava prima delle trasformazioni realizzate tra le due guerre, si intravede un dettaglio del Castello di San Giusto

L’artista nacque a Trieste il 5 settembre del 1853 da Francesco, di professione sarto e Caterina Frausin.
Notato sin da giovane per le capacità nel disegno, fu sostenuto dalla nobile Anna De Rin la quale, lo avviò dapprima all’arte frequentando lo studio del pittore Karl Emil Haase a Trieste ed in seguito gli permise di iscriversi all’Accademia di Belle Arti di Vienna.
Qui a partire dal 1872 Barison prese a seguire le lezioni del nazareno Karl Von Blaas, Eduard Von Engerth e soprattutto di August Eisenmenger che accostò il giovane alla pittura di storia.
Dai taccuini del periodo accademico presso gli eredi del pittore, possiamo stabilire quanto l’iter formativo fosse rigido sia dal punto di vista pratico che teorico con Barison pronto ad appuntarsi i volumi da leggere per proseguire negli studi.
Tornato a Trieste nel 1876 egli si impose l’anno seguente, nel 1877, partecipando alla Nona Esposizione di Belle Arti con il dipinto a carattere storico Isabella Orsini e il suo paggio che gli consentì di ottenere dal Comune di Trieste un ricco pensionato da poter usufruire per due anni a Roma.
Così Barison giunse nella città eterna fissando su carte e tele i luoghi che andava visitando e che aveva visto nelle opere del suo primo maestro a Trieste, Karl Haase. Tuttavia il soggiorno romano non fu proficuo a causa delle critiche piovute sul dipinto Muzio Attendolo Sforza (Museo Civico Revoltella di Trieste) che si accanivano sulla postura del cavallo definita “non naturale”. In realtà il gusto dell’epoca era cambiato e Barison si trovava a proporre un dipinto di matrice storicista in una città, Roma, che aveva ormai abbandonato tali soggetti. Eppure la tela, sebbene anacronistica, vede Barison sganciarsi da un rigido accademismo e aprirsi, se pur timidamente, ad ariosi scorci naturalistici.
Conclusa l’amara parentesi romana, egli tornò a Trieste ed iniziò a dedicarsi a quello che fu indubbiamente il pezzo forte del suo repertorio pittorico, vale a dire il ritratto; un genere, questo, che gli consentì non solo di esprimersi al meglio ma di sostenersi economicamente.
Eppure la parentesi romana aveva lasciato qualcosa di buono nel pittore; egli infatti aveva capito di doversi sintonizzare sulle nuove tendenze artistiche dell’epoca. Si indirizzò quindi verso Venezia e la pittura di Giacomo Favretto che lo influenzò in modo decisivo. Iniziò a partecipare alle esposizioni organizzate dalla Società Veneta Promotrice di Belle Arti a partire dal 1880 e copiò Il Farmacista del maestro veneziano oltre a carpire i segreti di quella tradizione coloristica veneziana, mai passata di moda.
Prima di trasferirsi in pianta stabile a Venezia, però, egli si era innamorato di Giulia Rosa Desman una ragazza di famiglia alto borghese di Trieste; nonostante la diversità di ceto egli la sposò nel 1883 e ne fu legato con estremo affetto sino alla morte, avvenuta, per Giulia, nel 1926.
Domiciliato quindi a Venezia, dove vi rimase sino al 1887, si dedicò alla pittura di genere riportando notevoli successi, anche di critica che sfociarono nel 1886 in occasione della mostra di Brera a Milano con la Pescheria a Rialto (Alessandria, Pinacoteca Civica). Il dipinto vinse il premio Principe Umberto ma, a causa della nazionalità non italiana di Barison, venne revocato. Ma al di là dell’increscioso episodio, la tavolozza di Barison si era arricchita tra le lagune, aveva trovato nuova linfa e una sua connotazione ben precisa tra i pittori veneziani. Tuttavia la moglie Giulia, che poco si era ambientata a Venezia e che già aveva dato a Giuseppe ben tre figli (Arnaldo, Cesare ed Ester), chiese al marito di rientrare a Trieste e Barison acconsentì. Tornò dunque a Trieste, accolto dai circoli artistici con rispetto ma anche con una certa freddezza, dovuta in parte al sua carattere certo non facile e malleabile ed in parte da questa sua dichiarata pittura veneziana. Ma che pittura fu quella di Barison dal 1887 al 1931, anno della sua morte? Ancora una volta ci viene incontro Venezia; questa volta non per un clima generale ma per l’esposizione nazionale del 1887. Barison, in quell’occasione, poté vedere alcuni dipinti di primo piano nel panorama artistico italiano dell’epoca. Furono due i quadri che lo colpirono maggiormente; uno, del napoletano Michele Cammarano dal titolo La Rissa, caratterizzato da accenti patetici, un forte dinamismo e una assoluta teatralità nei gesti, l’altro, del genovese Nicolò Barabino dal titolo Quasi oliva speciosa, dal forte impatto sacrale rivisto in chiave simbolista che diede il la per il capolavoro nella produzione di Giuseppe Barison.
La rissa venne ripreso poco tempo dopo l’esposizione veneziana da Barison e tramutata in Dopo una rissa, mentre Quasi oliva speciosa in campis vide una sua personale e poetica versione nel 1899, a distanza di ben dodici anni.
La tela – che ha rivisto la luce con il volume edito dalla Fondazione Cassa di Risparmio e si presenta entro una ricca e monumentale cornice dell’epoca intagliata e dipinta dallo stesso Barison – trova nelle parole di introduzione del professor Giuseppe Pavanello la giusta descrizione: “sospesa fra realtà e idealità, da cui si sprigiona l’incanto, o, meglio, l’incantesimo dell’apparizione divina, accostante e, al tempo stesso, ieratica”.
Un momento unico il 1899 per il pittore (ben testimoniato anche dal piccolo e prezioso autoritratto) com se, idealmente, egli sprigionasse gli ultimi bagliori della sua arte e volesse rifuggire l’arrivo del nuovo secolo. Con il ‘900 infatti, la sua pennellata perde in fluidità e sebbene la sua fama a Trieste cresca notevolmente sino a portarlo a realizzare i pannelli per la Cassa di Risparmio di Trieste nel 1912 raffiguranti I Costruttori (dove ci offre un autoritratto nell’uomo in primo piano caratterizzato dalla svolazzante veste rossa) e I Mercanti egli non ha più quella forza di fine XIX secolo.
Protagonisti indiscussi delle sue tele nei primi del secolo sono i cavalli realizzati con estrema cura e meticolosità come nel dipinto Antica Canzone (Comune di Trieste) che sebbene utilizzati a cornice del dipinto divengono il fulcro della composizione facendo finire la scena degli innamorati in secondo piano.
Molti i dipinti rintracciati di formato fortemente verticale di tale filone che, con ogni probabilità, permettevano a Barison di creare quell’effetto della corsa a cavallo in maniera il più possibile veritiera.
Barison, ormai maturo, poteva così pensare ad una onesta vecchiaia fra le mura domestiche ed invece arrivò la guerra che lo costrinse ad emigrare in terra italiana e più precisamente a Pegli, in Liguria. Qui vi soggiornò dal 1915 al 1918 in casa del genero Roberto Amadi e della figlia Ester e iniziò ad accostarsi con continuità alla pittura di paesaggio e di marine.
Tornato a Trieste infatti, non abbandonò più tali soggetti e divenne con Guido Grimani e Ugo Flumiani uno dei massimi cantori di Trieste e del suo mare.
Nel raffigurare il mare di Trieste riuscì a raggiungere a volte un gusto post-impressionista come ben evidenziano le ultime ed estreme tavole realizzate en plein air; una volta a settimana egli chiudeva lo studio e si recava con i pennelli e queste piccole tavole in giro per la città posizionandosi ore ed ore nell’attesa di vedere con un particolare effetto luministico un’immagine nuova di Trieste e del suo mare.
In questi ultimi anni Barison non aveva chiuso del tutto le porte alle nuove istanze pittoriche ben esemplificate dai dipinti di Umberto Veruda, che aveva avuto modo di ritrarre Giuseppe nella sua breve esistenza, che sebbene superato faceva ancora presa per quella sua pittura sfarfallante “alla Boldini” e contraddistinta da larghe campiture di colore.
Ne sono un chiaro esempio l’Autoritratto del 1925 ed il Ritratto di donna (Trieste, collezione privata) creduto proprio di mano di Veruda.
Purtroppo la scomparsa di Giulia nel 1926 diede una spallata notevole al modus operandi di Barison che su volere dei figli, non abbandonò del tutto la pittura; gli ultimi ritratti mostrano chiaramente solo l’ombra del grande mestierante quale fu alla fine dell’Ottocento, un secolo che non aveva mai abbandonato.
Era uomo comunque dall’animo curioso anche in piena maturità tanto da cimentarsi con la musica (il figlio Cesare era un affermato violinista) e con le lingue per le quali era particolarmente portato.
Chiuse la sua parabola esistenziale nel 1931.
(Matteo Gardonio)

Giuseppe Barison (Trieste 1853 – 1931) – Bragozzi all’approdo (riva Tre Novembre)

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Giuseppe Barison (Trieste 1853 – 1931). Bragozzi all'approdo (riva Tre Novembre), olio su tavola, 34,5 x 26,5 cm. Trieste, collezione privata

L’artista nacque a Trieste il 5 settembre del 1853 da Francesco, di professione sarto e Caterina Frausin.
Notato sin da giovane per le capacità nel disegno, fu sostenuto dalla nobile Anna De Rin la quale, lo avviò dapprima all’arte frequentando lo studio del pittore Karl Emil Haase a Trieste ed in seguito gli permise di iscriversi all’Accademia di Belle Arti di Vienna.
Qui a partire dal 1872 Barison prese a seguire le lezioni del nazareno Karl Von Blaas, Eduard Von Engerth e soprattutto di August Eisenmenger che accostò il giovane alla pittura di storia.
Dai taccuini del periodo accademico presso gli eredi del pittore, possiamo stabilire quanto l’iter formativo fosse rigido sia dal punto di vista pratico che teorico con Barison pronto ad appuntarsi i volumi da leggere per proseguire negli studi.
Tornato a Trieste nel 1876 egli si impose l’anno seguente, nel 1877, partecipando alla Nona Esposizione di Belle Arti con il dipinto a carattere storico Isabella Orsini e il suo paggio che gli consentì di ottenere dal Comune di Trieste un ricco pensionato da poter usufruire per due anni a Roma.
Così Barison giunse nella città eterna fissando su carte e tele i luoghi che andava visitando e che aveva visto nelle opere del suo primo maestro a Trieste, Karl Haase. Tuttavia il soggiorno romano non fu proficuo a causa delle critiche piovute sul dipinto Muzio Attendolo Sforza (Museo Civico Revoltella di Trieste) che si accanivano sulla postura del cavallo definita “non naturale”. In realtà il gusto dell’epoca era cambiato e Barison si trovava a proporre un dipinto di matrice storicista in una città, Roma, che aveva ormai abbandonato tali soggetti. Eppure la tela, sebbene anacronistica, vede Barison sganciarsi da un rigido accademismo e aprirsi, se pur timidamente, ad ariosi scorci naturalistici.
Conclusa l’amara parentesi romana, egli tornò a Trieste ed iniziò a dedicarsi a quello che fu indubbiamente il pezzo forte del suo repertorio pittorico, vale a dire il ritratto; un genere, questo, che gli consentì non solo di esprimersi al meglio ma di sostenersi economicamente.
Eppure la parentesi romana aveva lasciato qualcosa di buono nel pittore; egli infatti aveva capito di doversi sintonizzare sulle nuove tendenze artistiche dell’epoca. Si indirizzò quindi verso Venezia e la pittura di Giacomo Favretto che lo influenzò in modo decisivo. Iniziò a partecipare alle esposizioni organizzate dalla Società Veneta Promotrice di Belle Arti a partire dal 1880 e copiò Il Farmacista del maestro veneziano oltre a carpire i segreti di quella tradizione coloristica veneziana, mai passata di moda.
Prima di trasferirsi in pianta stabile a Venezia, però, egli si era innamorato di Giulia Rosa Desman una ragazza di famiglia alto borghese di Trieste; nonostante la diversità di ceto egli la sposò nel 1883 e ne fu legato con estremo affetto sino alla morte, avvenuta, per Giulia, nel 1926.
Domiciliato quindi a Venezia, dove vi rimase sino al 1887, si dedicò alla pittura di genere riportando notevoli successi, anche di critica che sfociarono nel 1886 in occasione della mostra di Brera a Milano con la Pescheria a Rialto (Alessandria, Pinacoteca Civica). Il dipinto vinse il premio Principe Umberto ma, a causa della nazionalità non italiana di Barison, venne revocato. Ma al di là dell’increscioso episodio, la tavolozza di Barison si era arricchita tra le lagune, aveva trovato nuova linfa e una sua connotazione ben precisa tra i pittori veneziani. Tuttavia la moglie Giulia, che poco si era ambientata a Venezia e che già aveva dato a Giuseppe ben tre figli (Arnaldo, Cesare ed Ester), chiese al marito di rientrare a Trieste e Barison acconsentì. Tornò dunque a Trieste, accolto dai circoli artistici con rispetto ma anche con una certa freddezza, dovuta in parte al sua carattere certo non facile e malleabile ed in parte da questa sua dichiarata pittura veneziana. Ma che pittura fu quella di Barison dal 1887 al 1931, anno della sua morte? Ancora una volta ci viene incontro Venezia; questa volta non per un clima generale ma per l’esposizione nazionale del 1887. Barison, in quell’occasione, poté vedere alcuni dipinti di primo piano nel panorama artistico italiano dell’epoca. Furono due i quadri che lo colpirono maggiormente; uno, del napoletano Michele Cammarano dal titolo La Rissa, caratterizzato da accenti patetici, un forte dinamismo e una assoluta teatralità nei gesti, l’altro, del genovese Nicolò Barabino dal titolo Quasi oliva speciosa, dal forte impatto sacrale rivisto in chiave simbolista che diede il la per il capolavoro nella produzione di Giuseppe Barison.
La rissa venne ripreso poco tempo dopo l’esposizione veneziana da Barison e tramutata in Dopo una rissa, mentre Quasi oliva speciosa in campis vide una sua personale e poetica versione nel 1899, a distanza di ben dodici anni.
La tela – che ha rivisto la luce con il volume edito dalla Fondazione Cassa di Risparmio e si presenta entro una ricca e monumentale cornice dell’epoca intagliata e dipinta dallo stesso Barison – trova nelle parole di introduzione del professor Giuseppe Pavanello la giusta descrizione: “sospesa fra realtà e idealità, da cui si sprigiona l’incanto, o, meglio, l’incantesimo dell’apparizione divina, accostante e, al tempo stesso, ieratica”.
Un momento unico il 1899 per il pittore (ben testimoniato anche dal piccolo e prezioso autoritratto) com se, idealmente, egli sprigionasse gli ultimi bagliori della sua arte e volesse rifuggire l’arrivo del nuovo secolo. Con il ‘900 infatti, la sua pennellata perde in fluidità e sebbene la sua fama a Trieste cresca notevolmente sino a portarlo a realizzare i pannelli per la Cassa di Risparmio di Trieste nel 1912 raffiguranti I Costruttori (dove ci offre un autoritratto nell’uomo in primo piano caratterizzato dalla svolazzante veste rossa) e I Mercanti egli non ha più quella forza di fine XIX secolo.
Protagonisti indiscussi delle sue tele nei primi del secolo sono i cavalli realizzati con estrema cura e meticolosità come nel dipinto Antica Canzone (Comune di Trieste) che sebbene utilizzati a cornice del dipinto divengono il fulcro della composizione facendo finire la scena degli innamorati in secondo piano.
Molti i dipinti rintracciati di formato fortemente verticale di tale filone che, con ogni probabilità, permettevano a Barison di creare quell’effetto della corsa a cavallo in maniera il più possibile veritiera.
Barison, ormai maturo, poteva così pensare ad una onesta vecchiaia fra le mura domestiche ed invece arrivò la guerra che lo costrinse ad emigrare in terra italiana e più precisamente a Pegli, in Liguria. Qui vi soggiornò dal 1915 al 1918 in casa del genero Roberto Amadi e della figlia Ester e iniziò ad accostarsi con continuità alla pittura di paesaggio e di marine.
Tornato a Trieste infatti, non abbandonò più tali soggetti e divenne con Guido Grimani e Ugo Flumiani uno dei massimi cantori di Trieste e del suo mare.
Nel raffigurare il mare di Trieste riuscì a raggiungere a volte un gusto post-impressionista come ben evidenziano le ultime ed estreme tavole realizzate en plein air; una volta a settimana egli chiudeva lo studio e si recava con i pennelli e queste piccole tavole in giro per la città posizionandosi ore ed ore nell’attesa di vedere con un particolare effetto luministico un’immagine nuova di Trieste e del suo mare.
In questi ultimi anni Barison non aveva chiuso del tutto le porte alle nuove istanze pittoriche ben esemplificate dai dipinti di Umberto Veruda, che aveva avuto modo di ritrarre Giuseppe nella sua breve esistenza, che sebbene superato faceva ancora presa per quella sua pittura sfarfallante “alla Boldini” e contraddistinta da larghe campiture di colore.
Ne sono un chiaro esempio l’Autoritratto del 1925 ed il Ritratto di donna (Trieste, collezione privata) creduto proprio di mano di Veruda.
Purtroppo la scomparsa di Giulia nel 1926 diede una spallata notevole al modus operandi di Barison che su volere dei figli, non abbandonò del tutto la pittura; gli ultimi ritratti mostrano chiaramente solo l’ombra del grande mestierante quale fu alla fine dell’Ottocento, un secolo che non aveva mai abbandonato.
Era uomo comunque dall’animo curioso anche in piena maturità tanto da cimentarsi con la musica (il figlio Cesare era un affermato violinista) e con le lingue per le quali era particolarmente portato.
Chiuse la sua parabola esistenziale nel 1931.
(Matteo Gardonio)

Giuseppe Barison (Trieste 1853 – 1931) – Piazza Sant’ Antonio Nuovo

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Giuseppe Barison (Trieste 1853 – 1931). Piazza Sant' Antonio Nuovo, olio su tavola 25 x 14,5 cm. Trieste, collezione privata

L’artista nacque a Trieste il 5 settembre del 1853 da Francesco, di professione sarto e Caterina Frausin.
Notato sin da giovane per le capacità nel disegno, fu sostenuto dalla nobile Anna De Rin la quale, lo avviò dapprima all’arte frequentando lo studio del pittore Karl Emil Haase a Trieste ed in seguito gli permise di iscriversi all’Accademia di Belle Arti di Vienna.
Qui a partire dal 1872 Barison prese a seguire le lezioni del nazareno Karl Von Blaas, Eduard Von Engerth e soprattutto di August Eisenmenger che accostò il giovane alla pittura di storia.
Dai taccuini del periodo accademico presso gli eredi del pittore, possiamo stabilire quanto l’iter formativo fosse rigido sia dal punto di vista pratico che teorico con Barison pronto ad appuntarsi i volumi da leggere per proseguire negli studi.
Tornato a Trieste nel 1876 egli si impose l’anno seguente, nel 1877, partecipando alla Nona Esposizione di Belle Arti con il dipinto a carattere storico Isabella Orsini e il suo paggio che gli consentì di ottenere dal Comune di Trieste un ricco pensionato da poter usufruire per due anni a Roma.
Così Barison giunse nella città eterna fissando su carte e tele i luoghi che andava visitando e che aveva visto nelle opere del suo primo maestro a Trieste, Karl Haase. Tuttavia il soggiorno romano non fu proficuo a causa delle critiche piovute sul dipinto Muzio Attendolo Sforza (Museo Civico Revoltella di Trieste) che si accanivano sulla postura del cavallo definita “non naturale”. In realtà il gusto dell’epoca era cambiato e Barison si trovava a proporre un dipinto di matrice storicista in una città, Roma, che aveva ormai abbandonato tali soggetti. Eppure la tela, sebbene anacronistica, vede Barison sganciarsi da un rigido accademismo e aprirsi, se pur timidamente, ad ariosi scorci naturalistici.
Conclusa l’amara parentesi romana, egli tornò a Trieste ed iniziò a dedicarsi a quello che fu indubbiamente il pezzo forte del suo repertorio pittorico, vale a dire il ritratto; un genere, questo, che gli consentì non solo di esprimersi al meglio ma di sostenersi economicamente.
Eppure la parentesi romana aveva lasciato qualcosa di buono nel pittore; egli infatti aveva capito di doversi sintonizzare sulle nuove tendenze artistiche dell’epoca. Si indirizzò quindi verso Venezia e la pittura di Giacomo Favretto che lo influenzò in modo decisivo. Iniziò a partecipare alle esposizioni organizzate dalla Società Veneta Promotrice di Belle Arti a partire dal 1880 e copiò Il Farmacista del maestro veneziano oltre a carpire i segreti di quella tradizione coloristica veneziana, mai passata di moda.
Prima di trasferirsi in pianta stabile a Venezia, però, egli si era innamorato di Giulia Rosa Desman una ragazza di famiglia alto borghese di Trieste; nonostante la diversità di ceto egli la sposò nel 1883 e ne fu legato con estremo affetto sino alla morte, avvenuta, per Giulia, nel 1926.
Domiciliato quindi a Venezia, dove vi rimase sino al 1887, si dedicò alla pittura di genere riportando notevoli successi, anche di critica che sfociarono nel 1886 in occasione della mostra di Brera a Milano con la Pescheria a Rialto (Alessandria, Pinacoteca Civica). Il dipinto vinse il premio Principe Umberto ma, a causa della nazionalità non italiana di Barison, venne revocato. Ma al di là dell’increscioso episodio, la tavolozza di Barison si era arricchita tra le lagune, aveva trovato nuova linfa e una sua connotazione ben precisa tra i pittori veneziani. Tuttavia la moglie Giulia, che poco si era ambientata a Venezia e che già aveva dato a Giuseppe ben tre figli (Arnaldo, Cesare ed Ester), chiese al marito di rientrare a Trieste e Barison acconsentì. Tornò dunque a Trieste, accolto dai circoli artistici con rispetto ma anche con una certa freddezza, dovuta in parte al sua carattere certo non facile e malleabile ed in parte da questa sua dichiarata pittura veneziana. Ma che pittura fu quella di Barison dal 1887 al 1931, anno della sua morte? Ancora una volta ci viene incontro Venezia; questa volta non per un clima generale ma per l’esposizione nazionale del 1887. Barison, in quell’occasione, poté vedere alcuni dipinti di primo piano nel panorama artistico italiano dell’epoca. Furono due i quadri che lo colpirono maggiormente; uno, del napoletano Michele Cammarano dal titolo La Rissa, caratterizzato da accenti patetici, un forte dinamismo e una assoluta teatralità nei gesti, l’altro, del genovese Nicolò Barabino dal titolo Quasi oliva speciosa, dal forte impatto sacrale rivisto in chiave simbolista che diede il la per il capolavoro nella produzione di Giuseppe Barison.
La rissa venne ripreso poco tempo dopo l’esposizione veneziana da Barison e tramutata in Dopo una rissa, mentre Quasi oliva speciosa in campis vide una sua personale e poetica versione nel 1899, a distanza di ben dodici anni.
La tela – che ha rivisto la luce con il volume edito dalla Fondazione Cassa di Risparmio e si presenta entro una ricca e monumentale cornice dell’epoca intagliata e dipinta dallo stesso Barison – trova nelle parole di introduzione del professor Giuseppe Pavanello la giusta descrizione: “sospesa fra realtà e idealità, da cui si sprigiona l’incanto, o, meglio, l’incantesimo dell’apparizione divina, accostante e, al tempo stesso, ieratica”.
Un momento unico il 1899 per il pittore (ben testimoniato anche dal piccolo e prezioso autoritratto) com se, idealmente, egli sprigionasse gli ultimi bagliori della sua arte e volesse rifuggire l’arrivo del nuovo secolo. Con il ‘900 infatti, la sua pennellata perde in fluidità e sebbene la sua fama a Trieste cresca notevolmente sino a portarlo a realizzare i pannelli per la Cassa di Risparmio di Trieste nel 1912 raffiguranti I Costruttori (dove ci offre un autoritratto nell’uomo in primo piano caratterizzato dalla svolazzante veste rossa) e I Mercanti egli non ha più quella forza di fine XIX secolo.
Protagonisti indiscussi delle sue tele nei primi del secolo sono i cavalli realizzati con estrema cura e meticolosità come nel dipinto Antica Canzone (Comune di Trieste) che sebbene utilizzati a cornice del dipinto divengono il fulcro della composizione facendo finire la scena degli innamorati in secondo piano.
Molti i dipinti rintracciati di formato fortemente verticale di tale filone che, con ogni probabilità, permettevano a Barison di creare quell’effetto della corsa a cavallo in maniera il più possibile veritiera.
Barison, ormai maturo, poteva così pensare ad una onesta vecchiaia fra le mura domestiche ed invece arrivò la guerra che lo costrinse ad emigrare in terra italiana e più precisamente a Pegli, in Liguria. Qui vi soggiornò dal 1915 al 1918 in casa del genero Roberto Amadi e della figlia Ester e iniziò ad accostarsi con continuità alla pittura di paesaggio e di marine.
Tornato a Trieste infatti, non abbandonò più tali soggetti e divenne con Guido Grimani e Ugo Flumiani uno dei massimi cantori di Trieste e del suo mare.
Nel raffigurare il mare di Trieste riuscì a raggiungere a volte un gusto post-impressionista come ben evidenziano le ultime ed estreme tavole realizzate en plein air; una volta a settimana egli chiudeva lo studio e si recava con i pennelli e queste piccole tavole in giro per la città posizionandosi ore ed ore nell’attesa di vedere con un particolare effetto luministico un’immagine nuova di Trieste e del suo mare.
In questi ultimi anni Barison non aveva chiuso del tutto le porte alle nuove istanze pittoriche ben esemplificate dai dipinti di Umberto Veruda, che aveva avuto modo di ritrarre Giuseppe nella sua breve esistenza, che sebbene superato faceva ancora presa per quella sua pittura sfarfallante “alla Boldini” e contraddistinta da larghe campiture di colore.
Ne sono un chiaro esempio l’Autoritratto del 1925 ed il Ritratto di donna (Trieste, collezione privata) creduto proprio di mano di Veruda.
Purtroppo la scomparsa di Giulia nel 1926 diede una spallata notevole al modus operandi di Barison che su volere dei figli, non abbandonò del tutto la pittura; gli ultimi ritratti mostrano chiaramente solo l’ombra del grande mestierante quale fu alla fine dell’Ottocento, un secolo che non aveva mai abbandonato.
Era uomo comunque dall’animo curioso anche in piena maturità tanto da cimentarsi con la musica (il figlio Cesare era un affermato violinista) e con le lingue per le quali era particolarmente portato.
Chiuse la sua parabola esistenziale nel 1931.
(Matteo Gardonio)

Giuseppe Barison (Trieste 1853 – 1931) – Autoritratto, 1928

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Giuseppe Barison (Trieste 1853 – 1931). Autoritratto, 1928. Olio su tela 61 x 45 cm. Milano, collezione privata.

L’artista nacque a Trieste il 5 settembre del 1853 da Francesco, di professione sarto e Caterina Frausin.
Notato sin da giovane per le capacità nel disegno, fu sostenuto dalla nobile Anna De Rin la quale, lo avviò dapprima all’arte frequentando lo studio del pittore Karl Emil Haase a Trieste ed in seguito gli permise di iscriversi all’Accademia di Belle Arti di Vienna.
Qui a partire dal 1872 Barison prese a seguire le lezioni del nazareno Karl Von Blaas, Eduard Von Engerth e soprattutto di August Eisenmenger che accostò il giovane alla pittura di storia.
Dai taccuini del periodo accademico presso gli eredi del pittore, possiamo stabilire quanto l’iter formativo fosse rigido sia dal punto di vista pratico che teorico con Barison pronto ad appuntarsi i volumi da leggere per proseguire negli studi.
Tornato a Trieste nel 1876 egli si impose l’anno seguente, nel 1877, partecipando alla Nona Esposizione di Belle Arti con il dipinto a carattere storico Isabella Orsini e il suo paggio che gli consentì di ottenere dal Comune di Trieste un ricco pensionato da poter usufruire per due anni a Roma.
Così Barison giunse nella città eterna fissando su carte e tele i luoghi che andava visitando e che aveva visto nelle opere del suo primo maestro a Trieste, Karl Haase. Tuttavia il soggiorno romano non fu proficuo a causa delle critiche piovute sul dipinto Muzio Attendolo Sforza (Museo Civico Revoltella di Trieste) che si accanivano sulla postura del cavallo definita “non naturale”. In realtà il gusto dell’epoca era cambiato e Barison si trovava a proporre un dipinto di matrice storicista in una città, Roma, che aveva ormai abbandonato tali soggetti. Eppure la tela, sebbene anacronistica, vede Barison sganciarsi da un rigido accademismo e aprirsi, se pur timidamente, ad ariosi scorci naturalistici.
Conclusa l’amara parentesi romana, egli tornò a Trieste ed iniziò a dedicarsi a quello che fu indubbiamente il pezzo forte del suo repertorio pittorico, vale a dire il ritratto; un genere, questo, che gli consentì non solo di esprimersi al meglio ma di sostenersi economicamente.
Eppure la parentesi romana aveva lasciato qualcosa di buono nel pittore; egli infatti aveva capito di doversi sintonizzare sulle nuove tendenze artistiche dell’epoca. Si indirizzò quindi verso Venezia e la pittura di Giacomo Favretto che lo influenzò in modo decisivo. Iniziò a partecipare alle esposizioni organizzate dalla Società Veneta Promotrice di Belle Arti a partire dal 1880 e copiò Il Farmacista del maestro veneziano oltre a carpire i segreti di quella tradizione coloristica veneziana, mai passata di moda.
Prima di trasferirsi in pianta stabile a Venezia, però, egli si era innamorato di Giulia Rosa Desman una ragazza di famiglia alto borghese di Trieste; nonostante la diversità di ceto egli la sposò nel 1883 e ne fu legato con estremo affetto sino alla morte, avvenuta, per Giulia, nel 1926.
Domiciliato quindi a Venezia, dove vi rimase sino al 1887, si dedicò alla pittura di genere riportando notevoli successi, anche di critica che sfociarono nel 1886 in occasione della mostra di Brera a Milano con la Pescheria a Rialto (Alessandria, Pinacoteca Civica). Il dipinto vinse il premio Principe Umberto ma, a causa della nazionalità non italiana di Barison, venne revocato. Ma al di là dell’increscioso episodio, la tavolozza di Barison si era arricchita tra le lagune, aveva trovato nuova linfa e una sua connotazione ben precisa tra i pittori veneziani. Tuttavia la moglie Giulia, che poco si era ambientata a Venezia e che già aveva dato a Giuseppe ben tre figli (Arnaldo, Cesare ed Ester), chiese al marito di rientrare a Trieste e Barison acconsentì. Tornò dunque a Trieste, accolto dai circoli artistici con rispetto ma anche con una certa freddezza, dovuta in parte al sua carattere certo non facile e malleabile ed in parte da questa sua dichiarata pittura veneziana. Ma che pittura fu quella di Barison dal 1887 al 1931, anno della sua morte? Ancora una volta ci viene incontro Venezia; questa volta non per un clima generale ma per l’esposizione nazionale del 1887. Barison, in quell’occasione, poté vedere alcuni dipinti di primo piano nel panorama artistico italiano dell’epoca. Furono due i quadri che lo colpirono maggiormente; uno, del napoletano Michele Cammarano dal titolo La Rissa, caratterizzato da accenti patetici, un forte dinamismo e una assoluta teatralità nei gesti, l’altro, del genovese Nicolò Barabino dal titolo Quasi oliva speciosa, dal forte impatto sacrale rivisto in chiave simbolista che diede il la per il capolavoro nella produzione di Giuseppe Barison.
La rissa venne ripreso poco tempo dopo l’esposizione veneziana da Barison e tramutata in Dopo una rissa, mentre Quasi oliva speciosa in campis vide una sua personale e poetica versione nel 1899, a distanza di ben dodici anni.
La tela – che ha rivisto la luce con il volume edito dalla Fondazione Cassa di Risparmio e si presenta entro una ricca e monumentale cornice dell’epoca intagliata e dipinta dallo stesso Barison – trova nelle parole di introduzione del professor Giuseppe Pavanello la giusta descrizione: “sospesa fra realtà e idealità, da cui si sprigiona l’incanto, o, meglio, l’incantesimo dell’apparizione divina, accostante e, al tempo stesso, ieratica”.
Un momento unico il 1899 per il pittore (ben testimoniato anche dal piccolo e prezioso autoritratto) com se, idealmente, egli sprigionasse gli ultimi bagliori della sua arte e volesse rifuggire l’arrivo del nuovo secolo. Con il ‘900 infatti, la sua pennellata perde in fluidità e sebbene la sua fama a Trieste cresca notevolmente sino a portarlo a realizzare i pannelli per la Cassa di Risparmio di Trieste nel 1912 raffiguranti I Costruttori (dove ci offre un autoritratto nell’uomo in primo piano caratterizzato dalla svolazzante veste rossa) e I Mercanti egli non ha più quella forza di fine XIX secolo.
Protagonisti indiscussi delle sue tele nei primi del secolo sono i cavalli realizzati con estrema cura e meticolosità come nel dipinto Antica Canzone (Comune di Trieste) che sebbene utilizzati a cornice del dipinto divengono il fulcro della composizione facendo finire la scena degli innamorati in secondo piano.
Molti i dipinti rintracciati di formato fortemente verticale di tale filone che, con ogni probabilità, permettevano a Barison di creare quell’effetto della corsa a cavallo in maniera il più possibile veritiera.
Barison, ormai maturo, poteva così pensare ad una onesta vecchiaia fra le mura domestiche ed invece arrivò la guerra che lo costrinse ad emigrare in terra italiana e più precisamente a Pegli, in Liguria. Qui vi soggiornò dal 1915 al 1918 in casa del genero Roberto Amadi e della figlia Ester e iniziò ad accostarsi con continuità alla pittura di paesaggio e di marine.
Tornato a Trieste infatti, non abbandonò più tali soggetti e divenne con Guido Grimani e Ugo Flumiani uno dei massimi cantori di Trieste e del suo mare.
Nel raffigurare il mare di Trieste riuscì a raggiungere a volte un gusto post-impressionista come ben evidenziano le ultime ed estreme tavole realizzate en plein air; una volta a settimana egli chiudeva lo studio e si recava con i pennelli e queste piccole tavole in giro per la città posizionandosi ore ed ore nell’attesa di vedere con un particolare effetto luministico un’immagine nuova di Trieste e del suo mare.
In questi ultimi anni Barison non aveva chiuso del tutto le porte alle nuove istanze pittoriche ben esemplificate dai dipinti di Umberto Veruda, che aveva avuto modo di ritrarre Giuseppe nella sua breve esistenza, che sebbene superato faceva ancora presa per quella sua pittura sfarfallante “alla Boldini” e contraddistinta da larghe campiture di colore.
Ne sono un chiaro esempio l’Autoritratto del 1925 ed il Ritratto di donna (Trieste, collezione privata) creduto proprio di mano di Veruda.
Purtroppo la scomparsa di Giulia nel 1926 diede una spallata notevole al modus operandi di Barison che su volere dei figli, non abbandonò del tutto la pittura; gli ultimi ritratti mostrano chiaramente solo l’ombra del grande mestierante quale fu alla fine dell’Ottocento, un secolo che non aveva mai abbandonato.
Era uomo comunque dall’animo curioso anche in piena maturità tanto da cimentarsi con la musica (il figlio Cesare era un affermato violinista) e con le lingue per le quali era particolarmente portato.
Chiuse la sua parabola esistenziale nel 1931.
(Matteo Gardonio)

Giuseppe Barison (Trieste 1853 – 1931). Ritratto della figlia Ester, 1907

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Giuseppe Barison (Trieste 1853 – 1931).Ritratto della figlia Ester, 1907. Olio su tela, 71 x 54 cm. Milano, collezione privata

L’artista nacque a Trieste il 5 settembre del 1853 da Francesco, di professione sarto e Caterina Frausin.
Notato sin da giovane per le capacità nel disegno, fu sostenuto dalla nobile Anna De Rin la quale, lo avviò dapprima all’arte frequentando lo studio del pittore Karl Emil Haase a Trieste ed in seguito gli permise di iscriversi all’Accademia di Belle Arti di Vienna.
Qui a partire dal 1872 Barison prese a seguire le lezioni del nazareno Karl Von Blaas, Eduard Von Engerth e soprattutto di August Eisenmenger che accostò il giovane alla pittura di storia.
Dai taccuini del periodo accademico presso gli eredi del pittore, possiamo stabilire quanto l’iter formativo fosse rigido sia dal punto di vista pratico che teorico con Barison pronto ad appuntarsi i volumi da leggere per proseguire negli studi.
Tornato a Trieste nel 1876 egli si impose l’anno seguente, nel 1877, partecipando alla Nona Esposizione di Belle Arti con il dipinto a carattere storico Isabella Orsini e il suo paggio che gli consentì di ottenere dal Comune di Trieste un ricco pensionato da poter usufruire per due anni a Roma.
Così Barison giunse nella città eterna fissando su carte e tele i luoghi che andava visitando e che aveva visto nelle opere del suo primo maestro a Trieste, Karl Haase. Tuttavia il soggiorno romano non fu proficuo a causa delle critiche piovute sul dipinto Muzio Attendolo Sforza (Museo Civico Revoltella di Trieste) che si accanivano sulla postura del cavallo definita “non naturale”. In realtà il gusto dell’epoca era cambiato e Barison si trovava a proporre un dipinto di matrice storicista in una città, Roma, che aveva ormai abbandonato tali soggetti. Eppure la tela, sebbene anacronistica, vede Barison sganciarsi da un rigido accademismo e aprirsi, se pur timidamente, ad ariosi scorci naturalistici.
Conclusa l’amara parentesi romana, egli tornò a Trieste ed iniziò a dedicarsi a quello che fu indubbiamente il pezzo forte del suo repertorio pittorico, vale a dire il ritratto; un genere, questo, che gli consentì non solo di esprimersi al meglio ma di sostenersi economicamente.
Eppure la parentesi romana aveva lasciato qualcosa di buono nel pittore; egli infatti aveva capito di doversi sintonizzare sulle nuove tendenze artistiche dell’epoca. Si indirizzò quindi verso Venezia e la pittura di Giacomo Favretto che lo influenzò in modo decisivo. Iniziò a partecipare alle esposizioni organizzate dalla Società Veneta Promotrice di Belle Arti a partire dal 1880 e copiò Il Farmacista del maestro veneziano oltre a carpire i segreti di quella tradizione coloristica veneziana, mai passata di moda.
Prima di trasferirsi in pianta stabile a Venezia, però, egli si era innamorato di Giulia Rosa Desman una ragazza di famiglia alto borghese di Trieste; nonostante la diversità di ceto egli la sposò nel 1883 e ne fu legato con estremo affetto sino alla morte, avvenuta, per Giulia, nel 1926.
Domiciliato quindi a Venezia, dove vi rimase sino al 1887, si dedicò alla pittura di genere riportando notevoli successi, anche di critica che sfociarono nel 1886 in occasione della mostra di Brera a Milano con la Pescheria a Rialto (Alessandria, Pinacoteca Civica). Il dipinto vinse il premio Principe Umberto ma, a causa della nazionalità non italiana di Barison, venne revocato. Ma al di là dell’increscioso episodio, la tavolozza di Barison si era arricchita tra le lagune, aveva trovato nuova linfa e una sua connotazione ben precisa tra i pittori veneziani. Tuttavia la moglie Giulia, che poco si era ambientata a Venezia e che già aveva dato a Giuseppe ben tre figli (Arnaldo, Cesare ed Ester), chiese al marito di rientrare a Trieste e Barison acconsentì. Tornò dunque a Trieste, accolto dai circoli artistici con rispetto ma anche con una certa freddezza, dovuta in parte al sua carattere certo non facile e malleabile ed in parte da questa sua dichiarata pittura veneziana. Ma che pittura fu quella di Barison dal 1887 al 1931, anno della sua morte? Ancora una volta ci viene incontro Venezia; questa volta non per un clima generale ma per l’esposizione nazionale del 1887. Barison, in quell’occasione, poté vedere alcuni dipinti di primo piano nel panorama artistico italiano dell’epoca. Furono due i quadri che lo colpirono maggiormente; uno, del napoletano Michele Cammarano dal titolo La Rissa, caratterizzato da accenti patetici, un forte dinamismo e una assoluta teatralità nei gesti, l’altro, del genovese Nicolò Barabino dal titolo Quasi oliva speciosa, dal forte impatto sacrale rivisto in chiave simbolista che diede il la per il capolavoro nella produzione di Giuseppe Barison.
La rissa venne ripreso poco tempo dopo l’esposizione veneziana da Barison e tramutata in Dopo una rissa, mentre Quasi oliva speciosa in campis vide una sua personale e poetica versione nel 1899, a distanza di ben dodici anni.
La tela – che ha rivisto la luce con il volume edito dalla Fondazione Cassa di Risparmio e si presenta entro una ricca e monumentale cornice dell’epoca intagliata e dipinta dallo stesso Barison – trova nelle parole di introduzione del professor Giuseppe Pavanello la giusta descrizione: “sospesa fra realtà e idealità, da cui si sprigiona l’incanto, o, meglio, l’incantesimo dell’apparizione divina, accostante e, al tempo stesso, ieratica”.
Un momento unico il 1899 per il pittore (ben testimoniato anche dal piccolo e prezioso autoritratto) com se, idealmente, egli sprigionasse gli ultimi bagliori della sua arte e volesse rifuggire l’arrivo del nuovo secolo. Con il ‘900 infatti, la sua pennellata perde in fluidità e sebbene la sua fama a Trieste cresca notevolmente sino a portarlo a realizzare i pannelli per la Cassa di Risparmio di Trieste nel 1912 raffiguranti I Costruttori (dove ci offre un autoritratto nell’uomo in primo piano caratterizzato dalla svolazzante veste rossa) e I Mercanti egli non ha più quella forza di fine XIX secolo.
Protagonisti indiscussi delle sue tele nei primi del secolo sono i cavalli realizzati con estrema cura e meticolosità come nel dipinto Antica Canzone (Comune di Trieste) che sebbene utilizzati a cornice del dipinto divengono il fulcro della composizione facendo finire la scena degli innamorati in secondo piano.
Molti i dipinti rintracciati di formato fortemente verticale di tale filone che, con ogni probabilità, permettevano a Barison di creare quell’effetto della corsa a cavallo in maniera il più possibile veritiera.
Barison, ormai maturo, poteva così pensare ad una onesta vecchiaia fra le mura domestiche ed invece arrivò la guerra che lo costrinse ad emigrare in terra italiana e più precisamente a Pegli, in Liguria. Qui vi soggiornò dal 1915 al 1918 in casa del genero Roberto Amadi e della figlia Ester e iniziò ad accostarsi con continuità alla pittura di paesaggio e di marine.
Tornato a Trieste infatti, non abbandonò più tali soggetti e divenne con Guido Grimani e Ugo Flumiani uno dei massimi cantori di Trieste e del suo mare.
Nel raffigurare il mare di Trieste riuscì a raggiungere a volte un gusto post-impressionista come ben evidenziano le ultime ed estreme tavole realizzate en plein air; una volta a settimana egli chiudeva lo studio e si recava con i pennelli e queste piccole tavole in giro per la città posizionandosi ore ed ore nell’attesa di vedere con un particolare effetto luministico un’immagine nuova di Trieste e del suo mare.
In questi ultimi anni Barison non aveva chiuso del tutto le porte alle nuove istanze pittoriche ben esemplificate dai dipinti di Umberto Veruda, che aveva avuto modo di ritrarre Giuseppe nella sua breve esistenza, che sebbene superato faceva ancora presa per quella sua pittura sfarfallante “alla Boldini” e contraddistinta da larghe campiture di colore.
Ne sono un chiaro esempio l’Autoritratto del 1925 ed il Ritratto di donna (Trieste, collezione privata) creduto proprio di mano di Veruda.
Purtroppo la scomparsa di Giulia nel 1926 diede una spallata notevole al modus operandi di Barison che su volere dei figli, non abbandonò del tutto la pittura; gli ultimi ritratti mostrano chiaramente solo l’ombra del grande mestierante quale fu alla fine dell’Ottocento, un secolo che non aveva mai abbandonato.
Era uomo comunque dall’animo curioso anche in piena maturità tanto da cimentarsi con la musica (il figlio Cesare era un affermato violinista) e con le lingue per le quali era particolarmente portato.
Chiuse la sua parabola esistenziale nel 1931.
(Matteo Gardonio)

Tinza e Marianza

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Tinza e Marianza
Tinza e Marianza sono due statue in bronzo, con una base di pietra, fabbricate nel 1876 da Fausto Asteo da Ceneda. Erano poste ai lati dell’ingresso del municipio per illuminare l’ingresso. Inizialmente sorreggevano sulla testa una bella lanterna in ferro battuto alimentata a petrolio, sostituita, all’arrivo del gas, da una palla di vetro opalino. Sono rimaste ad illuminare l’ingresso fino al 1934 o 1935. Su queste due ragazze ho trovato questa simpatica filastrocca: Xe storto el palazo, xe bruta la tore e Mikeze Jakeze bati le ore e Tinza e Marianza le stà sul porton e le varda le babe che va al liston.
Si dice che una delle due statue venne danneggiata da un carro armato o da un camion e furono tolte in quell’occasione.
(Negli scritti che ho trovato non c’è accordo sulla data, sulla fabbrica e sul materiale con cui sono state fatte, su quando e perchè furono tolte).
 (M. Tauceri)

Porticciolo di Cedas

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Il porticciolo di Cedas ha origini romane: era più ampio dell’attuale e poteva ospitare non meno di 60 legni minori. E’ stato costruito sopra ad un antico molo romano, ora scomparso, ma molto ben descritto da Ireneo della Croce, storico triestino del XVII secolo, e da Pietro Kandler, studioso ottocentesco. A monte del porticciolo attuale furono ritrovati alcuni resti di una villa risalente alla seconda metà del secondo secolo d.C. Tutta la zona divenne più tardi proprietà della famiglia Conti che dal luogo trasse nel 1650 il suo predicato nobiliare. La loro villa, ora di proprietà Janesich, fu particolarmente cara a Giusto Conti per la particolare salubrità che egli attribuiva al luogo, rimasto indenne dal contagio durante le epidemie di colera che infierirono a Trieste nel 1836, 1849 e 1855. Tre cippi, ancora esistenti, testimoniano con altrettante epigrafi la sua gratitudine. In prossimità della villa sorgeva nell’800 la batteria di cannoni di Cedas.
Aveva un corpo di guardia fisso ospitato nella robusta casa in arenaria ubicata all’altezza del porto, che venne donato alla città nel 1885 come testimonia una lapide murata all’estremità del suo braccio maggiore
. (Foto Paolo Carbonaio)

Androna Campo Marzio

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Il complesso urbano di Androna Campo Marzio costituisce la prima area industriale di Trieste. Qui infatti, era ubicato l’originario stabilimento meccanico dell’Arsenale Marittimo del Lloyd Austriaco. La Società di Navigazione del Lloyd Austriaco fu fondata nel 1836 quale sezione marittima dell’omonima compagnia di assicurazione navale, e in breve ne divenne l’attività principale. Ben presto si profilò la necessità per il Lloyd di impiantare a Trieste un proprio Arsenale completo di officine e fonderia. In questo contesto si inserisce la figura dell’imprenditore britannico Iver Borland.
Borland, giunto a Trieste nel 1815, investì ingenti capitali tra il 1835 e il 1838 per l’acquisto di terreni siti nel comune censuario di Chiarbola inferiore. Divenuto titolare della proprietà, egli propose al Lloyd la costruzione a proprie spese dell’arsenale Marittimo, che poi avrebbe ceduto in locazione decennale alla Società di Navigazione. Nel 1838 Borland raggiunse l’accordo con il Lloyd e ottenne dall’Ispezione Edile Civile il permesso per la fabbricazione di magazzini destinati a deposito, officina e fonderia. Il gruppo più antico dei magazzini, costruiti sul lato sinistro dell’Androna, furono realizzati a partire dal 1838 e portati a termine entro pochi anni, in quanto presenti già nelle mappe del 1842.
Il fallimento di Iver Borland, con la messa all’asta di tutti i suoi possedimenti tra il 1844 e il 1846, e la guerra del 1848-1849, che indusse gli Austriaci a concentrare a Trieste tutta l’attività relativa alla Marina Militare, decretarono il progressivo spostamento dell’attività siderurgiche da Campo Marzio verso aree della città più suscettibili di espansione. Conseguentemente gli edifici costruiti sul lato destro dell’Androna, realizzati tra il 1852 e il 1854, furono progettati, non più per ospitare attività siderurgiche ma per attività di servizio, come evidenziato anche dalla diversa strutturazione rispetto ai fabbricati del lato opposto.
I fabbricati ubicati sul lato sinistro dell’Androna Campo Marzio, e corrispondenti agli attuali numeri civici 4, 6, 8 e 12 sono legati dall’adozione di un medesimo linguaggio architettonico: muratura perimetrale a grossi blocchi di arenaria e piano terra scandito internamente da pilastri a croce supportanti archi incrociati. La suddivisone dello spazio interno, con grandi arcate a croce, permetteva di ottenere spazi estesi da destinarsi a magazzini e attività produttive. Gli edifici, che non raggiungono altezze superiori ai 15 metri, corrispondenti a un pianoterra e due piani superiori, sono contigui sui due lati, con copertura a falda e manto in coppi. L’edificio identificabile con il civico 4-6 è nobilitato da un portale ad arco d’ispirazione classica con pilastri supportanti la trabeazione decorata con triglifi. Gli edifici costruiti sul lato destro dell’Androna, corrispondenti agli attuali numeri civici 1 e 11, sono caratterizzati da mura perimetrali a blocchi lapidei e strutture interne metalliche con piastrini in ghisa a sezione circolare. Anche le strutture orizzontali, realizzate con travi in legno nei magazzini del lato opposto, qui sono in metallo. La copertura è realizzata a capriate in legno e le forometrie di facciata sono circolari, rettangolari e arcuate. La facciata dell’edificio n. 11 si conclude con un timpano, in origine ornato con un bassorilievo. (da: biblioteche Comune Trieste). (Foto Paolo Carbonaio)

Trieste Liberty – Architetto Umberto Fonda, 1912

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Trieste Liberty
Casa del 1912 tra Via della Galleria e Via Fulvio Testi dell’architetto Umberto Fonda. (Paolo Carbonaio)

Trieste Liberty – Casa dei Meloni del 1910 (Architetto Umberto Fonda)

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Trieste Liberty
Casa dei Meloni del 1910 (Architetto Umberto Fonda),
tra Via Ippolito Pindemonte e via dei Bonomo.
La casa prende il nome dalle sfere in pietra
somiglianti a dei meloni poste in cima. (Paolo Carbonaio)

Arco di Riccardo

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“L’arco di Riccardo” è uno dei più antichi monumenti della città risale al 33 a.C.; ci sono sempre state delle dispute sulle sue origini, su il suo nome e sulle sue funzioni. Nel 1910 il Comune acquistò i diritti delle aree circostanti, per ristrutturare l’arco e per liberarlo, per quanto era possibile, dalle case che gli erano addossate. Nel 1913 ebbero inizio gli scavi attorno all’arco sotto la direzione del prof. A. Puschi, direttore del civico Museo di Antichità e del dott. Pietro Sticotti, durante gli scavi vennero alla luce le mura della città dello spessore di due metri che andavano ad incontrarsi con l’arco, la cui parte laterale andava ad addentellarsi con le mura stesse, si suppose che nonostante il suo aspetto di arco trionfale, fosse stato una delle porte della città, ma vennero trovati anche una serie di muri e canali di scolo probabilmente legati al tempio della dea Cibele, (o “Magna Mater” madre di tutti gli dei) eretto in quella zona, questo portò a pensare che l’arco potesse essere l’ingresso del tempio stesso.
Diverse sono anche le interpretazioni fornite per spiegare l’etimologia del nome “Riccardo”: gli storici propendono per una deformazione popolare del termine “cardo maximus” ,nome di una delle principali strade romane, una leggenda popolare ritiene che il nome derivi da Riccardo Cuor di Leone, il quale, di ritorno dalla Terra Santa, fu tenuto prigioniero a Trieste, un’altra leggenda locale racconta che il nome, si riferisce a Carlo Magno, a cui l’arco sarebbe stato dedicato in occasione di un suo passaggio per la città.
Nei commenti del Gruppo gli scavi.  (M. Tauceri)
Foto collezione privata

Trieste – Molo San Carlo / Audace

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Il molo San Carlo venne costruito tra il 1743 ed il 1751.
Nel 1740 era affondata nel porto di Trieste, la nave San Carlo che venne utilizzata come base per la costruzione del nuovo molo, ispirandone il nome.

Più corto di quanto lo sia attualmente, misurava 95 metri di lunghezza ed era unito a terra tramite un piccolo ponte di legno. Nel 1778 venne allungato di 19 metri e nel 1860-1861 di altri 132 metri, raggiungendo così l’attuale lunghezza di 246 metri. Anche il ponte venne eliminato, congiungendo il molo direttamente alla terraferma.
Al molo san Carlo attraccavano allora sia navi passeggeri che navi mercantili, con gran movimento di persone e di merci.
Alla fine della prima guerra mondiale, il 3 novembre del 1918, la prima nave della Marina Italiana ad attraccare al molo San Carlo fu il cacciatorpediniere Audace, la cui ancora è ora esposta alla base del faro della Vittoria.
In ricordo di questo avvenimento nel marzo del 1922 venne cambiato il nome da San Carlo in Audace. All’estremità del molo, nel 1925, venne eretta una rosa dei venti in bronzo, con al centro una epigrafe che ricorda l’approdo, e sul fianco la dicitura “Fusa nel bronzo nemico III novembre MCMXXV”. La rosa, sorretta da una colonna in pietra bianca, sostituì una precedente rosa dei venti tutta in pietra. La data MCMIL incisa sulla colonna ricorda il ripristino della stessa dopo il danneggiamento subito durante la seconda guerra mondiale.
Nel tempo, con lo spostamento dei traffici marittimi in altre zone del porto, il molo Audace ha progressivamente perso la sua funzione mercantile, ed oggi vi attraccano saltuariamente solo imbarcazioni di passaggio. Il molo, oltre che meta turistica, è rimasto nella tradizione triestina un frequentato luogo di passeggio. (Fonti: Wikipedia e altre)

Storia di Trieste in sintesi


Storia di Trieste in sintesi

 

     Sin dal II millennio a.C. il territorio della provincia di Trieste fu sede di importanti insediamenti protostorici, i castellieri, villaggi arroccati sulle alture e protetti da fortificazioni in pietra, i cui abitanti appartenevano a popolazioni di probabile origine illirica e di stirpe indoeuropea. Fra il X e il IX secolo a.C. la popolazione autoctona entrò in contatto con un’altra etnia indoeuropea, i (Venetici, Heneti o Eneti), da cui venne notevolmente influenzata sotto il profilo culturale.

Il nome Tergeste è di origine preromana, con base preindoeuropea: terg = mercato, ed il suffisso -este, tipico dei toponimi venetici. In alternativa, si ritrova proposta l’origine latina del nome “tergestum” (riportata dal geografo di età augustea Strabone), legata al fatto che i legionari romani dovettero combattere tre battagle per avere ragione delle popolazioni indigene (“Ter-gestum bellum”, dal latino “ter” = tre volte e “gerere bellum” = far guerra, cui il participio passato da “gestum bellum”).

Con le conquiste militari dell’Illiria da parte dei Romani, i cui episodi più salienti furono la guerra contro la pirateria degli Istri del 221 a.C., la fondazione di Aquileia nel 181 a.C. e la guerra istrica del 178-177 a.C., ebbe inizio un processo di romanizzazione ed assimilazione delle popolazioni preesistenti. La “Venetia et Histria”, di cui Aquileia divenne la capitale.

Dall’anno della sua fondazione, Aquileia si era sviluppata rapidamente ed aveva assunto sempre più il ruolo di città fortezza: vennero costruiti templi, fontane, obelischi, acquedotti, un circo, un anfiteatro e persino un palazzo imperiale.  I canali fluviali garantivano il carico scarico delle mercanzie e degli approvvigionamenti via mare; contava quasi 200.000 abitanti.

Tergeste fu colonizzata alla metà del I secolo a.C. in epoca cesariana (Regio X Venetia et Histria), ed è probabile che la fortezza principale fosse situata sulle pendici del colle di San Giusto. I Tergestini sono menzionati nel De bello Gallico di Giulio Cesare, a proposito di una precedente invasione forse di Giapidi: “Chiamò T. Labieno e mandò la legione quindicesima (che aveva svernato con lui) nella Gallia Cisalpina, a tutela delle colonie dei cittadini romani, per evitare che incorressero, per incursioni di barbari, in qualche danno simile a quello che nell’estate precedente era toccato ai Tergestini che, inaspettatamente, avevano subito irruzioni e rapine. (CAES. Gall. 8.24). Tergestum fu citata poi da Strabone, geografo attivo in età augustea, che la definì come phrourion (avamposto militare) con funzioni di difesa e di snodo commerciale.

Tergeste si sviluppò e prosperò in epoca imperiale, imponendosi come uno dei porti più importanti dell’alto Adriatico sulla via Popilia-Annia. Il nucleo abitativo nel 33 a.C. venne cinto da alte mura (ancora visibile la porta meridionale, il cosiddetto Arco di Riccardo) da Ottaviano Augusto (murum turresque fecit) e venne arricchito da importanti costruzioni quali il Foro ed il Teatro.

Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, la città passò sotto il controllo dell’impero bizantino fino al 788, quando venne occupata dai franchi. Nel 1098 risultava già diocesi vescovile con il nome latino di Tergestum. Nel XII secolo divenne un Libero Comune e dopo secoli di battaglie contro la rivale Venezia, Trieste si pose sotto la protezione (1382) del duca d’Austria conservando però una notevole autonomia fino al XVII secolo.
Nel 1719 divenne porto franco ed in quanto unico sbocco sul mare Adriatico dell’Impero Austriaco, Trieste fu oggetto di investimenti e si sviluppò diventando, nel 1867, capoluogo della regione del Litorale Adriatico dell’impero (l'”Adriatisches Küstenland”). Nonostante il suo stato privilegiato di unico porto commerciale della Cisleithania e primo porto dell’Austria-Ungheria, Trieste conservò sempre in primo piano, nei secoli, i legami culturali con l’Italia; infatti, anche se la lingua ufficiale della burocrazia era il tedesco, l’italiano era la lingua del commercio e della cultura. Nel XVIII secolo il dialetto triestino (dialetto di tipo veneto) sostituì il tergestino, l’antico dialetto locale di tipo retoromanzo. Il triestino, parlato anche da scrittori e filosofi, continua ad essere tuttora l’idioma più usato in ambito familiare e in molti contesti sociali di natura informale e talvolta anche formale, affiancandosi, in una situazione di diglossia, all’italiano, lingua amministrativa e principale veicolo di comunicazione nei rapporti di carattere pubblico.
Trieste fu, con Trento, oggetto e al tempo stesso centro di irredentismo, movimento che, negli ultimi decenni del XIX secolo e agli inizi del XX aspirava ad un’annessione della città all’Italia. Ad alimentare l’irredentismo triestino erano soprattutto le classi borghesi in ascesa (ivi compresa la facoltosa colonia ebraica), le cui potenzialità ed aspirazioni politiche non trovavano pieno soddisfacimento all’interno dell’Impero austro-ungarico. Quest’ultimo veniva visto da molti come un naturale protettore del gruppo etnico slavo (verbali del consiglio dei ministri imperiali asburgici del 1866, dopo la perdita di Venezia, per ridurre dove possibile l’influenza dell’elemento italiano, in favore di quello germanico o slavo quando questi fossero presenti) che viveva sia in città che in quelle zone multietniche che costituivano il suo immediato retroterra (che iniziò ad essere definito in quegli anni con il termine di Venezia Giulia).
L’imperatore Francesco Giuseppe ordinò infatti una politica di “germanizzazione” e “slavizzazione” che andava contro gli Italiani che vivevano nel suo impero. Il sovrano ordinò: “si operi nel Tirolo del Sud, in Dalmazia e sul Litorale per la germanizzazione e la slavizzazione [Germanisierung oder Slawisierung] di detti territori […], con energia e senza scrupolo alcuno”: così recitava il verbale del Consiglio della Corona del 12 novembre 1866. Il termine “Litorale” era impiegato nell’amministrazione asburgica per indicare la Venezia Giulia, quindi anche Trieste. Fra le molte misure di germanizzazione e slavizzazione promosse dal governo e dall’amministrazione asburgica vi furono delle espulsioni di massa imposte dal governatore triestino, principe Hohenlohe, che provocarono la fuoriuscita forzata di circa 35.000 italiani da Trieste fra il 1903 ed il 1913. Nel 1913, dopo un altro decreto del principe Hohenlohe che prevedeva espulsioni d’Italiani, i nazionalisti slavi suoi sostenitori tennero un pubblico comizio contro l’Italia, per poi svolgere una manifestazione al grido di “Viva Hohenlohe! Abbasso l’Italia! Gli Italiani al mare!”, tentando poi di assalire lo stesso Consolato italiano.
Si ebbero inoltre altre iniziative repressive o discriminatorie nei confronti degli italiani, fra cui anche episodi di violenza e vittime. A Trieste tra il 10 e il 12 luglio 1868, si ebbero violenze sugli Italiani da parte di soldati asburgici arruolati fra gli sloveni locali, che provocarono diversi morti e un gran numero di feriti fra gli italiani. Una delle vittime, Rodolfo Parisi, fu massacrato con 26 colpi di baionetta. L’impero cercò inoltre di diffondere il più possibile scuole tedesche (esistevano scuole medie tedesche anche a Trieste, come in molte altre località limitrofe) od in alternativa slovene e croate, tagliando i fondi alle scuole italiane od anche proibendone la costruzione, proprio per cancellare la cultura italiana, così come avveniva negli stessi anni in Dalmazia. Gli stessi libri di testo furono sottoposti a rigide forme di censura, con esiti paradossali, come l’imposizione di studiare la letteratura italiana su testi tradotti dal tedesco o la proibizione di studiare la stessa storia di Trieste, perché ritenuta “troppo italiana”. L’autonomia triestina venne ad essere drasticamente ridotta dal “centralismo viennese” che “aveva attentato” sin dal 1861 “ai resti della vita autonomistica, specialmente a Trieste”. Infatti, era volontà del governo austriaco di “indebolire i poteri e la forza politica ed economica del comune di Trieste controllato dai nazionali-liberali Italiani, ritenendolo giustamente il cuore del liberalismo nazionale in Austria e delle tendenze irredentiste”. Questo prevedeva anche la recisione degli “stretti rapporti politici, culturali e sociali fra i liberali triestini e l’Italia”. Poiché all’interno della comunità ebraica triestina erano diffuse idee irredentiste e filotaliane, le autorità imperiali cercarono anche di diffondere l’antisemitismo in funzione antirredentista ed antitaliana.
In realtà agli inizi del Novecento il gruppo etnico sloveno era in piena ascesa demografica, sociale ed economica, e, secondo il discusso censimento del 1910, costituiva circa la quarta parte dell’intera popolazione triestina. Ciò spiega come l’irredentismo assunse spesso, nella città giuliana, dei caratteri marcatamente anti-slavi che vennero perfettamente incarnati dalla figura di Ruggero Timeus. La convivenza fra i vari gruppi etnici che aveva da secoli contraddistinto la realtà sociale di Trieste (e di Gorizia) subì, pertanto, un generale deterioramento fin dagli anni che precedettero la prima guerra mondiale.
Nel 1918 il Regio esercito entrò a Trieste acclamato dalla maggioranza della popolazione, che era di sentimenti italiani. La sicura imminente annessione della città e della Venezia Giulia all’Italia, fu però accompagnata da un ulteriore inasprimento dei rapporti tra il gruppo etnico italiano e quello sloveno, traducendosi talvolta anche in scontri armati. A tale proposito furono emblematici, il giorno 13 aprile 1920, i disordini scoppiati a Trieste in seguito di un attentato contro l’esercito italiano di stanza a Spalato, che aveva causato due vittime fra i militari. Durante i disordini, contraddistinti da un marcato carattere anti-slavo, un gruppo di squadristi triestini presidiò l’Hotel Balkan, ove aveva sede il Narodni dom (Casa Nazionale), centro culturale degli sloveni e delle altre nazionalità slave locali, che fu dato alle fiamme. «Il rogo…mostra con le fiamme, che ben si possono scorgere da diversi punti della città, la forza del fascismo in attesa».
Con la firma del Trattato di Rapallo del novembre 1920, Trieste passò definitivamente all’Italia, inglobando, nel proprio territorio provinciale, zone dell’ex Contea di Gorizia e Gradisca, dell’Istria e della Carniola.
Il periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale fu segnato da numerose difficoltà per Trieste. L’economia della città fu colpita infatti dalla perdita del suo secolare entroterra economico; ne soffrì soprattutto l’attività portuale e commerciale, ma anche il settore finanziario. Trieste perse la sua tradizionale autonomia comunale e cambiò anche la propria configurazione linguistica e culturale; quasi la totalità della comunità germanofona lasciò infatti la città dopo l’annessione all’Italia; con l’avvento del fascismo l’uso pubblico delle lingue slovena e tedesca fu proibito e vennero chiuse le scuole, i circoli culturali e la stampa della comunità slovena. Moltissimi sloveni così emigrarono nel vicino Regno di Jugoslavia.Un fenomeno analogo si era avuto, poco prima, ma in senso inverso, con la fuga dei dalmati italiani dalle loro ataviche terre, dinnanzi alle persecuzione attuate dai serbocroati, una volta che la Dalmazia era stata annessa al regno di Jugoslavia. Dalla fine degli anni venti, cominciò l’attività sovversiva dell’organizzazione antifascista e irredentista sloveno-croata TIGR, con alcuni attentati dinamitardi anche nel centro cittadino.
Nonostante i problemi economici e il teso clima politico, la popolazione della città crebbe negli anni venti del Novecento, grazie soprattutto all’immigrazione da altre zone dell’Italia. La prima metà degli anni trenta furono invece anni di ristagno demografico, con una leggera flessione della popolazione dell’ordine di circa l’1% su base quinquennale (nel 1936 si contarono infatti quasi duemila abitanti in meno che nel 1931). Nello stesso periodo, e successivamente, fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, furono portate avanti alcune importanti opere urbanistiche; tra gli edifici più rilevanti vanno ricordati il palazzo dell’Università e il Faro della vittoria. Con l’introduzione delle leggi razziali fasciste del 1938, la vita culturale ed economica della città subì un ulteriore degrado dovuto all’esclusione della comunità ebraica dalla vita pubblica.
Nel periodo che va dall’armistizio (8 settembre 1943) all’immediato dopoguerra, Trieste fu al centro di una serie di vicende che hanno segnato profondamente la storia del capoluogo giuliano e della regione circostante e suscitano tuttora accesi dibattiti. Nel settembre del 1943 la Germania nazista occupò senza alcuna resistenza la città che venne a costituire, insieme a tutta la Venezia Giulia una zona di operazioni di guerra, l’OZAK (Operationszone Adriatisches Küstenland), alle dirette dipendenze del Gauleiter di Carinzia Friedrich Rainer. Egli tollerò in città la ricostituzione di una sede del PFR, diretta dal federale Bruno Sambo, la presenza di un’esigua forza di militari italiani al comando del generale della GNR Giovanni Esposito e l’insediamento di un reparto della Guardia di Finanza. Si riservò però la nomina del podestà, nella persona di Cesare Pagnini, e del prefetto della provincia di Trieste, Bruno Coceani, entrambi ben accetti ai fascisti locali, alle autorità della RSI e allo stesso Mussolini, che conosceva personalmente Coceani. Durante l’occupazione nazista la Risiera di San Sabba – oggi Monumento Nazionale e museo – venne destinata a campo di prigionia e di smistamento per i deportati in Germania e Polonia e per detenuti politici, partigiani italiani e slavi. La presenza del forno crematorio nella Risiera testimonia che non fu utilizzata solo come luogo di smistamento e di detenzione di prigionieri, ma anche come campo di sterminio. Si tratta dell’unico campo di concentramento nazista presente in territorio italiano. In seguito, nei primi anni cinquanta la Risiera fu usata come campo profughi per gli esuli istriani, fiumani e dalmati in fuga dai territori passati alla sovranità jugoslava.
L’insurrezione dei partigiani italiani e jugoslavi a Trieste fu contraddistinta da uno svolgimento anomalo. Il 30 aprile 1945 il Comitato di Liberazione Nazionale del quale era presidente don Edoardo Marzari, composto da tutte le forze politiche antifasciste con l’eccezione dei comunisti, proclamò l’insurrezione generale; al tempo stesso le brigate dei partigiani jugoslavi con l’appoggio del PCI attaccarono dall’altipiano. Gli scontri si registrarono principalmente nelle zone di Opicina (sull’altipiano carsico), del Porto Vecchio, del castello di San Giusto e dentro il Palazzo di Giustizia, in città. Tutto il resto della città fu liberato. Il comando tedesco si arrese solo il 2 maggio alle avanguardie neozelandesi, che precedettero di un giorno l’arrivo del generale Freyberg. Le brigate partigiane jugoslave di Tito erano già giunte a Trieste il 1º maggio e i suoi dirigenti convocarono in breve tempo un’assemblea cittadina composta da cittadini jugoslavi e da due italiani. Questa assemblea proclamò la liberazione di Trieste, così presentando i partigiani di Tito come i veri liberatori della città agli occhi degli alleati spingendo i partigiani non comunisti del CLN a rientrare nella clandestinità.
Gli jugoslavi esposero sui palazzi la bandiera jugoslava, il Tricolore italiano con la stella rossa al centro e le bandiere rosse con la falce e martello. Le brigate jugoslave, giunte a Trieste a marce forzate per precedere gli anglo-americani nella liberazione della Venezia Giulia, non contenevano nessuna unità partigiana italiana inserita nell’Esercito jugoslavo, mandate invece a operare altrove, benché molti triestini (italiani e sloveni) vi fossero compresi. Gli alleati (nello specifico la Seconda divisione neozelandese, che fu la prima ad arrivare in città), riconobbero che la liberazione era stata compiuta dai partigiani di Tito e in cambio chiesero e ottennero la gestione diretta del porto e delle vie di comunicazione con l’Austria (infatti, non essendo ancora a conoscenza del suicidio di Hitler, gli angloamericani stavano preparando il passo ad un’invasione dell’Austria e quindi della Germania). L’esercito jugoslavo assunse i pieni poteri. Nominò un Commissario Politico, Franc Štoka, membro del partito comunista. Il 4 maggio vennero emanati dall’autorità jugoslava a Trieste, il Comando Città di Trieste (Komanda Mesta Trst) gli ordini 1, 2, 3 e 4 che proclamano lo stato di guerra, impongono il coprifuoco (a combattimenti terminati) e uniformano il fuso orario triestino a quello jugoslavo. Limitarono la circolazione dei veicoli e prelevarono dalle proprie case numerosi cittadini, sospettati di nutrire scarse simpatie nei confronti della ideologia che guidava le brigate jugoslave. Fra questi non vi furono solo fascisti o collaborazionisti, ma anche combattenti della Guerra di Liberazione. Un memorandum statunitense dell’8 maggio recitava:
« A Trieste gli Jugoslavi stanno usando tutte le familiari tattiche di terrore. Ogni italiano di una qualche importanza viene arrestato. Gli Jugoslavi hanno assunto un controllo completo e stanno attuando la coscrizione degli italiani per il lavoro forzato, rilevando le banche e altre proprietà di valore e requisendo cereali e altre vettovaglie in grande quantità. »
L’otto maggio proclamarono Trieste città autonoma in seno alla Repubblica Federativa di Jugoslavia. Sugli edifici pubblici fecero sventolare la bandiera Jugoslava affiancata dal Tricolore italiano con la stella rossa al centro. La città visse momenti difficili, di gran timore, con le persone dibattute tra idee profondamente diverse: l’annessione alla Jugoslavia o il ritorno all’Italia. In questo clima si verificarono confische, requisizioni e arresti sommari. Vi furono anche casi di vendette personali, in una popolazione esasperata dagli eventi bellici e dalle contrapposizioni del periodo fascista. Invano i triestini sollecitarono l’intervento degli Alleati. Il comando alleato e quello jugoslavo raggiunsero infine un accordo provvisorio sull’occupazione di Trieste. Il 9 giugno 1945 a Belgrado, Josip Broz Tito, verificato che Stalin non era disposto a sostenerlo, concluse l’accordo con il generale Alexander che portò le truppe jugoslave a ritirarsi dietro la linea Morgan. Gli alleati assunsero allora il controllo della Città e del suo hinterland.
Le rivendicazioni jugoslave e italiane nonché l’importanza del porto di Trieste per gli Alleati furono la spinta nel 1947, sotto l’egida dell’ONU, alla istituzione del “Territorio libero di Trieste” (TLT). Per l’impossibilità di nominare un Governatore scelto in accordo tra angloamericani e sovietici, il TLT rimase diviso in due zone d’occupazione militare: la Zona A amministrata dagli Angloamericani e la Zona B amministrata dagli jugoslavi.
Tale situazione si protrasse fino al 1954 quando il problema venne risolto confermando la spartizione del territorio libero di Trieste secondo le due zone già assegnate: anzi, furono incorporati alla Jugoslavia alcuni villaggi della zona A (Albaro Vescovà, San Servolo, Crevatini, Elleri, Plavie, Ancarano e Valle Oltra) appartenenti al comune di Muggia, che vide in tal modo dimezzato il proprio territorio. La frontiera fra la zona assegnata all’amministrazione italiana e quella occupata dalla Jugoslavia venne così a passare sui rilievi che sovrastavano la periferia meridionale della cittadina istriana.
Tale situazione provvisoria fu resa definitiva nel 1975, col Trattato di Osimo stipulato tra l’Italia e la Jugoslavia, nel quale si dichiarava il definitivo ritorno della città all’Italia. Nel 1962 Trieste divenne capoluogo della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia.
Nel 2004, assieme ad altri Paesi, la Slovenia entra a far parte dell’Unione Europea e solo 3 anni più tardi la vicina Repubblica aderisce ai trattati di Schengen, facendo perdere quindi a Trieste la sua decennale posizione di città di confine.