Piazza Grande o meglio Piazza san Pietro attorno al 1820

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Piazza san Pietro nel 1820 circa.
a sinistra la chiesa di san Pietro, demolita a fine Ottocento.Al suo posto, palazzo Modello. e dietro la Dogana vecchia, dove oggi c’è il Tergesteo. La fila di edifici stretta e lunga in alto verrà inglobata nel Municipio di fine Ottocento, la A sta per la cancelleria del governo, la B è la Loggia – ricordata dagli attuali archi sotto il Municipio e difatti dietro c’è la stretta via della Loggia. Casa Jovovich è sempre al suo posto anche se adesso la chiamano casa Pitteri e c’è sotto il Despar. I due circoli al centro dovrebbero essere la fontana e la colonna di Carlo VI
Attaccata a san Pietro la casa di Nicolò Stratti che diventerà palazzo Stratti e gli Specchi, e davanti il teatro Vecchio o teatro san Pietro, che fu pure sede del Comune, e fu demolito anch’esso.
Poi ci sono le carceri, con un cortile ed un deposito.. la Locanda Grande che occupava parte della piazza e fra le carceri e la locanda la torre del Porto. Oltre la quale via dell’orologio che esiste tuttora- in parte e che ora sbocca a metà dell’attuale piazza.
Dopo via dell’orologio, che per anni tagliò la piazza con le rotaie del tram, viene il mandracchio, il porto riparato e protetto. Quello che viene ricordato dalle lucine blu per terra per ricordare che c’era il mare. Su cui, dopo interrato, sorse un effimero giardino. A sinistra il primo palazzo governatoriale, più piccolo dell’attuale e la cui facciata principale era su piazza del teatro, che si vede a sinistra . Il molo che proteggeva il mandracchio aveva una batteria di artiglieria ed una punta che rimase visibile dopo l’interramento, fino all’allargamento delle rive .

Si tratta della piazza, che , ingrandita, diventerà Piazza Unità e poi Piazza Unità d’Italia

 

Fonti: Celli Tognon e altri: la piazza nella città moderna, Rutteri : Trieste spunti dal suo passato, Zubini. Cittavecchia

Trieste : Scavi archeologici di via Battaglia, 1984

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Scavi archeologici di via Battaglia, 1984. Foto Giorgetti
 
VIA DONOTA E VIE LIMITROFE

 
TORRE-PORTA DONOTA
Nel medioevo questa porta era sormontata da una massiccia torre merlata a pianta quadrata datata nel Trecento; inoltre era munita di un ponte levatoio e di un fossato riempito d’acqua che si estendeva lungo quasi tutto il perimetro di difesa.
La porta Donota, che si trovava in linea retta sopra quella di Riborgo, con la quale formava il complesso fortificato di Donota-Riborgo, rappresentava uno dei principali accessi alla città e portava direttamente al colle di San Giusto.
Oggi appare come aperta verso l’interno, mentre la facciata originale esterna non è più visibile, poichè gli è addossato un edificio moderno. In seguito allo sviluppo urbano ottocentesco l’area antistante alla torre è stata circondata da diversi edifici, diventando l’attuale PIAZZA DONOTA. Nel corso degli interventi di ristrutturazione edilizia nel periodo 1982-1984 vennero rinvenute parte delle strutture medioevali della torre che consolidate ospitano l’ANTIQUARIUM inaugurato il 14 dicembre 1985.
La denominazione Donota è antichissima, attestata almeno dal XIV secolo, di origine non accertata, per opinione comune, è da collegarsi al fatto che questa porta fosse la sola che potesse venir aperta di notte, quindi dall’antico dialetto “de note”, ne è derivato il nome di Donota. Lo storico Luigi de Jenner fa risalire l’origine del nome a Donata vedova di Cadolo dei Cadoli che possedeva immobili nella zona.

PIAZZA DI DONOTA
Gli edifici all’angolo della piazza – via della Piccola Fornace vennero demoliti nell’aprile 1935.

VIA DONOTA (da largo Riborgo a via del Seminario)
La strada un tempo aveva inizio dalla scomparsa piazzetta San Giacomo, l’intera zona mutò aspetto nel 1935 con la demolizione di un gruppo di dodici case comprese fra le vie Donota, della Ghiaccerae di Riborgo, che portò alla creazione dell’attuale largo Riborgo.
All’angolo di via Donota e via Battaglia nel 1981 durante i lavori per il recupero edilizio condotto dall’Istituto Case Popolari, vennero ritrovati importanti ruderi romani, in una sucessiva campagna di scavi condotta dal 1982 al 1986, vennero alla luce un edificio risalente al I secolo, tombe a fossa del IV secolo, altre sepolture e anfore, tutto ciò ora è visibile nell’Antiquarium di via Donota, aperto dalla Soprintendenza in data 14 dicembre 1985
 
 
VICOLO SANTA CHIARA (oggi da piazza di Donota a via delle Candele), a ricordo dell’antico cenobio [1] di S.Chiara, monastero delle Clarisse con annessa chiesa dedicata a Santa Chiara che è esistito attorno al XIII secolo.
[1](cenòbio s. m. [dal lat. tardo coenobium, gr. κοινόβιον, comp. di κοινός «comune» e βίος «vita»] – Luogo dove più monaci fanno vita comune, sottoposti alla medesima regola; monastero).

VIA DELLE CANDELE ( da vicolo Santa Chiara a via Battaglia) in riferimento ad una cereria aperta sul posto forse nel 1740 da un certo Guadagnini o nel 1780 da Abramo Vita Basevi

VIA BATTAGLIA (da via Donota a via del Caboro)
in riferimento alla famiglia Battaglia che possedeva parecchie case nella via.
 
VIA GRUZZULIS (da via Donota a via Prelaser)
in riferimento ad una famiglia con tale nome.

VIA DEL CROCEFISSO
toponimo settecentesco dovuto all’edicola detta “Pontal de Cristo” che si trova all’angolo con via di Donota L’originale forse di origine medioevale è stato distrutto dal fuoco nel 1931 e sostituito da un altro appositamente eseguito, che fu trafugato assieme alla corona sovrastante, il 23 dicembre 1980. L’Associazione commercianti ed esercenti e e il comitato “Fiorire Trieste” fecero realizzare un nuovo crocefisso ad opera dello scultore Renzo. Possenelli che fu posto nell’edicola il 30 ottobre 1987.
Il crocefisso rubato era stato restituito danneggiato, qualche mese dopo il furto lasciato in un confessionale, restaurato a cura del laboratorio di Viviana Deffar e Donatella Russo Cirillo è stato riposizionato nella sua sede originaria in data 23 maggio 2004
Lungo la strada si trova la piccola edicola dedicata a S.Maria, a protezione della via , la cupoletta con le finestre in vetro è scomparsa, ma l’edicola con la madonnina è stata restaurata. Sulla base c’è scritto A 1834

VIA DI MONTUZZA oggi VIA ROTA ( inizia dove via Donota s’incontra con via del Seminario, causa la forte pendenza è formata soprattutto da scalini termina in via Capitolina)
Via G. Rota fino al 1919 si chiamava “via di Montuzza” e prima ancora “contrada di Montuza.” E’ dedicata all’illustre musicista-compositore Giuseppe Rota(1833-1911), nato a Trieste, suo padre era originario di Momiano d’Istria, studiò violino, pianoforte e composizione, esordì nel 1851 al teatro Mauroner con l’opera “il Lazzarone”, dopo aver tenuto concerti in varie città d’Italia si stabilì a Torino, nel 1859 fece ritorno a Trieste, chiamato ad occupare il posto di direttore della Cappella Civica e della Civica scuola di canto, le sue opere vennero rappresentate anche a Parma, Bologna e la Scala di Milano… non fosse che ormai da anni è chiusa.
 

A destra della via Donota: c’erano gli edifici le strade e le androne scomparse nelle demolizioni fra gli anni 1934-1937.

ANDRONA DEI PORTA attraverso la quale si entrava nel giardino appartenente alla famiglia Porta (oggi non più esistente, subito dopo l’anfiteatro romano)

ANDRONA DEGLI SCALINI sistemata con scalini dalla metà del settecento (al termine di via Donota, nell’androna si trovava un lavatoio pubblico rimasto in funzione fino al 1936 ; oggi collegata all’ex androna della Fontanella è un sentiero che collega via del Teatro Romano e via Donota

VIA DI RENA (oggi non più esistente da via del Pozzo Bianco a via Donota)
Nella foto s (scomparsa nelle demolizioni degli anni ’30), da via Donota alta. La mappa del 1912 nei commenti.
All’origine di questo nome è il Teatro Romano, al tempo considerato erroneamente un “arena”, (arena vecia= Rena Vecia) ci sono documenti che ne attestano l’esistenza del teatro già nel 1690, in seguito i resti scomparvero sotto le case costruite nel corso degli anni. Via di Rena iniziava da via del Pozzo Bianco e arrivava fino via Donota; in questa strada nel 1732 venne edificata da Stefano Conti, la casa domenicale e la cappelletta dedicata alla Sacra famiglia.

ANDRONA DEI POZZI (oggi non più esistente si trovava alla fine della via Rena) in riferimento a due antichi pozzi

VIA DEL CROCEFISSO
Via del Crocefisso, il nome è dovuto ad un edicola con il crocefisso posta all’inizio della via. L’originale settecentesco è stato asportato nel 1913 e sostituito da un altro appositamente eseguito che fu trafugato il 23 dicembre 1980. L’Associazione commercianti ed esercenti e e il comitato “Fiorire Trieste” fecero realizzare un nuovo crocefisso ad opera dello scultore R. Possenelli che fu posto nell’edicola il 30 ottobre 1987.
In via del Crocefisso (da via Donota a piazzetta Tor Cucherna) c’è un edicola dedicata a S.Maria, a protezione della via , la cupoletta con le finestre in vetro è scomparsa, ma in seguito l’edicola con la madonnina è stata restaurata, sulla base c’è scritto A 1834- S. Maria Mater Grazie-

(Margherita Tauceri)


Testi consultati:

Le Antiche Mura e Torri di Trieste di Dino Cafagna
Vie e Piazza di Trieste Moderna di Antonio Trampus
Cittavecchia di Fabio Zubini

Basilica di S. Giovanni in Tuba

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La Basilica si trova a San Giovanni di Duino, località del comune di Duino-Aurisina nota anche per le risorgive del fiume Timavo. Nelle vicinanze, al di sopra della S.S. 14, è posto il monumento dedicato al 78º Reggimento fanteria “Lupi di Toscana”, a memoria delle valorose azioni militari condotte durante la Prima Guerra Mondiale, dalle pendici dell’Hermada fino alle foci del Timavo, dove nel maggio 1917 perse la vita il Maggiore Giovanni Randaccio. Non distante dal nucleo abitativo di San Giovanni di Duino è ubicata la grotta del Mitreo, scoperta nel 1964 dalla Società Alpina delle Giulie e dedicata al culto di origine indoiranica di Mithra, importato dalle legioni romane di ritorno dall’Oriente.

La Basilica di S. Giovanni in Tuba, in stile gotico, fu edificata nel XV secolo dai conti di Walsee, signori di Duino, in un’area che aveva già ospitato un tempio pagano di cui ci rimangono testimonianze epigrafiche, e sopra i resti di una basilica paleocristiana del V secolo d.C., della quale si conservano nel presbiterio della chiesa un pavimento a mosaico con elementi geometrici simili a quelli di Grado e Aquileia, e altri reperti a costituire un piccolo lapidario con calchi e iscrizioni.

Strabone, ci narra di Diomede, re dell’Etolia, che reduce dalla guerra di Troia avrebbe fatto costruire un tempio a Nettuno, con annessi due boschetti sacri. Vi era venerato anche Saturno, come si evince da un mortarium in argilla recante la scritta “NVMEN SATVRNI”, rinvenuto in uno scavo presso la porta principale della basilica. Su questo primigenio luogo di culto dedicato a Diomede, nel IV/V secolo fu costruita una chiesa dedicata a S.Giovanni Battista, santo delle acque, con annesso cenobio poi distrutto dagli Avari nel 610-611, e ricostruito. La basilica fu più e più volte devastata durante le invasioni barbariche a partire dal 402: prima dai Visigoti di Alarico, poi dai Vandali di Ricimiero, da Attila re degli Unni, e qualche decennio dopo da Odoacre, re degli Eruli. Nel 752 Duino passò sotto la dominazione dei Longobardi e infine sotto i Franchi di Carlo Magno. Tra il 900 e il 973, per ben otto volte gli Ungari invasero questi territori, distruggendo nuovamente il cenobio nel 902. Venne ricostruito e ancora distrutto per opera di pirati turchi.

Nel 1085, il patriarca di Aquileia, Uldarico I di Eppenstein, donò la chiesa, allora nota come S.ti Johannis de Timavo, all’abate Giovanni di Beligna affinché venissero ripresi gli offici religiosi. Nel 1113, in una fossa collocata dietro l’altar maggiore del presbiterio, il menzionato abate avrebbe rinvenuto delle importanti reliquie, nascoste almeno cinquecento anni prima al fine di preservarle dalla profanazione barbarica. Dei contenitori in marmo di queste reliquie, uno soltanto è giunto a noi, custodito nella sagrestia della chiesa arcipretale di Monfalcone. Reca un carme epigrafico in latino.

Nel 1121, la basilica, allora chiamata S.Johannes de Chars, venne restaurata e ingrandita ad opera di Uldarico o Vodolrico, con tre absidi più profonde e la costruzione della fossa sull’asse di quello centrale, eseguita in seguito alla scoperta delle reliquie. La suddivisione in tre navate con copertura a volte dovrebbe risalire al XIII secolo. Nel 1362, la basilica venne ancora saccheggiata e bruciata.

Nel 1430 nella chiesa furono deposti i corpi di Giorgio de Reichenburg e di Martha degli Ungnad, consorte di Giovanni de Reichenburg, capitano dei Walsee a Duino.

Nel 1483 la basilica fu ampliata dai signori di Walsee, assumendo un aspetto abbastanza simile a quello attuale.

Nel 1642 Giovanni Filippo della Torre costruì la torre campanaria e suo figlio, conte Filippo Giacomo, fece erigere l’altar maggiore. Nel 1712 venne sepolto nella chiesa il conte Luigi Leopoldo della Torre.

Durante il conflitto 1915-1918, l’edificio venne a trovarsi sulla linea del fuoco e la chiesa fu quasi totalmente distrutta: crollò il campanile veneziano, il tetto, e il più dei muri perimetrali. Andarono perduti tutti gli affreschi. A quei tempi la basilica si presentava in stile barocco, con un grande altare su cui svettava una pala ottocentesca che ne ricopriva completamente la finestra centrale. Conteneva altri quattro altari, due alle pareti laterali e due di fronte all’ingresso – una galleria per l’organo era alloggiata sopra due colonne. Viene ricordata sovraccarica di lapidi, dipinti e lampade, tanto da riempire ogni spazio utile, nel più invadente stile barocco. Dovrà subire ancora lo scempio del tempo e i danni di un nuovo conflitto bellico prima che si intervenga al recupero di ciò che ne sarà rimasto. Un intervento iniziato nel 1949, per interessamento del generale Airey del GMA, con l’intento di riportare la basilica alle sue forme originali. Ristrutturazione che avrebbe fatto emergere importanti strutture murarie sepolte e indagate con maggiore attenzione nel 1961 dall’archeologo Mario Mirabella Roberti: un pavimento con motivi geometrici a ottagoni e quadrati, un’abside poligonale con tre lapidi votive dedicate alla Spes Augusta, risalenti alla metà del V secolo, una fossa medievale scoperta al centro del presbiterio in cui fu raccolto il deposito delle reliquie, e altre parti architettoniche riconducibili al XV secolo.

«Vi si è riconosciuta nell’insieme una basilica orientata, larga m 11 e lunga m 21 dal muro di facciata all’attacco dell’abside (misure interne); questa, poligonale all’esterno, è profonda m 3,40 e larga m 4,50. Mentre il muro meridionale della basilica è stato asportato, i resti del muro settentrionale erano ben conservati all’interno della chiesa odierna insieme con le strutture essenziali del presbiterio; questo è tuttora visibile, perché l’altare attuale, impostato su un pilastro di cemento armato, sporge dall’area di scavo che rimane così libera. » (Cuscito 1992)

Il restauro fu seguito dal soprintendente architetto Fausto Franco e si concluse il 3 novembre 1951. Altri elementi in marmo, di età alto-medievale, furono disposti ad arte all’interno dell’edificio. Le lapidi di fronte all’ingresso provengono da un antico cimitero rimosso nel 1915.

Nel 1990 la chiesa di S.Giovanni in Tuba ha subito ulteriori restauri. (g.c.)


BIBLIOGRAFIA
:

P. KANDLER, Della chiesa di S. Giovanni de Tuba od al Timavo, in «L’Istria» IV, 1849;

E. MARCON, L’abbazia di S. Giovanni di Tuba, in «La Panarie» 59, 1933;

M. MIRABELLA ROBERTI, La basilica paleocristiana di San Giovanni del Timavo, in «Studi monfalconesi e duinati» 1976;

G. CUSCITO, Le Chiese di Trieste. Trieste 1992;

F. ZUBINI, Chiesa di S.Giovanni in Tuba, in «Duino-Aurisina». Trieste 1994

San Giovanni di Duino : Basilica Paleocristiana di S. Giovanni in Tuba

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La Basilica si trova a San Giovanni di Duino, località del comune di Duino-Aurisina nota anche per le risorgive del fiume Timavo. Nelle vicinanze, al di sopra della S.S. 14, è posto il monumento dedicato al 78º Reggimento fanteria “Lupi di Toscana”, a memoria delle valorose azioni militari condotte durante la Prima Guerra Mondiale, dalle pendici dell’Hermada fino alle foci del Timavo, dove nel maggio 1917 perse la vita il Maggiore Giovanni Randaccio. Non distante dal nucleo abitativo di San Giovanni di Duino è ubicata la grotta del Mitreo, scoperta nel 1964 dalla Società Alpina delle Giulie e dedicata al culto di origine indoiranica di Mithra, importato dalle legioni romane di ritorno dall’Oriente.

La Basilica di S. Giovanni in Tuba, in stile gotico, fu edificata nel XV secolo dai conti di Walsee, signori di Duino, in un’area che aveva già ospitato un tempio pagano di cui ci rimangono testimonianze epigrafiche, e sopra i resti di una basilica paleocristiana del V secolo d.C., della quale si conservano nel presbiterio della chiesa un pavimento a mosaico con elementi geometrici simili a quelli di Grado e Aquileia, e altri reperti a costituire un piccolo lapidario con calchi e iscrizioni.

Strabone, ci narra di Diomede, re dell’Etolia, che reduce dalla guerra di Troia avrebbe fatto costruire un tempio a Nettuno, con annessi due boschetti sacri. Vi era venerato anche Saturno, come si evince da un mortarium in argilla recante la scritta “NVMEN SATVRNI”, rinvenuto in uno scavo presso la porta principale della basilica. Su questo primigenio luogo di culto dedicato a Diomede, nel IV/V secolo fu costruita una chiesa dedicata a S.Giovanni Battista, santo delle acque, con annesso cenobio poi distrutto dagli Avari nel 610-611, e ricostruito. La basilica fu più e più volte devastata durante le invasioni barbariche a partire dal 402: prima dai Visigoti di Alarico, poi dai Vandali di Ricimiero, da Attila re degli Unni, e qualche decennio dopo da Odoacre, re degli Eruli. Nel 752 Duino passò sotto la dominazione dei Longobardi e infine sotto i Franchi di Carlo Magno. Tra il 900 e il 973, per ben otto volte gli Ungari invasero questi territori, distruggendo nuovamente il cenobio nel 902. Venne ricostruito e ancora distrutto per opera di pirati turchi.

Nel 1085, il patriarca di Aquileia, Uldarico I di Eppenstein, donò la chiesa, allora nota come S.ti Johannis de Timavo, all’abate Giovanni di Beligna affinché venissero ripresi gli offici religiosi. Nel 1113, in una fossa collocata dietro l’altar maggiore del presbiterio, il menzionato abate avrebbe rinvenuto delle importanti reliquie, nascoste almeno cinquecento anni prima al fine di preservarle dalla profanazione barbarica. Dei contenitori in marmo di queste reliquie, uno soltanto è giunto a noi, custodito nella sagrestia della chiesa arcipretale di Monfalcone. Reca un carme epigrafico in latino.

Nel 1121, la basilica, allora chiamata S.Johannes de Chars, venne restaurata e ingrandita ad opera di Uldarico o Vodolrico, con tre absidi più profonde e la costruzione della fossa sull’asse di quello centrale, eseguita in seguito alla scoperta delle reliquie. La suddivisione in tre navate con copertura a volte dovrebbe risalire al XIII secolo. Nel 1362, la basilica venne ancora saccheggiata e bruciata.

Nel 1430 nella chiesa furono deposti i corpi di Giorgio de Reichenburg e di Martha degli Ungnad, consorte di Giovanni de Reichenburg, capitano dei Walsee a Duino.

Nel 1483 la basilica fu ampliata dai signori di Walsee, assumendo un aspetto abbastanza simile a quello attuale.

Nel 1642 Giovanni Filippo della Torre costruì la torre campanaria e suo figlio, conte Filippo Giacomo, fece erigere l’altar maggiore. Nel 1712 venne sepolto nella chiesa il conte Luigi Leopoldo della Torre.

Durante il conflitto 1915-1918, l’edificio venne a trovarsi sulla linea del fuoco e la chiesa fu quasi totalmente distrutta: crollò il campanile veneziano, il tetto, e il più dei muri perimetrali. Andarono perduti tutti gli affreschi. A quei tempi la basilica si presentava in stile barocco, con un grande altare su cui svettava una pala ottocentesca che ne ricopriva completamente la finestra centrale. Conteneva altri quattro altari, due alle pareti laterali e due di fronte all’ingresso – una galleria per l’organo era alloggiata sopra due colonne. Viene ricordata sovraccarica di lapidi, dipinti e lampade, tanto da riempire ogni spazio utile, nel più invadente stile barocco. Dovrà subire ancora lo scempio del tempo e i danni di un nuovo conflitto bellico prima che si intervenga al recupero di ciò che ne sarà rimasto. Un intervento iniziato nel 1949, per interessamento del generale Airey del GMA, con l’intento di riportare la basilica alle sue forme originali. Ristrutturazione che avrebbe fatto emergere importanti strutture murarie sepolte e indagate con maggiore attenzione nel 1961 dall’archeologo Mario Mirabella Roberti: un pavimento con motivi geometrici a ottagoni e quadrati, un’abside poligonale con tre lapidi votive dedicate alla Spes Augusta, risalenti alla metà del V secolo, una fossa medievale scoperta al centro del presbiterio in cui fu raccolto il deposito delle reliquie, e altre parti architettoniche riconducibili al XV secolo.

«Vi si è riconosciuta nell’insieme una basilica orientata, larga m 11 e lunga m 21 dal muro di facciata all’attacco dell’abside (misure interne); questa, poligonale all’esterno, è profonda m 3,40 e larga m 4,50. Mentre il muro meridionale della basilica è stato asportato, i resti del muro settentrionale erano ben conservati all’interno della chiesa odierna insieme con le strutture essenziali del presbiterio; questo è tuttora visibile, perché l’altare attuale, impostato su un pilastro di cemento armato, sporge dall’area di scavo che rimane così libera. » (Cuscito 1992)

Il restauro fu seguito dal soprintendente architetto Fausto Franco e si concluse il 3 novembre 1951. Altri elementi in marmo, di età alto-medievale, furono disposti ad arte all’interno dell’edificio. Le lapidi di fronte all’ingresso provengono da un antico cimitero rimosso nel 1915.

Nel 1990 la chiesa di S.Giovanni in Tuba ha subito ulteriori restauri. (g.c.)


BIBLIOGRAFIA
:

P. KANDLER, Della chiesa di S. Giovanni de Tuba od al Timavo, in «L’Istria» IV, 1849;

E. MARCON, L’abbazia di S. Giovanni di Tuba, in «La Panarie» 59, 1933;

M. MIRABELLA ROBERTI, La basilica paleocristiana di San Giovanni del Timavo, in «Studi monfalconesi e duinati» 1976;

G. CUSCITO, Le Chiese di Trieste. Trieste 1992;

F. ZUBINI, Chiesa di S.Giovanni in Tuba, in «Duino-Aurisina». Trieste 1994

 

 

 

 

 

 

 

La Villa Romana di Barcola

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Pianta del complesso della Villa Romana di Barcola


In età romana l’occupazione del territorio si attua attraverso il moltiplicarsi di ville urbano-rustiche che utilizzano le risorse locali e avviano delle attività economiche. La presenza romana è maggiormente collocata lungo la costa, in relazione con i commerci, resi sempre più intensi dalla continua espansione di Aquileia. Nella zona costiera fino a Sistiana, specialmente nei siti dove si trovavano approdi per le navi, sono stati rinvenuti numerosi resti romani, appartenenti anche a ville rustiche, probabilmente in relazione con l’attività estrattiva della pietra. Nel territorio carsico, più ci si allontana dal mare, più i resti di vasellame (anfore e vasi di uso domestico) si fanno scarsi e sono riconducibili ad attività agricole e pastorali. Nel caso di ville affacciate o vicine al mare, le indagini archeologiche hanno portato alla luce piccoli porticcioli annessi, i quali consentivano i trasporti marittimi. Tale sistema, estensibile almeno fino a Sistiana e in molte località costiere dell’Istria, rivela la presenza di una organizzazione produttiva e ricchi traffici.

Veduta di Barcola di fine Ottocento da Forte Kressich. Civici Musei di Storia ed Arte

Anche la riviera di Barcola attrasse l’attenzione dei romani per la posizione incantevole, e per il fatto che nell’ampia insenatura a riparo dai venti il mare è più quieto, consentendo l’attracco delle navi. La chiamarono Vallicula poiché si estendeva in un avvallamento, poi il nome si contrasse in Valcula. 

Fondo di proprietà di Enrico de Ritter-Zahony

Nell’autunno del 1887, a Barcola, all’altezza del porticciolo del Cedas, durante gli scavi per la realizzazione di un canale o di un muro di cinta lungo il confine con il terreno appartenente alla famiglia Artelli che conduceva alla fabbrica di ghiaccio di proprietà del cav. de Ritter, vennero alla luce dei mosaici che rivelarono i resti di un complesso romano risalente al I°-II° sec. a.C.          

Immagine storica degli scavi. Civici Musei di Storia ed Arte

Il Prof. Alberto Puschi, allora direttore del Civico Museo di Antichità, venne incaricato di eseguire dei saggi nel fondo di proprietà di Enrico de Ritter-Zahony. La prima campagna di scavi ebbe luogo dall’aprile 1888 al 4 maggio 1889 grazie a contributi pubblici e privati. Alessandro Cesare mise a disposizione lo stabilimento balneare Excelsior, da utilizzare quale primo deposito dei reperti, il Lloyd fornì il legname necessario per i lavori, la ditta Naschitz la tela che sarebbe servita per la copertura dei mosaici. Molti furono coloro che offrirono il proprio lavoro gratuitamente. Vennero alla luce i resti di edifici che allora sembrarono separati – si giunse poi alla conclusione che si tratta di un’unico complesso, una grande villa romana che si estendeva su una superficie di oltre quattromila metri quadrati, con un fronte a mare di 140 metri. L’edificio, disposto su più terrazze, era composto da numerosi ambienti residenziali e di servizio: un peristilio, impianti termali, un’esedra, una palestra, un giardino e un ninfeo. La grandezza del complesso, la ricchezza delle decorazioni e dei mosaici, indica che la villa apparteneva a personaggi di alto rango.

Fondo di proprietà della famiglia Artelli

La scoperta indusse a proseguire le ricerche negli anni successivi (1888-1889; 1890-1891) individuando una notevole documentazione epigrafica. Vennero rinvenute diverse monete le quali furono d’aiuto per una datazione più precisa del sito.

Si suppose che il complesso doveva risultare dalla fusione di due ville, costruite in tempi successivi: quella a monte, con mosaici di pregevole fattura, risalente al primo secolo; la seconda villa, più vasta della prima, a emiciclo panoramico, forse adibita a residenza estiva, del secondo o terzo secolo. Durante gli scavi effettuati tra il 1888 e il 1889, venne rinvenuta una statua marmorea, rovesciata a terra e spezzata in più parti, che probabilmente era collocata nel complesso della palestra. Il ritrovamento valse al complesso il nome di “Villa della Statua”. 


Statua marmorea di Villa della Statua, Diadúmenos di Policleto. Foto E.Marcovich

La scultura in marmo greco, di ottimo livello qualitativo, alta 1,24 m. è una replica del Diadúmenos di Policleto (scultore greco del V sec. a.C.). Il soggetto (in greco Diadúmenos, cioè “che si cinge la fronte con la benda della vittoria”), rappresenta un giovane atleta appoggiato sulla gamba destra, la sinistra flessa e portata in avanti, molto in voga nel mondo greco e romano per le numerose repliche giunte fino ai giorni nostri. Si compone di varie parti tenute assieme con dei perni di ferro, le cui tracce sono ancora visibili: sul retro della gamba destra si conserva una porzione del sostegno originale.

Nel Lapidario Tergestino del Castello di San Giusto (visitabile tutti i giorni), sono esposti i resti lapidei provenienti dall’area capitolina, dagli edifici sacri, dal Teatro e dalle necropoli. Nella Sala D trovano collocazione la maggior parte dei mosaici provenienti dalla villa di Barcola e la statua del Diadúmenos.

(g.c.)


Bibliografia di riferimento:

A. Puschi, Edificio romano scoperto nella villa di Barcola. Relazione degli scavi eseguiti per cura del Civico Museo di Antichità negli anni 1888 e 1889, “Archeografo Triestino” 21, 1896-7;

Federica Fontana, La villa romana di Barcola. A proposito delle villae maritimae della Regio X, Roma, 1993;

Fabio Zubini, Barcola, (Le ville romane). Trieste 1995;

Rita Auriemma e Snježana Karinja (a cura di): Terre di Mare, L’archeologia dei paesaggi costieri e le variazioni climatiche. Atti del Convegno Internazionale di Studi. Trieste, 2008;

Giulia Mian, L’atleta della villa di Barcola, (Terre di Mare, Atti del Convegno Internazionale di Studi). Trieste, 2008;

Castello di San Giusto – Lapidario Tergestino

La Villa Romana di Barcola – Lapidario Tergestino

 

L’Antiquarium di via Donota

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Le immagini durante gli scavi, dai pannelli presenti

 

L’Antiquarium nasce in seguito alle scoperte degli anni 80-84  in coincidenza coi primi lavori di restauro in Cittavecchia, zona Donota: si scoprono resti di una domus/sepolcreto e di mura cittadine romane. Per cui è stato messo in evidenza quanto  trovato, alcune vetrinette di oggetti, a cui sono stati aggiunti altri relativi al successivo scavo sovrastante di via Barbacan. I pannelli esplicativi spiegano anche qualcosa relativamente al Teatro romano, le cui sculture sono però al Lapidario tergestino al castello.

Questi risultano essere i primi scavi sistematico condotti a Trieste dopo quelli degli anni Trenta, caratterizzati quelli da un obiettivo di esaltazione della romanità tergestina, questi con criteri più attuali.

La via Donota viene considerata come la strada che congiungeva Aquileia con la parte centrale dell’antica Tergeste, sul prolungamento del Cardo maximus, anche se il suo andamento risulta parallelo alla linea di costa e al teatro romano. Gli edifici risultano esterni alle mura urbiche, quindi.
Nel piccolo antiquarium sono  esposti resti romani, lucerne, ceramiche, vetri, ma a differenza di quelli esposti  al Civico Museo, che spesso provengono dal mercato antiquario e non ne è nota la provenienza, questi sono giunti direttamente dagli scavi locali per cui attestano la vita in loco.
Com’era la zona prima dell’inizio dei lavori, dai pannelli, nemmeno la torre Donota medievale era distinguibile.

Gli scavi riconoscono una domus – casa romana costruita in due epoche: una prima più di lusso nel I secolo a C ed una successiva nel I secolo d C; nel II secolo le due case risultano abbandonate come abitazione, forse in parte trasformate in fabbrica, e sul davanti si installa una zona cimiteriale (quelle erano sempre fuori dalle mura).

Della casa sono riconosciute due latrine (forica, successus); esse a volte erano collegate a sistemi idrici come qua che l’acqua non doveva mancare, anche se poi passò a pozzo nero. C’era una “seduta” e un bastone con spugna che serviva come noi usiamo lo scopino…

il sepolcreto che è la parte verso l’esterno, diviso da un corridoio dal resto dalla domus, è delimitato da pietre con copertura semisferica conteneva parecchie tombe, quelle di bambini erano in anfore.

All’esterno, una  macina, probabilmente per olio

Il successivo reperto è dato dalle mura urbiche romane, che in quel punto formano un angolo, risalendo verso il colle e verso l’arco di Riccardo che sempre più si sta qualificando come porta romana.

Pannelli presenti illustrano la storia delle mura, e del solco tracciato con l’aratro, il famoso buris/is che ci facevano studiare fra le eccezioni latine!

Nelle vetrine sono conservati oggetti ritrovati, si tratta  di oggetti di vita quotidiana o di decorazioni dell’interno come mosaici o pezzi di intonaco dipinto.

 

Oggetti domestici quali stoviglie, pentole da cucina. molte di quella caratteristica ceramica lucida rossiccia detta terra sigillata. Alcune col sigillo della fabbrica. Dal tipo di terra , dalla forma delle stoviglie e dal marchio gli esperti riconoscono la provenienza, dall’Africa, dalla Grecia…


Tante lucerne, le case romane non erano molto luminose

è interessante confrontare il frammento a sinistra sotto, con una Iside/Diana/Selene con una lucerna più integra del Museo Civico. sotto a destra

oggetti di uso quotidiano: vetri, aghi di osso o avorio, scatolette, uno strigile per le detersione del sudore degli atleti, un elemento di bronzo probabilmente di mobile

Oggetti provenienti dalle tombe: collanine, fibbie,  pendente a forma di mezzaluna, bicchiere di vetro, lama di coltello, monete

a parte, il Tesoretto di piazza Barbacan: un gruzzoletto di monete ritrovate assieme: paura di invasioni? proprietario accumulatore?

Da ultimo, un sigillo di piombo del doge Vitale II Michiel (1156 – 1172) Vitalia Michael Dei Gratia Venecie Dalmacieatque Chroatie dux

 

testo e foto di Elisabetta Marcovich


 

Bibliografia suggerita dalla Sovrintendenza ai monumenti:

D. Briquel, La leggenda di Romolo e il rituale della fondazione della città, dalla Mostra. Milano, 2000;

De Vecchi Resciniti, Vidulli Torlo: Tutto Città vecchia – Percorsi di storia cittadina. Trieste, 1992;

Filippi, le procedure i riti di fondazione. Modena, 1993;

Lettich, Trieste Romana Archeografo  triestino 1984;

Maselli-Scotti, Trieste uno scavo archeologico per la città. Trieste, 1989;

Maselli-Scotti, Tergeste.  Antichità altoadriatiche, 1990;

Maselli-Scotti, Trieste alla luce delle recenti indagini – Convegno. Trieste-Roma, 1987;

Maselli-Scotti, Edilizia abitativa a Tergeste, 2001.

 

 

 

Trieste: Aurisina. Vedetta Liburnia.

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Trieste: Aurisina. Vedetta Liburnia.
Foto Paolo Carbonaio
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Si tratta di una ex “torre piezometrica”, ovvero di una struttura tecnica a servizio dell’acquedotto, che ha la funzione di mantenere sufficientemente alta e regolare la pressione dell’acqua. In particolare, questa “torre piezometrica” era collegata ad un ramo d’acquedotto da 6 pollici che, partendo dalle Sorgenti di Aurisina, serviva la Stazione ferroviaria. Fu eretta negli anni 1854/56, in quella che allora era una desolata landa carsica, nella quale la torre doveva spiccare come una torre medievale. Oggi è invece circondata da un fitto bosco di pini, che cominciano quasi ad insidiarne il primato dell’altezza. Il progetto di tutto l’acquedotto (ed anche dell’attuale vedetta Liburnia) fu firmato dall’ingegnere viennese Carl Junker (1827-1882) – lo stesso del Castello di Miramare. Bei tempi, nei quali una struttura “tecnica” non doveva esser solo efficiente ma, se possibile, anche architettonicamente aggraziata… e nei quali un architetto di grido non trovava degradante utilizzare il suo talento anche per opere minori. All’epoca della sua edificazione, fu motivo di una querelle con gli abitanti di Santa Croce; infatti la torre, e le relative tubature, si trovano su terreni di proprietà della Comunella di Santa Croce.
Il 09.09.1861 i delegati Antonio Cossutta e Giuseppe Bogatez presentarono un’istanza al Consiglio Municipale di Trieste per il ripristino del pieno diritto di proprietà degli abitanti di Santa Croce sul fondo n. tav. 3348 e n. cat. 454, occupato dalla Società Acquedotto Aurisina con le opere di canalizzazione ed il serbatoio. Ricordano come detti abitanti non furono preventivamente consultati ed alle loro proteste fu risposto, dal Presidente cav. Scrinzi e dall’ing. Junker, che per il bisogno della villa si sarebbe aperta una spina d’acqua perenne.
Invece la popolazione, di oltre milleduecento anime, ha solo una cisterna. La cui acqua non basta nemmeno per quattro mesi all’anno, per cui bisogna recarsi “collo spendio di trequarti d’ora fra andata e ritorno ad una sorgente presso il mare e ciò per aspra strada o addirittura mandare i carri a San Giovanni di Duino”. All’istanza è allegata una “mappa censuaria della Comune di S.ta Croce nel Litorale, Territorio di Trieste”.
Appena nel marzo 1862 il Comune di Trieste informa della questione la Direzione dell’Acquedotto Aurisina, ricordando che “ripetute volte gli abitanti del villaggio hanno chiesto che fosse accordato uno sbocco d’acqua, ad essi stato promesso in compenso del fondo comunale occupato per l’acquedotto” ed invitandola perciò “a voler dichiararsi, in qual modo ritiene di venir incontro alla domanda dei medesimi”. La discussione si trascina negli anni seguenti, con un tentativo di coinvolgere anche la Società della Ferrovia Meridionale (Südbahn – Gesellscahaft), che però declina ogni responsabilità nel merito, in quanto la Direzione dell’Acquedotto Aurisina, all’epoca in cui aveva ceduto gli impianti (1858), si era assunta l’obbligo di definire tutte le pendenze relative all’occupazione dei fondi. Gli abitanti di Santa Croce dovettero quindi attendere ancora a lungo, prima di ottenere finalmente l’acqua, Abbandonata nel secondo dopoguerra, la torre fu riadattata ed attrezzata a vedetta nel 1985, a cura della sezione CAI di Fiume, per celebrare il proprio centenario. (a destra la targa che ricorda i lavori eseguita dall’Impresa Innocente e Stipanovich e sotto quella del CAI) – Da: carsosegreto.it

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Si tratta di una ex “torre piezometrica”, ovvero di una struttura tecnica a servizio dell’acquedotto, che ha la funzione di mantenere sufficientemente alta e regolare la pressione dell’acqua. In particolare, questa “torre piezometrica” era collegata ad un ramo d’acquedotto da 6 pollici che, partendo dalle Sorgenti di Aurisina, serviva la Stazione ferroviaria. Fu eretta negli anni 1854/56, in quella che allora era una desolata landa carsica, nella quale la torre doveva spiccare come una torre medievale. Oggi è invece circondata da un fitto bosco di pini, che cominciano quasi ad insidiarne il primato dell’altezza. Il progetto di tutto l’acquedotto (ed anche dell’attuale vedetta Liburnia) fu firmato dall’ingegnere viennese Carl Junker (1827-1882) – lo stesso del Castello di Miramare. Bei tempi, nei quali una struttura “tecnica” non doveva esser solo efficiente ma, se possibile, anche architettonicamente aggraziata… e nei quali un architetto di grido non trovava degradante utilizzare il suo talento anche per opere minori. All’epoca della sua edificazione, fu motivo di una querelle con gli abitanti di Santa Croce; infatti la torre, e le relative tubature, si trovano su terreni di proprietà della Comunella di Santa Croce.
Il 09.09.1861 i delegati Antonio Cossutta e Giuseppe Bogatez presentarono un’istanza al Consiglio Municipale di Trieste per il ripristino del pieno diritto di proprietà degli abitanti di Santa Croce sul fondo n. tav. 3348 e n. cat. 454, occupato dalla Società Acquedotto Aurisina con le opere di canalizzazione ed il serbatoio. Ricordano come detti abitanti non furono preventivamente consultati ed alle loro proteste fu risposto, dal Presidente cav. Scrinzi e dall’ing. Junker, che per il bisogno della villa si sarebbe aperta una spina d’acqua perenne.
Invece la popolazione, di oltre milleduecento anime, ha solo una cisterna. La cui acqua non basta nemmeno per quattro mesi all’anno, per cui bisogna recarsi “collo spendio di trequarti d’ora fra andata e ritorno ad una sorgente presso il mare e ciò per aspra strada o addirittura mandare i carri a San Giovanni di Duino”. All’istanza è allegata una “mappa censuaria della Comune di S.ta Croce nel Litorale, Territorio di Trieste”.
Appena nel marzo 1862 il Comune di Trieste informa della questione la Direzione dell’Acquedotto Aurisina, ricordando che “ripetute volte gli abitanti del villaggio hanno chiesto che fosse accordato uno sbocco d’acqua, ad essi stato promesso in compenso del fondo comunale occupato per l’acquedotto” ed invitandola perciò “a voler dichiararsi, in qual modo ritiene di venir incontro alla domanda dei medesimi”. La discussione si trascina negli anni seguenti, con un tentativo di coinvolgere anche la Società della Ferrovia Meridionale (Südbahn – Gesellscahaft), che però declina ogni responsabilità nel merito, in quanto la Direzione dell’Acquedotto Aurisina, all’epoca in cui aveva ceduto gli impianti (1858), si era assunta l’obbligo di definire tutte le pendenze relative all’occupazione dei fondi. Gli abitanti di Santa Croce dovettero quindi attendere ancora a lungo, prima di ottenere finalmente l’acqua, Abbandonata nel secondo dopoguerra, la torre fu riadattata ed attrezzata a vedetta nel 1985, a cura della sezione CAI di Fiume, per celebrare il proprio centenario. (a destra la targa che ricorda i lavori eseguita dall’Impresa Innocente e Stipanovich e sotto quella del CAI) – Da: carsosegreto.it

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Si tratta di una ex “torre piezometrica”, ovvero di una struttura tecnica a servizio dell’acquedotto, che ha la funzione di mantenere sufficientemente alta e regolare la pressione dell’acqua. In particolare, questa “torre piezometrica” era collegata ad un ramo d’acquedotto da 6 pollici che, partendo dalle Sorgenti di Aurisina, serviva la Stazione ferroviaria. Fu eretta negli anni 1854/56, in quella che allora era una desolata landa carsica, nella quale la torre doveva spiccare come una torre medievale. Oggi è invece circondata da un fitto bosco di pini, che cominciano quasi ad insidiarne il primato dell’altezza. Il progetto di tutto l’acquedotto (ed anche dell’attuale vedetta Liburnia) fu firmato dall’ingegnere viennese Carl Junker (1827-1882) – lo stesso del Castello di Miramare. Bei tempi, nei quali una struttura “tecnica” non doveva esser solo efficiente ma, se possibile, anche architettonicamente aggraziata… e nei quali un architetto di grido non trovava degradante utilizzare il suo talento anche per opere minori. All’epoca della sua edificazione, fu motivo di una querelle con gli abitanti di Santa Croce; infatti la torre, e le relative tubature, si trovano su terreni di proprietà della Comunella di Santa Croce.
Il 09.09.1861 i delegati Antonio Cossutta e Giuseppe Bogatez presentarono un’istanza al Consiglio Municipale di Trieste per il ripristino del pieno diritto di proprietà degli abitanti di Santa Croce sul fondo n. tav. 3348 e n. cat. 454, occupato dalla Società Acquedotto Aurisina con le opere di canalizzazione ed il serbatoio. Ricordano come detti abitanti non furono preventivamente consultati ed alle loro proteste fu risposto, dal Presidente cav. Scrinzi e dall’ing. Junker, che per il bisogno della villa si sarebbe aperta una spina d’acqua perenne.
Invece la popolazione, di oltre milleduecento anime, ha solo una cisterna. La cui acqua non basta nemmeno per quattro mesi all’anno, per cui bisogna recarsi “collo spendio di trequarti d’ora fra andata e ritorno ad una sorgente presso il mare e ciò per aspra strada o addirittura mandare i carri a San Giovanni di Duino”. All’istanza è allegata una “mappa censuaria della Comune di S.ta Croce nel Litorale, Territorio di Trieste”.
Appena nel marzo 1862 il Comune di Trieste informa della questione la Direzione dell’Acquedotto Aurisina, ricordando che “ripetute volte gli abitanti del villaggio hanno chiesto che fosse accordato uno sbocco d’acqua, ad essi stato promesso in compenso del fondo comunale occupato per l’acquedotto” ed invitandola perciò “a voler dichiararsi, in qual modo ritiene di venir incontro alla domanda dei medesimi”. La discussione si trascina negli anni seguenti, con un tentativo di coinvolgere anche la Società della Ferrovia Meridionale (Südbahn – Gesellscahaft), che però declina ogni responsabilità nel merito, in quanto la Direzione dell’Acquedotto Aurisina, all’epoca in cui aveva ceduto gli impianti (1858), si era assunta l’obbligo di definire tutte le pendenze relative all’occupazione dei fondi. Gli abitanti di Santa Croce dovettero quindi attendere ancora a lungo, prima di ottenere finalmente l’acqua, Abbandonata nel secondo dopoguerra, la torre fu riadattata ed attrezzata a vedetta nel 1985, a cura della sezione CAI di Fiume, per celebrare il proprio centenario. (a destra la targa che ricorda i lavori eseguita dall’Impresa Innocente e Stipanovich e sotto quella del CAI) – Da: carsosegreto.it

Le lapidi di san Giusto: la lapide di fra Pace da Vedano

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Lapide di fra Pace da Vedano a san Giusto navata sinistra. Foto di Elisabetta Marcovich

La lapide di fra Pace da Vedano vescovo dal 1330 al 1341. Si trovava per terra nella cappella di s Caterina ora dedicata a san Carlo Borromeo, detta pure dei Borboni per le sepolture dei Carlisti, c’è per terra una lapide che ricorda che era sepolto qua, ma questa è addossata ad un muro della buia navata destra.

Non ha senso distinguere fra lapidi interne ed esterne in quanto all’origine: in chiesa venivano seppelliti Vescovi e notabili e le loro lapidi tombali erano sparse su tutta la pavimentazione, come ben descrive Pietro Kandler in un suo prezioso articolo: nei lavori del 1842 vennero tutte tolte dal pavimento e messe a decorare la base esterna della chiesa, assieme a qualche altra lapide proveniente dalla chiesa del Rosario, allora assegnata alla Comunità evangelica. I restauri degli anni trenta riportarono dentro, al loro posto, grazie al lavoro di Kandler, la maggior parte delle lapidi, tranne quelle dei Vescovi che erano nel presbiterio. Una parte rimane esposta esternamente alla chiesa, sul retro. (E. Marcovich)

Le lapidi di san Giusto: la lapide dei Bonomo

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La lapide della tomba dei Bonomo a san Giusto.
Foto Elisabetta Marcovich

Non ha senso distinguere fra lapidi interne ed esterne in quanto all’origine: in chiesa venivano seppelliti Vescovi e notabili e le loro lapidi tombali erano sparse su tutta la pavimentazione, come ben descrive Pietro Kandler in un suo prezioso articolo: nei lavori del 1842 vennero tutte tolte dal pavimento e messe a decorare la base esterna della chiesa, assieme a qualche altra lapide proveniente dalla chiesa del Rosario, allora assegnata alla Comunità evangelica. I restauri degli anni trenta riportarono dentro, al loro posto, grazie al lavoro di Kandler, la maggior parte delle lapidi, tranne quelle dei Vescovi che erano nel presbiterio. Una parte rimane esposta esternamente alla chiesa, sul retro.

la lapide della famiglia Bonomo. 1635. Esterno della chiesa. I Bonomo furono una delle famose Tredici Casade e diedero in particolare a Trieste un importante vescovo

(E. Marcovich)

Le lapidi di san Giusto : la lapide della famiglia Locatelli

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Lapide della famiglia Locatelli, un tempo al Rosario ora esposta sul retro della Cattedrale.
Foto Elisabetta Marcovich

 

Non ha senso distinguere fra lapidi interne ed esterne in quanto all’origine: in chiesa venivano seppelliti Vescovi e notabili e le loro lapidi tombali erano sparse su tutta la pavimentazione, come ben descrive Pietro Kandler in un suo prezioso articolo: nei lavori del 1842 vennero tutte tolte dal pavimento e messe a decorare la base esterna della chiesa, assieme a qualche altra lapide proveniente dalla chiesa del Rosario, allora assegnata alla Comunità evangelica. I restauri degli anni trenta riportarono dentro, al loro posto, grazie al lavoro di Kandler, la maggior parte delle lapidi, tranne quelle dei Vescovi che erano nel presbiterio. Una parte rimane esposta esternamente alla chiesa, sul retro.

La lapide della famiglia Locatelli, 1638, dalla chiesa del Rosario, quando la chiesa passò al culto augustano, alcuni elementi cattolici vennero recuperati . (E. Marcovich)

La Caverna di Gabrovizza (Grotta dell’Orso) e i suoi resti preistorici


 
Ingresso della Grotta di Gabrovizza - Foto Tiesse, da Wikipedia

La cavità, nota come la grotta dell’Orso, si trova sul Carso triestino, a circa mezzo chilometro da Gabrovizza, nel comune di Sgonico.


F.to Paolo Parenzan

Ampia circa 175 metri e suddivisa in tre tronconi, rispettivamente di 50, 90 e 30 metri, con una larghezza massima di poco superiore ai 20 metri ed una profondità di 39 metri, per la sua conformazione è stata un rifugio ideale sia per animali, sia per gli uomini della preistoria. Nella parte iniziale della caverna sono stati rinvenuti resti di cibo e manufatti di vario genere, risalenti all’uomo neolitico, nella parte finale, interessata peraltro da piccoli crolli, sono emersi resti fossili di più di 23 specie di animali di epoche e climi differenti, tra cui l’Ursus spelaeus, il lupo, la volpe, la iena e il leone.

I primi scavi scientifici vennero eseguiti alla fine del 1800 dal Marchesetti, dal Neumann e dal Weithofer. I reperti si trovano nei musei di Vienna e di Trieste.

Carlo de Marchesetti (1850 – 1926)

L’archeologo e paleontologo Carlo Marchesetti (Trieste, 1850 – 1926), per oltre quarant’anni, fu direttore del Civico Museo di Storia naturale di Trieste, e dal 1903 venne anche nominato direttore dell’Orto botanico che annesso successivamente al Museo di storia naturale, raggiunse un grande prestigio scientifico. Nel corso di una serie di campagne di scavo e di ricognizione nell’Isontino e in Istria, intraprese dal Marchesetti tra il 1883 e il 1892,  vennero rinvenuti significativi reperti, ora conservati perlopiù nei civici musei triestini. Le sue scoperte vennero pubblicate nel “Bollettino della società Adriatica di Scienze naturali”.


La Caverna di Gabrovizza

Carlo de Marchesetti

Dieci anni fa (nel 1880) non solo nulla si conosceva ancora intorno all’esistenza dei nostri trogloditi, ma nessuno ancora aveva rivolta lattenzione alle mille caverne delle nostre montagne calcari, nessuno aveva pensato di frugare sotto la crosta stalagmitica, che nel corso de’ secoli si era rappresa al fondo degli antri, nessuno si era data la briga di rovistare gli strati poderosi di terriccio che vi si erano accumulati. Qualche esplorazione, perché probabilmente troppo superficiale, non aveva fornito alcun risultato, e da ciò si voleva negare presso di noi resistenza di un popolo di trogloditi, quantunque la regione eminentemente cavernosa vi si prestasse meglio di qualunque altra. Una scoperta accidentale fatta in una caverna presso S. Daniele, richiamò si per un istante lattenzione su questo argomento, ma non diede alcuna spinta a proseguire le indagini per rintracciare i primi abitatori della nostra provinciaAvendo negli ultimi anni riprese le esplorazioni con maggiore alacrità, ebbi occasione di visitare un numero considerevole di caverne de’ dintorni di Trieste, dell’Istria e del Goriziano, praticandovi degli assaggi più o meno estesi, dai quali mi persuasi che la maggior parte di esse servivano nella remota antichità d’abitazione all’uomo, sicché il nostro paese può dirsi a ragione una nuova Trogloditica, attesa la frequenza e vastità delle sue grotte. Le prescelte erano naturalmente quelle di facile accesso, che all’intorno offrivano un ripiano asciutto quantunque anche in questo riguardo ci siano numerose eccezioni, trovandosene parecchie in posizioni quasi impraticabili, sia tra dirupi a pareti verticali, sia in comunicazione con qualcuna di quelle fovee che scendono a mo’ di pozzo nelle viscere della terra, a cui non si può giungere che a mezzo di lunghe scale o di corde. Riservando ad altra occasione, allorché ne avremo esplorato estesamente un numero maggiore, una relazione particolareggiata delle nostre caverne e de’ loro abitatori, mi limiterò qui a descrivere quella di Gabrovizza (la prima notizia su questa caverna e sui resti diluviali contenutivi, venne da me pubblicata nel 1885 negli Atti dell’Istituto geologico di Vienna), non lungi da Prosecco, che finora ci fornì maggior copia di oggetti sia dal lato paleontologico che preistorico e che merita perciò ne venga fatta speciale menzione. Già da parecchi anni, recandomi a Gabrovizza per raccogliervi il Crocus biflorus Mill. (unica località nella nostra provincia di questa specie, comunissima nelle altre parti d’Italia), aveva rimarcato questa caverna, che per la volta spaziosa della sua entrata e per la facilità del suo accesso, è una delle più interessanti de’ dintorni di Trieste, senza però farvi alcuna ricerca. Fu in un’escursione intrapresa nel Marzo 1884, che, smuovendo un po’ il terriccio, ritrovai verso l’estremità interna della grotta alcuni cocci quasi a fior di terra, i quali mi determinarono a farvi ritorno per praticarvi un qualche assaggio più esteso. Occupato in altri lavori, non mi fu possibile di rivisitare la caverna che appena al 30 d’ottobre, affine di ricercarvi altri indizi dell’uomo trogloditico. Quale non fu però la mia sorpresa, allorché scavati appena pochi centimetri, mi si presentò un bellissimo dente dell’orso delle caverne (Ursus Spelacus) e poco appresso un’intera mascella inferiore dello stesso animale! Questa scoperta mi eccitò naturalmente a continuare gli scavi con maggiore alacrità nella speranza di raccogliere un copioso materiale paleontologico, tanto più che il nostro museo, eccetto un paio di mascelle dalla caverna di Laas presso Zirknitz, non possedeva ossa di questa fiera, che da località lontane, dall’Ungheria, Gallizia, ecc.  La caverna di Gabrovizza che io d’ora in poi vorrei battezzare col nome di Grotta dell’Orso, non fosse che per distinguerla da parecchie altre più o meno vicine e nelle quali nonostante le ricerche praticate, non mi venne dato di trovare traccia di questo animale, s’apre nel calcare radiolitico, fortemente crivellato da spessi avvallamenti imbutiformi e da fovee verticali, e misura in lunghezza 100 metri. Essa appartiene al gruppo delle caverne di erosione ed è di facilissimo accesso, internandosi nel fianco d’ una delle solite depressioni del terreno con lento pendio. Una bella volta, alta circa 10 metri s’incurva sopra il vestibolo, che in direzione di scirocco si estende per una lunghezza di 41 metri con una media larghezza di circa 20. La grotta piega quindi bruscamente quasi ad angolo retto verso S.W., scendendo ancora per 15 m. Con ciò si è giunti alla massima profondità, che misurata replicatamente con l’aneroide importa in linea verticale dall’entrata della caverna 27 m. e dal margine superiore della depressione 36. Fin qui il suolo è seminato di numerosi sassi. trasportativi dal di fuori dai forti acquazzoni. Segue quindi la parte maggiore della caverna perfettamente piana, occupata da argilla rossa e per lo più fangosa, raccogliendosi anzi l’acqua in alcuni luoghi a piccole pozze perenni, nelle quali vive in copia l’interessante crostaceo delle caverne, il Niphargus stygius. Questo tratto misura 68 m. ed è come il precedente, privo affatto da incrostazioni stalagmitiche, quantunque dalla volta pendano bellissime stalattiti e molto copioso sia lo stillicidio. La larghezza e l’altezza si mantengono dappertutto uniformi, variando quella da 18 a 20 m., questa da 10 a 12. All’improvviso però la scena muta d’aspetto e numerosi massi ed enormi colonne rovesciate ingombrando il suolo, ci fanno fede di una vasta ruina. La grotta va rapidamente innalzandosi e diviene verso l’estremità superiore piuttosto malagevole, non trovando il piede alcun appoggio su quelle lisce superfici delle rocce incrostate. Questo tratto della grotta, che misura 47 m., è il più bello e il più interessante per le innumerevoli stalattiti, variamente foggiate, che pendono dall’alto della volta o scendono vagamente lungo le pareti a guisa di candide cortine, ehe talora si addensano sopra le nicchie laterali, talora ampiamente espanse formano de’ graziosi baldacchini dagli orli frangiati. Umido nella massima parte, esso offre tuttavia dei ripiani perfettamente asciutti, divisi tra di loro dai massi stalattitici caduti dall’alto. La caverna non possiede alcuna diramazione o galleria laterale e solo qua e là rinvengonsi delle piccole insenature mezzo velate dalle stalattiti, in una delle quali si raccoglie una tenue quantità d’ acqua. E probabile che anticamente essa avesse nell’ultimo tratto un’ altra apertura otturatasi più tardi in causa di franamento, al quale si deve ascrivere la quantità di rocce e di stalattiti rovesciate, che ingombrano l’estremità della grotta. Egli è appunto per tale cagione che piuttosto difficile riesce uno scavo regolare ed esteso in questa parte della caverna, dovendosi abbattere o minare le rocce ond’è disseminato il terreno. Io cominciai tuttavia le indagini in quest’ultimo recesso perché meglio della parte inferiore pianeggiante e molto umida, nella quale le acque trasportarono nel corso dei secoli un’enorme quantità di terriccio, mi prometteva una larga messe paleontologica (alcuni assaggi fattivi fino alla profondità di circa metri non mi diedero alcun risultato, non dubito però che scavando più profondamente non si abbia ad incontrarvi delle ossa. Bisognerebbe però attendere un tempo di prolungata mancanza di piogge perché in causa della forte umidità, lo scavo riesce alquanto malagevole). Assistito dal sig. Valle, aggiunto presso il nostro Museo, vennero continuati gli scavi in molte riprese durante gli anni successivi, ritraendosi una grande quantità di ossa appartenenti a numerose specie d’animali diluviali, come pure dei resti dell’uomo trogloditico. Il suolo constava superficialmente di un terriccio oscuro e mollo per modo, che spesso potevasi scavare colle mani. Esso aveva uno spessore di appena alcuni centimetri o mancava del tutto nelle parti più elevate o declivi, misurando fin oltre un metro nei ripiani orizzontali. Al di sotto giaceva un’ argilla rossa tenace, molto dura, qua e là coperta e talora intersecata da incrostazioni stalagmiticlie. Quest’ultime erano alle volte molto grosse e resistevano ai colpi del piccone o del maglio, sicché si era obligati ad accontentarsi con grave disagio di estrarvi obliquamente l’argilla sottostante. Le ossa giacevano tanto nel terriccio che nell’argilla, facendosi rare o cessando totalmente in profondità maggiori. L’animale di gran lunga più frequente nella caverna di Gabrovizza era l’orso speleo (Ursus spelaeus) avendovi raccolto ben 10 crani più o meno completi, 50 mascelle inferiori, 310 denti sparsi, oltre ad un’enorme quantità di altre ossa. Essi erano di tutte le dimensioni di tutte l’età, dagl’individui al cui paragone il nostro orso bruno appare un pigmeo, superando per mole l’orso polare, ai giovanissimi, cui stavano appena appena per spuntare i denti. E’ caratteristico per l’orso speleo la forte prominenza della fronte con bozze sviluppatissime, che manca quasi affatto nel solito orso bruno, ov’essa appare pianeggiante. Nell’esemplare meglio conservato da Gabrovizza (che riproduco qui per confronto da una fotografia) l’angolo formato tra l’osso frontale ed il nasale importa 133°, laddove nella nostra specie vivente esso è di 172175°. Nel teschio di Tribussa esso misura 151°, e quindi occupa in questo riguardo un posto intermedio. Esso si distingue inoltre dall’U. spelaens per il forame nasale ristretto superiormente, sicché questo appare piriforme, laddove in quello è ovale, come pure per la cresta sagittale che è circa di un terzo più breve. Il vertice del teschio formato da questa e dalla parte più alta della fronte, descrive nell’orso di Tribussa una curva marcatissima, mentre nell’orso speleo decorre piano. All’incontro le creste lambdoidee in corrispondenza alla fronte più larga, sono in quest’ultimo più arcuate che non in quello. Le ossa parietali sono convesse sotto la cresta sagittale e di conseguenza la cassa craniale riesce meno strozzata nella parte posteriore ed è invece ristretta nell’anteriore al di sotto delle creste lambdoidee, il che è inverso nell’O. speleo. Del pari gli archi zigomatici sono meno espansi, sicché l’intero teschio presentasi più ristretto ed allungato. Dall’ U. arctos differisce infine per la mancanza dei denti lacunari tra il canino ed il premolare.  Dal fin qui esposto risulta chiaro che le differenze dell’orso di Tribussa sono abbastanza notevoli, per non poterlo scambiare né coll’orso comune bruno, né coll’orso speleo. Confrontandolo cogli orsi trovati in caverne di altre regioni, esso offre la massima somiglianza con quello che viveva nelle grotte della Liguria e che dall’ Issel venne detto U. ligusticus. Le descrizioni date da quest’Autore concordano perfettamente cogli orsi di Tribussa, sicché non dubito punto che a questa specie debbano ascriversi. Cosi anche da noi sarebbe constatata la presenza di questa specie, che senza dubbio ulteriori ricerche ci faranno rintracciare anche in altre caverne della nostra provincia.

Ursus ligusticus – Caverna di Tribussa

Ursus spelaeus – Grotta di Gabrovizza

I due più grandi teschi ritrovati a Gabrovizza hanno un diametro antero-posteriore di 450 risp. di 455 mm. ed appartengono ad individui vecchi con stature totalmente obliterate, colla cresta sagittale molto pronunciata e colla corona dei molari assai consumata. Sfortunatamente i teschi sono per lo più deficienti d’una o dell’altra parte, sicché non si prestano che incompletamente ad una misurazione comparativa…  Quantunque, come dissi, la quantità delle ossa raccolte sia considerevole, non mi riesci di mettere insieme un intero scheletro, essendo che le loro dimensioni presentano troppe differenze. Di più va notato che le ossa lunghe maggiori sono in buona parte spezzate trasversalmente, mentre rimasero intere le minori. Così raccolsi 104 ossa del carpo e del tarso, 220 del metacarpo e metatarso, 162 falangi (tra cui 45 coll’unghie) e 118 vertebre. Rarissime all’incontro erano le ossa del bacino e tutte frammentate. Il femore più lungo misura 47 cent., la tibia 30, lomero 41, l’ulna 38, il radio 36. Fra tutte quest’ ossa non v’è che un solo metatarso deforme in seguito a carie ed a produzioni osteofitiche verso le due epifisi, come pure un unico radio porta tracce di rosicchiature. Oltre al solito orso speleo, la nostra caverna albergava un’altra specie molto più piccola della quale purtroppo non trovai che 4 crani incompleti. Le ossa molto grosse e compatte escludono la possibilità che si tratti unicamente d’individui giovani, come potrebbe credersi a primo aspetto. Quest’orso s’avvicina di molto all’orso bruno e per la fronte poco prominente ricorda l Ursus arctioides Blurn. Il carattere più saliente è la mancanza della cresta sagittale, che non trovasi accennata che verso lestremità occipitale. Egualmente poco pronunciati sono i tuberi frontali. Le ossa parietali sono fortemente arcuate, sicché il cranio appare molto largo e arrotondato.  Più interessante ancora tra le fiere ci si presenta il leone delle caverne o la Felis spelaea. Questa specie era però molto rara non avendovi rinvenuto che una mascella inferiore destra ed il terzo osso metacarpale destro. La mascella è quasi completa, non mancando che dell’estremità dell’apofisi coronoide e del canino. Gli accurati studi dei signori Filhol ci hanno fatto conoscere le particolarità osteologiche, per le quali la Felis spelaea s’avvicina più al leone che alla tigre. Ho scelto nella nostra collezione due mascelle di leone e di tigre, che per dimensioni maggiormente corrispondono a quella di Gabrovizza… Un grosso cane ci lasciò pure alcune mascelle (3 super, e 4 infer. oltre ad alcuni denti sparsi), Purtroppo tutte frammentate. Mercè i caratteri differenziali per i vari canidi fossili indicati dal Woldrich, potei stabilire che i nostri resti appartengono al Lupus spelaens Woldr. (Canis spelaeus Bourg.), meno un pezzo di mascella superiore chaccennerebbe piuttosto al L. vulgaris fossilis Woldr. (L. valgaris Bourg.). Ad ogni modo anche questa specie, che superava in mole il nostro lupo vivente, doveva essere un formidabile abitatore della caverna. Lo stato frammentario dei nostri resti non permette che una misurazione incompleta. Molto più comune era la volpe, della quale rinvenni 23 mascelle inferiori e frammenti di 4 superiori. Quantunque in parecchi riguardi la volpe fossile della nostra caverna corrisponda alla vivente, un esame più accurato ci fa riconoscere parecchie particolarità, che non si possono riferire unicamente ad un maggiore o minore sviluppo individuale.  Un altro carnivoro molto interessante è il Gulo spelaeus Gldf, animale corrispondente al G. borealis, che presentemente vive nelle regioni più settentrionali d’ Europa e dell’Asia, del quale si raccolsero una mascella inferiore sinistra quasi intera e fornita di tutti i denti, un’altra mascella inf, sinistra con 6 denti, appartenente ad un individuo un po’ più piccolo, un pezzo di mascella destra ed un canino sparso. Del Meles taxus fossilis si ebbero un teschio d’individuo vecchio, mancante unicamente degli archi zigomatici e 5 mascelle inferiori. È notevole che nei nostri fossili i denti presentino costantemente un minore sviluppo che nella specie vivente. Dei piccoli carnivori albergava la nostra caverna tre specie, la Mustela Martes, il Foctorius Putorus e il Putorus Erminea. Il genere Cervus era rappresentato da due specie. Del cavallo non si raccorse purtroppo che un’unica falange sinistra anteriore. A giudicare dalle dimensioni sarebbe stato di dimensioni mediocri. Appresso a questi avanzi si ritrovarono ossa di bue, di maiale, di pecora e di capra; lo stato però della loro conservazione, che differisce di molto da quello delle specie testé citate, mi fa arguire che essi appartengano ad un’ epoca molto più recente, sicché credo di non andar errato, riferendoli allo stato antropozoico, del quale tratterò in seguitoPer seguire la diffusione di questi animali diluviali pel nostro Carso, ci mancano pur troppo esplorazioni più estese nelle altre caverne, buon numero delle quali offrendo condizioni più o meno analoghe a quelle di Gabrovizza, non avranno mancato di ricettare probabilmente una fauna consimile. In quanto alle singole specie noterò che dell’orso speleo si raccolsero alcuni pochi denti in una spaccatura presso Aurisina in occasione de’ lavori per la conduttura d’acqua per Trieste (1855)Nessuna delle altre grotte del nostro Carso ci diede finora resti di questa specie, che ricompare appena nella finitima Carniola nella caverna di Laas, ov’ è copioso, in quella di Adelberga ed in altre ancora. Del tutto nuova all’ incontro per la nostra regione è la Felis spelaea, al pari del Canis spelaeusche finora non si rinvennero in alcun’altra delle nostre caverne. L’insieme degli animali ritrovati ci presenta i caratteri di una fauna mista di prato e di bosco, che richiedeva condizioni di suolo e di clima ben poco differenti dalle odierne, eccetto una maggiore estensione delle selve. Ciò viene ancor maggiormente avvalorato dalle reliquie del cervo, tanto diffuso pel nostro Carso, come pure dalla presenza non rara del cavallo nelle breccie ossifere della propinqua Aurisina, come pure nella vicina caverna di Salles. L’unico rappresentante nordico è il Gulo, scarso del resto, che forse ci accenna la sussistenza non molto lontana de’ ghiacciai scendenti dai versanti meridionali della Giulia. Oltre agli avanzi degli animali testè descritti, ritrovai in questa parte della caverna numerose traccie dell’uomo trogloditico, consistenti in parecchi depositi di cenere e carboni, qua e disseminati alla profondità di 20 a 50 centimetri, con cocci di stoviglie grossolane ed ossa spezzate e bruciate, sui quali darò più oltre relazione. Senonché avendo dovuto sospendere per alquanto gli scavi, trovai al mio ritorno tutto il terreno sconvolto e rovistato ogni angolo per modo, che non potendo più distinguere la parte sterrata da quella che rimaneva ancora da esplorare, dovetti smettere ogni investigazione ulteriore in questa parte della caverna. Riseppi che venuto a conoscenza degli scavi da me iniziati, il prof. Moser erasi affrettato a praticarvene degli altri, sparpagliando un materiale prezioso e rendendo per tal modo impossibile uno scavo sistematico, che ci avrebbe fornito dati interessanti sull’insieme della fauna di questa cavernaFortunatamente, quantunque mi fossi accertato con un piccolo assaggio che la parte anteriore della grotta era la più interessante dal lato paletnologico, io aveva tralasciato di farvi ulteriori ricerche, rimettendo anzi prudentemente il terreno nel suo stato primitivo, e quindi il sunnominato professore, che generalmente segue i passi altrui, approfittando senza alcuno scrupolo della via tracciatagli dagli altri, non ebbe alcun sospetto che sotto giacessero tanti documenti importanti per la nostra paleostoria, che per tal modo furono sottratti al pericolo di andar miseramente furati alla nostra provincia. 

Cominciati gli scavi nell’Aprile 1887, vennero proseguiti in più riprese negli anni seguenti per un’estensione di 108 m. q. con che peraltro non possono riguardarsi come ultimati, rimanendo da sterrare ancora parecchie centinaia di metri. Si trovò dapprima 0-50 a 190 centimetri, di terriccio trasportatovi dal di fuori, e quindi uno strato poderoso di cenere e carboni dello spessore di m. 1,54, nel quale si potevano riconoscere ben 15 straterelli distinti. Questo strato non era però limitato ad alcuni punti, ma occupava l’intera area scavata, estendendosi probabilmente per tutto l’atrio della caverna se anche forse non dappertutto della medesima potenza. Al disotto giaceva un tritume di sassi calcari angolari, misti ad un‘argilla giallognola (talvolta agglutinati tra di loro, senza traccia di resti organici. I vari straterelli non presentavano però un aspetto uniforme, essendo alcuni duri e compatti, altri molli e pulverulenti, alcuni granulosi, altri più o meno frammisti a pezzetti di carbone. I numerosi oggetti rinvenuti giacevano sparsi ne’ vari strati senza alcun ordine, come non altrimenti era da attendersi di cose smarrite o gettate via. In generale più ricchi d’oggetti ed anzitutto di cocci e di resti d’animali erano i luoghi più vicini alle pareti, e specialmente una piccola insenatura, ove la caverna forma gomito, che sembra aver servito da mondezzaio.

Gli oggetti più interessanti sono senza dubbio i manufatti litici di cui questa caverna, a differenza della maggior parte delle altre del Carso, finora esplorate, si mostrò molto ricca. D’istrumenti in pietra si raccolsero ne’ nostri scavi: Coltelli, seghe, lesine, raschiatoi . . 124; Cuspidi 7; Schegge 24; Nuclei 5; Asce 2; Pestello di quarzite 1; Cote e lisciatoi d’arenaria …. 42. I coltellini constano per la maggior parte di selce piromaca dalle varietà più pallide e quasi incolori alle più oscure o totalmente nere. Ve ne sono pure alcuni di un bel color roseo e di screziati, notandosi in generale che gli abitanti di questa caverna adoperavano numerose qualità di selce per trarne i loro strumenti. I coltelli di selce nera sono i meno finemente lavorati, forse per la facilità di procacciarsi il relativo materiale. 

Le dimensioni dei coltellini sono del pari molto varie, trovandosene di esilissimi appresso ai più lunghi e massicci. In quanto alle loro forme si potrebbero dividere in due gruppi, secondochè vanno forniti di due tagli o di uno solo. I primi alla loro volta si distinguono in quelli la cui superficie opposta alla faccia piana è costituita da due faccette longitudinali, che s’incontrano in uno spigolo mediano e che sono per conseguenza a sezione triangolare, ed in quelli in cui tra le due faccette s’interpone una terza quasi a sostituire lo spigolo centrale, presentando una sezione trapezoidale. Questa distinzione non è però sempre fattibile in quanto che talora riscontransi nel medesimo coltellino ambedue queste forme, sciogliendosi nel suo decorso lo spigolo mediano in una ed anche più faccette. Essi sono più o meno curvi, colla concavità dalla faccia piana, rare volte perfettamente diritti.

Ad un’ estremità appaiono smussati, laddove dall’altra sono arrotondati o terminano in punta. Generalmente sono taglientissimi per guisa che si potrebbero adoperare ancora oggigiorno. Talvolta il loro taglio è minutamente ritoccato, sicché possono servire da seghe. Alcuni esemplari appaiono logori e sbocconcellati dal lungo uso. 

Nelle annesse figure (T. II e III, fig. 9-21) ho rappresentato alcuni che mi sembravano più rimarchevoli

Ad un magnifico esemplare lungo 163 mm. e largo 21 in selce bionda (Tav. II, fig. 1), gli viene appresso un altro di selce più opaca, lungo 132 mm. Interessante è specialmente uno fortemente ricurvo ed affilatissimo, a manico ristretto. Differiscono nel materiale, onde sono formati, un coltellino di ossidiana (Tav. III fig.11) ed una bella sega di diaspro grigio (Tav. II fig.21)I coltellini ad un taglio sono per lo più di dimensioni minori e di forme spesso irregolari, servendo senza dubbio tale scopo anche le schegge più affilate. In questo riguardo è probabile che i cavernicoli approfittassero delle più piccole, che talvolta sono finemente ritoccate, immanicandole in upezzo di legno o di osso. Molte delle schegge più grandi più taglienti possono venir riguardate quali raschiatoi. Oltre a quelle di selce se ne raccolsero parecchie taglientissime di un bel diaspro verde o grigio. In confronto al grande numero dei coltellini, molto scarse appaiono le cuspidi, di cui non se ne raccolsero che sole 7 (Tav. III fig.3-8)Una di queste (fig.7), per le dimensioni notevoli, deve venir riguardata quale punta di lancia, e va notata per squisitezza di lavoro e per ottima conservazione. Acuminata da un lato ed alquanto arrotondata dall’altro appartenendo al tipo delle cuspidi a foglia d’alloro ha i margini taglienti, leggermente dentellati ed è formata di selce grigia venata. Le punte di freccia non presentano grandi varietà essendo tutte di forma ovoidale e, ad eccezione di una, prive di peduncolo. I nuclei ritrovati non sono molto numerosi né di grandi dimensioni. Alcuni portano tracce delle lamelle, che vi vennero staccate. Due sole sono le accette raccolte, di cui una intera, l’altra spezzata (fig. 1, 2). La prima, di lavoro finissimo, ha una lunghezza di 54 mm. ed è assai bene conservata. E formata di una diorite granatifera molto oscura della durezza di 5-5, ed ha un peso specifico di 3-0399. La seconda, molto più grande, appartiene alle sgorbie, essendo quasi piana da un lato e fortemente convessa dall’altro. È di color bigio oscuro, di struttura porfiroide e produce effervescenza cogli acidi. Soffiandovi sopra dà odore di argilla. La sua durezza è di 6-5 ed il peso specifico di 2-615. Al microscopio presenta un impasto nel quale si discernono i cristalli di due sostanze diverse, senza poterne però determinare la forma. E probabile quindi che consti di un melafiro alquanto alterato. Ambedue hanno il taglio molto affilato e sono accuratamente lisciate. Altri altri oggetti in pietra raccolti nella caverna sono per la maggior parte in arenaria e consistono in abbondanti lisciatoi o cote, tra le quali ultime degna di attenzione una, che per il lungo uso è incavata nel mezzo da ambe le facce. Oltre agli istrumenti di pietra, la nostra caverna ci diede numerosi oggetti d’osso, parecchi dei quali ci dimostrano una lavorazione finissima.

La maggior parte di questi sono punteruoli di dimensioni molto varie, quali totalmente levigati, quali soltanto verso la punta. I più grandi possono aver servito anche come lance o pugnali e sono tratti dalle ossa lunghe di varie specie d’ animali, come può ancora riconoscersi dalle epifisi che talvolta vi sono conservate. Solo un paio sono di corno cervino. In alcuni punteruoli un’estremità è larga ed appiattita. A questo ufficio servivano pure denti incisivi, specialmente del maiale, ai quali si era appuntita la radice. Interessante è una specie di coltello lungo 20 centimetri, tratto da un osso di bue, col margine tagliente e la punta affilata (Tav. III fig.23). A questo scopo si prestavano inoltre i denti di cinghiale scheggiati e lisciati (Tav. V fig.4)Parecchie ossa sono tagliate in forma di scalpelli, di spatole, di lisciatoi (Tav. III fig.22,24; Tav. V fig. 1-3). Uno di questi porta al margine alcune intaccatureQuale lisciatoio serviva pure la radice d’un corno cervino accuratamente levigata (Tav. IV fig. 22)Ma lo strumento più singolare è una trivella, fatta con un pezzo di bacino di capra. Essa è lunga 133 mm. e si presta egregiamente allo scopo cui era destinata. Il relativo disegno, che fedelmente ne riproduce la forma (Tav. V fig. 5), mi esime dal darne una descrizione, che per quanto particolareggiata non giungerebbe a rappresentarcela. Noterò solamente che la punta presenta una lieve curva di spirale e si adatta con tutta precisione ai buchi, che si scorgono in parecchie stoviglie, sicché evidentemente essi venivano praticati con uno di questi strumentiE qui prima di parlare degli artefatti di argilla, ricorderò un oggetto, purtroppo frammentato, che a giudicare dalla curva, dovrebbe aver formato un braccialetto (Tav. III fig. 25)Esso è tratto da una grande conchiglia, misurando in grossezza 10 mm., ed in altezza 13: è di un bel colore bianco latteo perfettamente levigato colla superficie esterna arrotondata. Ad accertare ancora maggiormente la sua natura conchigliacea, notai esternamente una macchia diffusa di color rosso carmino, derivante dall’inquinamento con una spugna parassita (Vioa), della quale potei riscontrare le spicole silicee. Riesce oltremodo difficile il determinare da quale conchiglia esso venne tratto; ad ogni modo, per la sua grossezza, non possiamo pensare che a qualcuna delle specie maggiori. Il prof. Ad. Stossich, distinto malacologo, al cui esame sottoposi il pezzo in questione, sarebbe propenso a derivarlo da un grande Tritone (T. variegatum), mollusco che trovasi raro nelle maggiori profondità dell’Adria meridionale. Forse esso proviene da qualche specie esotica, il che non sarebbe punto strano, avendosi rinvenuto anche altrove in depositi antichissimi, specie di mari lontaniIl suo aspetto di freschezza, esclude totalmente la supposizione che vi si avesse adoperato una conchiglia fossile. In un’ epoca in cui mancava del tutto la conoscenza dei metalli e luomo era costretto a plasmare in argilla gli utensili d’uso domestico, non è da stupirsi dell’enorme quantità di stoviglie rispettivamente dei cocci che ne risultarono, onde riboccano le nostre caverne ed i nostri castellieri. E sono appunto i cocci spesse volte gli unici avanzi che ci rivelano l’esistenza dell’uomo preistorico su qualche vetta denudata dei nostri monti od in qualche antro umido e di difficile accesso.  la caverna di Gabrovizza vi fa eccezione: che abitata per lunghissimo tempo, vi si accumulò un’ingente quantità di cocci, che se anche non ci permettono che una parziale ricostruzione delle vecchie pentole, ci offrono tuttavia un materiale molto importante per giudicare dello sviluppo e della perfezione, cui giunse la ceramica durante il periodo neolitico. E per vero, se gettiamo uno sguardo su quel cumolo di cocci, che si estrassero da questa grotta e consideriamo la varietà degl’impasti dai più rozzi ai più fini, la molteplicità delle forme, la leggiadria delle decorazioni, quali a rilievo, quali ad impressione, quali ottenute mercè vaghissimi disegni a lucido, dobbiamo convenire che quest’arte aveva attinto presso i nostri cavernicoli un grado elevatissimo di progresso, quale forse in alcuni riguardi non venne raggiunto neppure durante l’epoca del bronzo e del ferro. Ed è anzi degno di nota che le stoviglie più fine e più accuratamente lisciate trovansi di preferenza negli strati inferiori, laddove nei superiori predominano le grossolane, osservazione ch’ebbi a fare anche in altre caverne, specialmente in una nelle vicinanze di Fernetich, che ci forni appunto i fittili più eleganti nello strato più profondo di cenere. Tutte le stoviglie sono fabbricate a mano e cotte a fuoco aperto, come può riconoscersi specialmente nei cocci più grossi, nei quali la pasta appare rossa esternamente ed internamente, mentre la parte centrale si conservò nera. Quantunque la maggior parte delle pentole sia ridotta ad informi cocci, non riesce difficile il riconoscere per un buon numero, almeno approssimativamente, la forma e le dimensioni. Dei 280 vasi che per tal modo poterono venir determinati, sono 103 di dimensioni grandi, 71 di medie e 57 di piccole. In quanto alla forma, la maggior parte somiglia alle nostre solite pentole leggermente panciute, delle quali ne contai 177. Cento e cinquanta di queste sono ad orli diritti e sole 26 labbra rivolte. Fra di esse 49 vanno fornite di ansa. Sonvi inoltre 34 scodelle, 9 tazze e 7 vasetti cilindrici in forma di piccoli bicchieri. Sei pentole possiedono un piede; in nessuna si riscontrò una base arrotondata. Le pentole più grandi sono generalmente di argilla più grossolana, mista a granuli di calcite. Al qual uopo servivano per lo più le formazioni stalattitiche triturate, sicché i cristalli conservano ancora oggi la loro trasparenza e la forma romboidale. Tra di esse ve ne sono di dimensioni considerevoli, che probabilmente avranno servito da caldaie. I cocci di un vaso misurano in grossezza non meno di 24 mm. L’impasto delle pentole di minori dimensioni è solitamente più fino, sebbene quasi sempre di colorito nero. Le pareti di questi vasi misurano talora solo alcuni millimetri, sicché fanno presupporre un’abilità non comune nel loro fabbricatore. Ciò che riesce specialmente notevole é la lucentezza di molti cocci, imitanti quasi una vernice. Ad ottenere questo intento, le stoviglie subivano un’ingubbiatura con argilla finissima, che poscia veniva lisciata probabilmente a mezzo di una stecca d’osso. Questa lisciatura si estendeva a tutta la pentola o solamente ad una parte della stessa, dal che ne risultavano talora vaghissimi disegni. Di quest’ultimo modo di decorazione, ci danno un bellissimo esempio i cocci alle fìg. e 2 della Tav. VI, nei quali si alternano le parti lucide a voluta e quelle che non vennero lisciate (in nessun’altra delle nostre caverne mi avvenne di trovare questa specie di decorazione, che del resto non è punto comune. Cocci con volute simili alle nostre furono trovate dal Wosinsky a Lengyel in Ungheria). La decorazione più comune ed in pari tempo più semplice, consiste in un intreccio di linee senza alcun ordine, quasiché il figulo fosse passato con un mazzo di vimini sulla pasta ancor molle (Tav. VI fig. 19). Altre volte le linee sono incise a mezzo di una punta e decorrono parallele o s’incontrano ad angolo producendo disegni svariati (fig. 3-5). Non rare del pari sono le impressioni prodottevi sia col polpastrello (questa specie di ornamento era uno de’ più usati durante lepoca della pietra e del bronzo, divenendo molto raro e scomparendo del tutto nell’età posteriori. Cosi mentre appare comunissimo nelle caverne del nostro Carso ed in parecchi castellieri, fa totalmente difetto alle nostre necropoli dell’età del ferro. Esso trovasi del pari frequente nelle terremare, e nelle palafitte d’Italia e d’oltremonte, come pure tra i resti di antichissime abitazioni)sia a mezzo di speciale istrumento, onde ne nacquero punti, linee, triangoletti, variamente disposti in una o più serie, all’orlo o sulla convessità del vaso (fìg. 6-15). Infine si ebbero dagli strati superiori alcuni pochi cocci, più fini e fregiati di linee ondulate (fig. 17, 18). Raro all’incontro è lornato a rilievo di cui non si trovò che un unico coccio nella parte interiore della caverna, notevole pel forellino praticato tra le pareti ed il cordone rilevato onde passarvi una cordicella (fig. 16). Degna di particolare menzione mi sembra una scodella rossa, accuratamente lisciata ed ornata da una serie di cerchi concentrici in ognuno dei quali sporgono quattro bugnette ombelicate (fig. 22). Le anse in generale non presentano grande varietà e sono per lo più molto piccole, sicché sembrano aver servito principalmente per appendere le pentole o d’esser state di semplice ornamento. Esse sono tanto verticali che orizzontali e trovansi più o meno distanti dall’orlo (Tav. V. fig. 10, Tav VI. fig. 19)Per la sua piccolezza va notata quella rappresentata alla Tav. VI, fig. 27, che permette il passaggio appena ad un ago sottile. Le anse sono talora ridotte ad una semplice protuberanza imperforata (fig. 24, 25). Scarse sono le pentole a manichi più grandi, i quali tutti appartengono al gruppo delle anse auricolate (Tav. V. fig. 6 – 8, Tav VI. fig. 26). Non pochi vasi presentano dei buchi più o meno vicini al margine (Tav V. fig.25), ottenuti mercè di una trivella conica, sicché il foro appare molto più largo di fuori che internamente. Questi fori servivano senza dubbio a passarvi una cordicella per appendere il vaso (anche questa particolarità che compare in parecchie delle nostre caverne, trovasi diffusa in molte stazioni di quest’epoca, cosi nelle grotte del Colombo di Mori e delle Arene Candide).  Per altro, oltreché all’orlo, trovansi dei fori anche al fondo delle pentole (fig. 14), in numero maggiore o minore, il che ci fa conoscere che il vaso serviva da colatoio, presso a poco come ancor oggigiorno usasi in alcune regioni alpine (questi vasi che mettonsi in relazione col caseificio dei nostri proavi, possiedono buchi più o meno numerosi e fitti, sicché talora appaiono quali graticole. Se ne ebbe dalle palafitte di Lubiana). Un coccio porta quattro di questi buchi molto vicini, di cui però tre non perforanti (fig. 16). Esso venne raccolto in prossimità della trivella superiormente citata. Di speciale interesse mi sembra un vaso, che raccolsi in uno de’ focolai dell’estremità interna della grotta, pel quale non trovo riscontro in alcuna delle collezioni da me visitate,  in alcuno dei libri, che stanno a mia disposizione. Allorché trovai il primo pezzo, consistente in un cilindro cavo di colorito nero, imitante perfettamente il ricettacolo d’una pipa da tabacco, rimasi non poco perplesso, non potendomi spiegare come quello strano oggetto vi fosse pervenuto. Se non che in breve, avendo rinvenuto gli altri cocci, mi accorsi che la presunta pipa non era altro che il bocchino di un vaso, il quale per sopramercato ne possedeva anzi un secondo dalla parte opposta, come può vedersi alla (Tav. V, fig. 12). A differenza della caverna di S. Canziano, ove appaiono abbastanza frequenti, non si ebbe da questa che un’ unica fusajuola di argilla cinerea, fregiata di linee disposte a triangolo (fig. 18). Ricorderò infine tra gli oggetti d’argilla un cucchiaiobreve manico (fig. 17) analogo a quelli che vennero trovati in altre località di quest’epocaA completamento delle stoviglie rinvenute, noterò che nella terra giacente sopra i focolai, ma sempre ad una profondità da 50 cent, ad un metro, raccolsi altri cocci più fini, lavorati al tornio, parte di pasta nera con linee orizzontali parallele e parte d’argilla rossa, appartenenti grandi anfore romane. Enorme è la quantità di ossa provenienti dai pasti dei nostri cavernicoli, che ingombrano lo strato archeologico della caverna in tutto il suo spessore. Il loro stato di conservazione è molto vario secondo la differente giacitura e la maggiore minore umidità del terreno. Interessante è laspetto delle ossa che trovansi in uno strato intermedio di cenere granulosa asciutta, in quanto che esse sono di color verde, quasi fossero state a contatto con qualche oggetto di rame o di bronzo. Secondo il prof. Vierthaler questa colorazione è dovuta ad un’imbibizione di fosfato ferroso. Le ossa lunghe provenienti dagli arti degli animali sono quasi sempre spezzate longitudinalmente per trarne il midollo. Spaccati sono pure solitamente i teschi, sicché è piuttosto raro trovarne pezzi maggiori. Alle mascelle inferiori è stato aperto assai spesso il canale alveolare, specialmente negli animali più grandi. Non è raro il caso che esse ci presentino luna o laltra estremità carbonizzata siano anzi interamente calcinate. Gli animali di cui più frequentemente si pascevano gli abitanti di questa caverna erano la capra e la pecora, della prima delle quali trovai 101 mascelle inferiori e 23 superiori, laddove della seconda rinvenni 45 inferiori e 3 superiori. Inoltre, si raccolse qualche centinaio di denti sparsi ed una quantità stragrande di altre ossa appartenenti a queste due specie. Tra le mascelle ve ne sono tanto di quelle che accennano ad individui perfettamente sviluppati, quanto ad animali giovanissimi, cui appena stanno per spuntare i denti del latte. La determinazione precisa di queste due specie, facilitata grandemente grazie i lavori del Rütimajer risulta per le nostre  regioni di particolare interesse, in quanto ci dimostra la prevalenza della capra in confronto alla pecora presso nostri proavi, e viene quindi a spiegare alcuni fatti per i quali finora si ricercavano invano le cause. questa prevalenza trovasi solamente nella caverna di Gabrovizza: chè sottoposti ad accurato esame i resti d’animali, che trassi dalle esplorazioni di numerose altre grotte e di non pochi castellieri, mi risultò costantemente una preponderanza assoluta della capra. Ad ognuno sono note le funeste conseguenze che apporta la capra alla vegetazione arborea di un paese, bastando pochi anni per far scomparire completamente i boschi e tramutare un terreno già fertile ed ubertoso in una landa sterile e desolata. Valga per tutti lesempio dell’isola S. Elena, che al principio del XVI° secolo, allorché venne scoperta, era totalmente rivestita da vergini foreste. Introdottevi le capre, quelle fitte boscaglie, sulle quali lascia dell’uomo a grave stento sarebbe riuscita vincitrice, scomparvero quasi per incanto a tale, che allorquando Burchel (180510) e Roxburg (181314) la visitarono, la vegetazione arborea erasi rifuggita sugli scogli più inaccessibili. Il bisogno di legname fece finalmente proscrivere le capre, ed in pochi anni l’isola si copri nuovamente di un manto di selve. Ma noi non abbiamo da recarci lontano per vedere le devastazioni prodotte da questo animale. In quasi tutto il Goriziano esso venne saggiamente allontanato, solo a Plezzo si incontrano numerose greggie di questa specieebbene, ammirate la splendida vegetazione che ricopre i monti del distretto di Tolmino, ove è ignota la capra, ed osservate le brulle giogaie, che circondano le vallate di Plezzo, ed unimprecazione vi salirà spontanea sulle labbra contro il fatale ruminante. Della pecora raccolsi nella parte interiore della caverna due teschi quasi completi, dai quali si rileva che appartenevano ad una razza dal muso piuttosto corto, dalla fronte ampia, appianata e dalle orbite espanse. Tutti e due i teschi vanno privi di corna. E’ strano del resto che fra tanta quantità di avanzi, non ebbi che tre sole corna di capra, laddove assai frequenti si rinvennero tanto di questa specie che della pecora nella caverna di S. Canziano ed in altre. Anche del bue potei, almeno parzialmente, ricomporre un teschio, appartenente ad un individuo molto grande. In proporzione alla sua lunghezza esso appare assai più stretto di quello del Bos laurus dal quale differisce principalmente per la fronte più convessa a spigolo temporale arrotondato, sicché la fossa temporale riesce più aperta e meno profonda. Raccolsi di questa specie 22 mascelle inferiori e 5 superiori, tutte però più o meno frammentate.  Relativamente alla frequenza delle tre specie testé accennate, piuttosto scarsi erano i resti del majale, del quale non si raccolsero che pezzi di otto mascelle inferiori e di 3 superiori, appartenenti ad individui non molto grandi. Essendo troppo frammentati, non ardisco determinare se appartenessero al Sus palustris od al porco comune. Riesce strana la deficenza di altri animali domestici specialmente del cane e del cavallo, che non mancano in molte altre delle nostre caverne. Tra gli animali selvatici più frequente apparve il cervo comune (Cervus Elaphus), del quale nonché molte ossa e 7 mascelle, si raccolsero parecchi palchi. Più raro all’incontro pare esser stato il daino (C. dama), del quale non ebbi che alcune estremità delle corna ridotte a spatole.  Oltre a queste due specie trovansi rappresentati il capriolo ed il cighiale, il primo da molte corna e da qualche mascella ed il secondo da alcune zanne veramente colossali, che fanno presupporre animali di dimensioni considerevoli. Si rinvennero pure resti di lepre e di volpe, di quest’ultima una testa perfettamente intatta, che prestandosi egregiamente ad una misurazione esatta, credetti opportuno porre a riscontro delle fossili nella prima parte del presente lavoro. Appresso alle ossa di vertebrati, rinvengonsi in gran copia molluschi marini, disseminati in tutti gli strati di cenere. Numerosissime sono specialmente le così dette naridole (Monodonta turbinata Born, meno frequente la Monodonta articulata Lam) delle quali contai più di mille esemplari. Quasi altrettanto copiose sono le pantalone (900 esemplari) appartenenti alle specie Patella scutellaris Blain. P. aspera Lam. e P. suhplana Pot. e Mich., più raramente alla P. tarentina SalDel pari frequenti (750 esemplari) sono le ostriche (Ostrea plicatida L.meno comune lO. Cyrnusi Payr., le valve delle quali trovaronsi di preferenza in uno strato intermedio ed in prossimità della parete della caverna, divenendo molto più rare verso il centro. Molte valve però portano tracce di lavorazione, avendo i margini arrotondati e la superficie esterna lisciata, sicché con molta probabilità avranno servito da cucchiai, o fors’anche quali istrumenti da taglio o per lo meno raschianti, come avviene ancor al presente presso molti popoli selvaggi. A quest’ultimo scopo veniva adoperata evidentemente la valva di un mitilo, che ha il margine affilato. Devo inoltre notare che queste specie non trovansi sparse equabilmente nella grotta, predominando in un luogo l’una, altrove laltra con esclusione quasi assoluta delle specie diverse. Gli altri molluschi non apparvero che in piccolo numero, cosi si ebbero 24 cozze (Mytilus galloprorincialis Lam.), 8 canestrelli (Peeten glaber L.), 12 campanari (Cerithium vulgatum Brug) e 3 piè d’asino (Pectunculus insubricus Broc). A proposito delle Monodonte non credo fuor di luogo di notare ch’esse sono intere e rarissime volte mancanti della punta, come avviene solitamente nei rifiuti de’ pasti. Ciò fa supporre che i nostri cavernicoli probabilmente non usassero cibarsi di questo gastropodo crudo, ma lo estraessero dalla conchiglia dopo averlo cucinato. Anche le valve delle altre conchiglie portano spesso tracce del fuoco. Per quanta attenzione vi facessi, non potei trovare alcun resto di pesci o di crostacei, come pure d’echinodermi, di cefalopodi, ecc. Del pari vi faceva difetto qualsiasi avanzo vegetale. Accennerò infine brevemente una sostanza di aspetto singolare che ritrovai qua e là tra la cenere e la cui origine non mi è del tutto chiara. In quanto alla forma, essa varia grandemente, apparendo lamellare, a grumi, dendroide ecc., è di colore bruno e presenta per lo più una frattura concoide. Cogli acidi si scioglie con effervescenza, lasciando un residuo bruno-rossastro di argilla. Essa trovasi di preferenza in vicinanza dei cocci e delle ossa, ai quali non di rado aderisce frammista pezzetti di carbone. Evidentemente non si tratta che di cenere conglobata, resta però dubbio se semplicemente dell’acqua proveniente dallo stillicidio, oppure, come mi sembra più probabile, per azione dei liquidi con sostanze organiche che bollivano nelle pentole e che per cause accidentali si riversavano. Data brevemente relazione degli oggetti principali fornitici dalla caverna di Gabrovizza, credo opportuno aggiungervi alcune brevi considerazioni generali sulla medesima. Che essa abbia servito per lunghi secoli da dimora agli animali ed all’ uomo, chiaro emerge dallo spessore degli strati di cenere dalla quantità delle ossa e degli oggetti rinvenutivi. Un’ altra questione di grande importanza è quella se l’uomo vi dimorasse contemporaneamente all’orso ed alle altre specie diluviali o se vi si stabilisse appena più tardi. Io credo che in questo riguardo si pecchi generalmente di troppa leggerezza, e dal ritrovare in una caverna resti dell’uomo e della sua industria frammisti ad ossa di animali diluviali, si arguisca la loro coesistenza, senza porre attenzione alle molteplici cause che possono aver rimescolato i depositi primitivi. Ed anche in ciò la caverna di Gabrovizza ci offre un esempio molto istruttivo. Negli scavi praticati nella parte interiore della grotta, ritrovai spesso nei focolai ossa d’orso bruciate, come pure negl’impasti stalagmitici resti di questo animale unitamente a frustuli di carbone. Da ciò potrebbe un osservatore superficiale e non molto coscienzioso trarre la deduzione che l’uomo e l’orso speleo vi fossero coevi. In queste esplorazioni le cautele non sono mai troppe, e quindi facilmente si può prendere un granchio, ove si credeva di aver fatto una grande scopertaGià a priori sarebbe molto difficile pensare la coesistenza nella medesima caverna dell’uomo colle grandi e terribili  fiere che vi lasciarono in tanta copia le loro spoglie. In qual modo avrebbe egli potuto difendersi dai loro attacchi, armato com’era di pochi e primitivi strumenti di pietra? Ma la prova decisiva che luomo non solo non abitava la caverna di Gabrovizza in unione alle fiere nominate, ma non vi era neppure coetaneo, ci viene dallo studio del deposito antropozoico del tratto anteriore della caverna testé descritto. Tra le tante migliaia d’ossa quivi raccolte, non la più piccola traccia dell’orso o delle altre fiere, che tanto abbondano nell’estremità opposta della grotta. E mentre in quella le ossa lunghe trovansi per lo più spezzate longitudinalmente, in questa esse sono intere o tutt’al più rotte casualmente in direzione trasversale. E le stesse ossa ci offrono pure un criterio molto importante nello stato della loro conservazione, dappoichè quelle dello strato antropozoico presentano ancora in parte i caratteri delle ossa fresche nel loro colorito e nella loro consistenza, in opposizione alle altre nelle quali è scomparsa quasi totalmente la sostanza organica, sicché appaiono bianche e calcinate. L’egregio mio amico, prof. Vierthaler, determinò per quelle un contenuto di sostanze organiche di 29-33% laddove in queste esso trovasi ridotto a solo 22-23%. Non riesce punto difficile spiegare la presenza di ossa d’orso bruciate nei focolai della parte interiore della grotta. In causa della pendenza del terreno non si potè accumulare molto terriccio sulle spoglie degli animali diluviali, sicché essi vennero facilmente a contatto col fuoco, che luomo sopra vi accese. Io stesso raccolsi parecchie ossa e denti alla profondità di appena dieci centimetri. Che i focolai disseminati in questa parte della caverna appartengano all’istessa epoca del grande deposito esistente presso l’entrata, non é punto da mettere in dubbio essendovi identici i cocci e presentando le altre ossa contenutevi lo stesso strato di conservazione. Il grosso strato di cenere dell’atrio, ci dimostra che le famiglie trogloditiche l’avevano prescelto a loro stabile dimora, come la parte più confacente della caverna perchè p asciutta ed illuminata dalla luce che vi penetra dall’ampia apertura. Ad impedire che le acque esterne v’irrompessero, trasportandovi fango e pietre, essi avevano costruito presso l’entrata un muro di grossi blocchi, del quale si scorgono ancora gli avanzi, muro che serviva in pari tempo di difesa. Solo durante i grandi freddi essi si ritiravano nella parte più interna della grotta, ove la temperatura mantiensi quasi costantemente di 10-12° C., ed a questo loro temporaneo soggiorno devonsi probabilmente i focolari ivi esistenti. E qui mi si permetta una breve digressione. Fu domandato da taluno come luomo abbia potuto trarre lesistenza in caverne umide, tenebrose, ove lo stillicidio è fortissimo ed il terreno del tutto fangoso. Che il clima sia stato una volta più secco non è punto probabile, anzi, a giudicare dalla quantità di resti cervini, fornitici dalle nostre caverne, ampie foreste dovevano coprire la superficie del nostro Carso, mantenendo al suolo una costante umidità. Le volte delle caverne non per anco rivestite da grosse incrostazioni stalattitiche, dovevano lasciar trapelare ancor più facilmente l’acqua, e quindi non può ammettersi che esse siano state più asciutte del presente. Io credo che luomo potesse sussistere nelle caverne umide, mantenendo costantemente acceso il fuoco, mercè del quale non solo riscaldava lambiente, ma produceva una forte corrente d’aria, che, evaporando lacqua, impediva il frequente stillicidio. Ciò mi spiega pure gl’ingenti depositi di cenere delle nostre caverne, che talora giungono a due e più metri di spessore, occupandone non di rado tutta la loro estensione. E se teniamo conto della quantità di cenere che venne disciolta ed asportata dalle acque – e difatti nella nostra cenere non si riscontra più che appena qualche traccia di sali solubili, — riesce evidente che ben più poderosi dovevano essere gli strati alcune migliaia di anni faIn una giornata molto rigida del decorso febbraio, trovai la temperatura all’ entrata della caverna di – 4° C, nel vestibolo 0, e nella parte più interna + 8°.

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Diamo ora un’ occhiata al nostro uomo cavernicolo, quale ci viene indicato dagli avanzi rinvenuti. Delle sue particolarità anatomiche e della razza cui apparteneva, non possiamo naturalmente occuparci, non avendo avuto la fortuna di ritrovare in questa grotta alcun resto umano. Non dispero tuttavia di rintracciare sia in questa, che in qualcuna delle caverne adiacenti le tombe de’ nostri trogloditi, come mi è già riuscito in altri luoghi del nostro Carso, sui quali mi riservo di dare una relazione particolareggiata. Ma se ci manca luomo, i suoi manufatti ci parlano eloquentemente dello stato della sua industria, gli avanzi de’ suoi pasti ci rivelano i suoi usi, le sue occupazioni. Egli si dedicava principalmente alla pastorizia, possedendo numerose gregge di capre e di pecore. Il bue ed il majale venivano del pari allevati, se anche in minor numero. Pare all’incontro ch’ egli non fosse ancor giunto ad addomesticare il cane ed a domare il cavallo, che più tardi compaiono non rari negli strati più profondi de’ castellieri, appartenenti egualmente all’ epoca neolitica. Ignota gli era lagricoltura, all’incontro non disdegnava la caccia, che gli offriva larga preda di selvaggina nelle ampie foreste, che si stendevano all’ingiro della sua caverna. Ma egli imprendeva spesso lunghe peregrinazioni e scendeva alla riva del mare per domandargli i suoi tributi. Non era pescatore, non possedeva ne ami,reti, e quindi s’accontentava dei molluschi che vivono attaccati agli scogli della sponda, come le patelle, le monodonte, i ceriti, i mitili, oppure si tuffava in acqua per raccogliere quelli che vivono a poca profondità, come le ostriche, i pettini, i pectuncoli, ecc. Considerando l’enorme quantità di ostriche che egli portò alla sua grotta, dobbiamo arguire che a quel tempo fossero copiosissime lungo le nostre rive, d’onde sono pur troppo quasi scomparse, e che una coltura razionale di questo mollusco potrebbe attecchire benissimo con immenso vantaggio della nostra popolazione litorana. Se anche non aveva alcuna conoscenza dei metalli, egli sapeva adoperare magistralmente la pietra e losso a costruire le sue armi, a foggiare i suoi utensili domestici. Lance e pugnali, dardi e coltelli, asce, spatole, scalpelli, lesine, aghi, ecc, uscivano dall’industre sua mano, che meglio non saprebbe un artefice de’ giorni nostri, se posto nelle condizioni de’ trogloditi, gli s’imponesse di fabbricare tali strumenti. Maestro egli ci si rivela specialmente nell’arte del figulo, che appare già grandemente progredita e s’ispira ai concetti del bello, decorando vagamente i suoi prodotti. Per i vari usi cui devono servire, le stoviglie prendono forme diverse, supplendo in tutto alla deficienza di vasi metallici. Noi ritroviamo inoltre presso di lui già i prodotti di altre terre: se anche la selce nera gli veniva fornita dagli arnioni, che trovansi disseminati nel calcare cretaceo bituminoso, che affiora a poca distanza dalla sua caverna e la bionda dagli strati di piromaca, che rinvengonsi presso Aurisina, numerose altre varietà sono del tutto estranee alla nostra provincia dovevano venir importate da più o meno lontane regioni. Così pure lossidiana, manca totalmente da noi, essendone ai colli euganei la località più prossima. Egualmente la diorite ed il melafiro, onde sono formate le asce, come pure i diaspri del coltellino e delle schegge sono rocce a noi straniere. Noi abbiamo quindi nella caverna di Gabrovizza luomo che rappresenta splendidamente lepoca neolitica nelle nostre contrade, prima della quale ci mancano finora tracce sicure della sua esistenza. Quanti secoli ci separino da lui, non è facile a stabilirsi, mancandoci gli elementi per istituire un calcolo anche approssimativo. Tenendo conto delle profondità alle quali vennero trovati i frammenti di un’ anfora romana, si avrebbe un accrescimento di 90 centimetri, in circa 1800 anni, e quindi lo strato più superficiale di cenere, ammesso che tale accrescimento abbia avuto luogo uniformemente, sarebbe stato deposto 2000 anni prima di Cristo. Parecchi secoli certamente s’interpongono tra questo strato superficiale ed il più profondo, sicché non parrà esagerato se ammettiamo che luomo scelse a sua dimora questa grotta più di 4000 anni fa. Speriamo che gli ulteriori scavi che procureremo di fare in questa caverna, ci diano nuovo ed ancor più copioso materiale per completare la conoscenza di una delle stazioni più interessanti dell’uomo neolitico nelle nostre contrade. (Carlo de Marchesetti)

(Articolo a cura di g.c.)

Bibliografia:

Atti del Civico Museo di Trieste, Vol. VII (Vol. II della serie nuova). Trieste – Tipografia del Lloyd Austro-Ungarico, 1890;

 Atti del Civico Museo di Trieste, Vol. IX (Vol. III della serie nuova). Trieste – Tipografia del Lloyd Austro-Ungarico, 1895;

Bollettino della Società Adriatica di Scienze Naturali, redatto da Antonio Valle. Trieste, 1905

Il faro della Lanterna di Trieste

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La Lanterna di Trieste si trova al Molo Fratelli Bandiera (già Molo Teresiano), vicino alla nuova Piscina Comunale e prima dell’ingresso al Porto Vecchio.

La costruzione del faro, le cui fondazioni poggiano su quello che una volta era lo Scoglio dello Zucco (fino a fine ‘700 staccato dalla terraferma), fu voluta dal governatore della città Carlo Zinzendorf, su progetto di Matteo Pertsch e doveva svolgere anche una funzione di vigilanza e difesa del Porto.

Alla base della Lanterna sorge una sorta di fortino, che per tipologia appartiene al tipo fortificatorio della torre casamattata per artiglieria a tracciato circolare, o torre massimiliana. Queste fortificazioni traggono il loro nome dalle torri costruite a Linz tra il 1831 ed il 1833 dall’arciduca Massimiliano, già in uso nelle costiere svedesi del tardo Seicento. La loro struttura massiccia e circolare le rendeva inespugnabili, e consentiva il controllo a 360°.

La Lanterna, alta quasi 35 metri, con una portata di una quindicina di miglia marine, entrò in funzione l’11 febbraio 1833. All’inizio si utilizzò olio combustibile, sostituito dal 1860 con il petrolio e successivamente con l’elettricità.

 

 1899. La Lanterna, di giorno e di notte.
Cartolina Trasparency, prodotta dalla ditta Back & Schmitt di Vienna 

Già ai tempi della Tergeste romana esisteva una sorta di faro nella stessa area in cui sorge la Lanterna, i cui ruderi, secondo le fonti, erano visibili fino al 1600. Dopo quella data vi sorse una cappella, dedicata a San Nicolò, attrezzata anche per la segnalazione notturna, funzione sostituita con l’edificazione di una nuova Lanterna, per volere di Maria Teresa d’Asburgo (Vienna, 1717 – Vienna, 1780), in uso fino al 1833, quando venne inaugurata l’attuale.

Dalla fine dell’Ottocento, un cannone posto alla sua base segnava, con una salva, il mezzogiorno. Agli inizi del Novecento sulla Lanterna veniva mostrata la pressione dell’aria con un indice mobile, regolato manualmente sui valori registrati dall’Osservatorio Marittimo.
Per anni la Lanterna si presentò dipinta a strisce bianche e nere.

Con l’inaugurazione, nel 1927, del Faro della Vittoria, la Lanterna decadde dall’originaria funzione e il 25 novembre 1969 venne spenta definitivamente. Nel 1992 è stata restaurata dalla Lega Navale di Trieste, che ne ha fatto la propria sede. (g.c.)

 

 

 

 

Trieste, Gretta – Forte Kressich

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Trieste, Gretta - Forte Kressich
Il 26 settembre 1850 l’imperatore Francesco Giuseppe approvò il progetto per la costruzione di un forte, per lo studio viene incaricato il Tenente Colnello Carl Moering. Il forte venne costruito fra il 1854 e il 1857 sul poggio di Gretta, prese il nome dalla campagna Kressich sulla quale è sorto, in quel periodo era la più importante fortificazione a difesa del porto, si trovava ad un’altezza elevata per non essere colpito dall’artiglieria navale. All’entrata vi era un ponte levatoio, il bastione era circondato da un fosso (capponiera), aveva una galleria alla quale si poteva accedere attraverso un passaggio sotterraneo, esisteva inoltre una rete di sotterranei dove venivano conservate le polveri ed i rifornimenti. Dalla collina si collegava con la sottostante batteria di San Bortolo, che veniva chiamata anche Kressich Basso o Kressich Piccolo. La guarnigione poteva raggiungere un migliaio di uomini; era fornito di artiglierie per eventuali attacchi di “treni armati”. Il forte rimase efficiente per quasi trent’anni, il sistema difensivo venne poi sorpassato dai progressi delle artiglierie navali.
Durante la prima guerra venne utilizzato come magazzino militare.
Dopo la redenzione, l’armatore triestino Ettore Pollich comperò il forte per cederlo al Comitato che doveva erigere su quel posto il faro della Vittoria, infatti per l’ampio basamento che ingloba il bastione del forte, vennero utilizzate le solide fondamenta.
Il bassorilievo con la grande aquila bicipite, che era sistemato all’ingresso del forte, è stato collocato nei sotterranei del Faro. (Margherita Tauceri)

Trieste – Caserma Grande

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Trieste - Caserma Grande - Foto collezione Sergio Sergas
Questo edificio del 1769, sito in via del Torrente (odierna via Carducci), fu l’ospedale voluto da Maria Teresa.
Per ordine di Giuseppe II, nel 1785 fu convertito in caserma, lo scopo era di contenere le spese militari derivate dai vari dislocamenti e quello di avere la milizia concentrata in un medesimo edificio.
Vennero intrapresi numerosi lavori di ampliamento, sorsero le costruzioni con i nuovi alloggi, i magazzini, il deposito delle provvigioni e della farina con i forni, una vasta zona fu riservata alle scuderie. La parte prospiciente l’attuale via Coroneo fu adibita ad ospedale militare e funzionò fino al 1868, poi venne trasferito nel nuovo Ospedale Militare appena concluso in via Fabio Severo, all’epoca denominata via Commerciale nuova o Strada nuova d’Opicina. Lo spazio fino ad allora occupato dall’ospedale, dal 1875 diventerà sede della Scuola dei Cadetti di Fanteria.
Nel 1820 venne donato dal Comune un terreno confinante, la piazza d’armi divenne molto estesa ed oltre ad essere usata per le esercitazioni militari, ospitò spettacoli, corse di bighe, esercitazioni di cavallerizzi e di gruppi ginnici, ascensioni aerostatiche e circhi equestri. Si creò uno ampio spazio anche dietro alla caserma, in questo luogo si teneva principalmente il commercio di paglia e fieno e venne denominata “Piazza del Fieno”.
Nel 1927, conclusa la costruzione delle caserme di Rozzol, la guarnigione della Caserma grande venne trasferita in questi nuovi alloggi.
Nello stesso anno inizieranno le demolizioni dell’edificio.
(Margherita Tauceri)

Trieste – La Basilica di San Silvestro in Androna dei Grigioni

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Trieste - La Basilica di San Silvestro in Androna dei Grigioni

La basilica di San Silvestro, in stile romanico, fu costruita presumibilmente nella seconda metà del XII secolo per volere del vescovo Bernardo (1149-1187) in onore di papa Silvestro. Tuttavia la tradizione popolare, supportata da una lapide commemorativa del 1672 murata sulla parete postica dell’edificio, afferma che la chiesa sia sorta, nel 313 d.C., sull’area precedentemente occupata dall’abitazione delle martiri cristiane Tecla ed Eufemia, dove i primi cristiani triestini si sarebbero riuniti per assemblee clandestine. Nel 256 d.C., ai tempi delle persecuzioni cristiane, in quella antichissima casa nel corso dell’anno 256 d.C. vennero orrendamente torturate e decapitate le figlie di Epifania, vedova del senatore Demetrio: la dodicenne Tecla e la quattordicenne Eufemia. La loro storia fu scritta da Ginevra Bonomo, l’Abbadessa Eufrasia, conservata nell’Archivio Diplomatico.

Nel 1233, pare che il popolo fosse convocato nella basilica per accogliere gli ambasciatori veneziani. Nel XIV secolo la basilica fu la cattedrale di Trieste. Dalle memorie del canonico Matteo Camnich risulta che fu restaurata già nel 1332. La basilica fu più volte rimaneggiata, con l’apporto di elementi stilistici posteriori, ma il restauro a cui fu sottoposta nel 1927, sotto la direzione dell’architetto Ferdinando Forlati, la alleggerì da tutte le strutture barocche che si erano accumulate nel corso dei secoli, riportandola così alle sue linee romaniche originali.
Durante i lavori, furono scoperte e riportate alla luce due finestre a lato del campanile, risalenti a un periodo posteriore alla costruzione originale. Furono anche trovate tracce di affreschi che rappresentano l’imperatore Costantino che viene colpito dalla lebbra.
Nel 1785, sotto l’imperatore Giuseppe II, la chiesa fu posta a pubblico incanto e acquistata nel 1786 dalla comunità Evangelica Elvetica, che la ridusse al proprio rito e la dedicò a Cristo Salvatore.
Nel 1963, a seguito dei lavori di costruzione della scalinata di accesso da via del Teatro Romano, l’intera struttura basilicale ha subito grossi dissesti statici. Di conseguenza, la Soprintendenza ha promosso un restauro integrale ultimato nel 1967, che ha comportato il rifacimento delle fondazioni, la rimessa a piombo del colonnato interno e ha interessato anche le opere murarie di finitura. Ulteriori lavori di restauro e di manutenzione straordinaria sono stati eseguiti nel 1990.

La chiesa presenta una planimetria a forma di parallelogramma irregolare. Le facciate suggeriscono la strutturazione interna a tre navate, con una parte centrale più elevata e due laterali con i tetti a spiovente. La facciata principale, a Nord-Ovest, è caratterizzata da un rosone con raggiera ad archi a tutto sesto e da una porta d’ingresso aperta successivamente.
Sul lato Nord-Est si trova l’ingresso principale della chiesa, costituito da un protiro romanico in pietra bianca con due colonne su cui si imposta il campanile a pianta rettangolare. Il campanile, decorato da alcuni listelli e da una cornice in pietra bianca, termina con una cella campanaria traforata su ogni lato da una bifora.

Sul lato sinistro si trova l’ingresso principale, con un portico romanico su cui si erge il campanile. Secondo la tradizione, la torre campanaria era una torre medievale di difesa nelle mura cittadine, ricostruita con delle eleganti bifore. Al suo interno c’è una campana del 1785.
Sulla facciata anteriore: Il rosone romanico del XII secolo e la finestrella a transenna, un protiro bianco che sostiene il campanile.
La bifora sul campanile fu ricostruita nel restauro avvenuto nel 1927-1928, utilizzando un capitello a gruccia.
Sopra i pilastri del protiro, che sostengono il campanile, si vedono due protomi umani che sono elementi decorativi di origine ellenistica, utilizzati nella architettura romanica e poi anche nel periodo carolingio.

L’interno della basilica è diviso in tre navate da due file di tre colonne con capitelli cubici. Il soffitto delle navate è a capriate, mentre il soffitto sopra il presbiterio rialzato è costituito da una volta a crociera, con un agnello raffigurato al centro della volta. (Biblioteche Comune Trieste) – Dalla assimetria della chiesa dove il muro perimetrale che riguarda il campanile è ben più spesso del muro opposto, si può dedurre che questa parte è stata costruita addossata all’antica cinta muraria romana. Lo stesso campanile potrebbe avere origine da una torre di guardia.
All’interno della chiesa sono visibili sulle pareti dei frammenti di affreschi risalenti al 1300, con una scena relativa alla vita dell’imperatore Costantino dove è rappresentato con la lebbra, San Paolo Apostolo e una probabile Annunciazione.
Dietro all’altare è collocato un crocefisso in ferro battuto del 1700 e sul pavimento davanti all’altare si trova la tomba della famiglia Calò del 1585. La basilica di San Silvestro è ritenuta il luogo di culto più antico di Trieste. (Paolo Carbonaio)

Trieste – La Basilica di San Silvestro in Androna dei Grigioni

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Trieste - La Basilica di San Silvestro in Androna dei Grigioni

La basilica di San Silvestro, in stile romanico, fu costruita presumibilmente nella seconda metà del XII secolo per volere del vescovo Bernardo (1149-1187) in onore di papa Silvestro. Tuttavia la tradizione popolare, supportata da una lapide commemorativa del 1672 murata sulla parete postica dell’edificio, afferma che la chiesa sia sorta, nel 313 d.C., sull’area precedentemente occupata dall’abitazione delle martiri cristiane Tecla ed Eufemia, dove i primi cristiani triestini si sarebbero riuniti per assemblee clandestine. Nel 256 d.C., ai tempi delle persecuzioni cristiane, in quella antichissima casa nel corso dell’anno 256 d.C. vennero orrendamente torturate e decapitate le figlie di Epifania, vedova del senatore Demetrio: la dodicenne Tecla e la quattordicenne Eufemia. La loro storia fu scritta da Ginevra Bonomo, l’Abbadessa Eufrasia, conservata nell’Archivio Diplomatico.

Nel 1233, pare che il popolo fosse convocato nella basilica per accogliere gli ambasciatori veneziani. Nel XIV secolo la basilica fu la cattedrale di Trieste. Dalle memorie del canonico Matteo Camnich risulta che fu restaurata già nel 1332. La basilica fu più volte rimaneggiata, con l’apporto di elementi stilistici posteriori, ma il restauro a cui fu sottoposta nel 1927, sotto la direzione dell’architetto Ferdinando Forlati, la alleggerì da tutte le strutture barocche che si erano accumulate nel corso dei secoli, riportandola così alle sue linee romaniche originali.
Durante i lavori, furono scoperte e riportate alla luce due finestre a lato del campanile, risalenti a un periodo posteriore alla costruzione originale. Furono anche trovate tracce di affreschi che rappresentano l’imperatore Costantino che viene colpito dalla lebbra.
Nel 1785, sotto l’imperatore Giuseppe II, la chiesa fu posta a pubblico incanto e acquistata nel 1786 dalla comunità Evangelica Elvetica, che la ridusse al proprio rito e la dedicò a Cristo Salvatore.
Nel 1963, a seguito dei lavori di costruzione della scalinata di accesso da via del Teatro Romano, l’intera struttura basilicale ha subito grossi dissesti statici. Di conseguenza, la Soprintendenza ha promosso un restauro integrale ultimato nel 1967, che ha comportato il rifacimento delle fondazioni, la rimessa a piombo del colonnato interno e ha interessato anche le opere murarie di finitura. Ulteriori lavori di restauro e di manutenzione straordinaria sono stati eseguiti nel 1990.

La chiesa presenta una planimetria a forma di parallelogramma irregolare. Le facciate suggeriscono la strutturazione interna a tre navate, con una parte centrale più elevata e due laterali con i tetti a spiovente. La facciata principale, a Nord-Ovest, è caratterizzata da un rosone con raggiera ad archi a tutto sesto e da una porta d’ingresso aperta successivamente.
Sul lato Nord-Est si trova l’ingresso principale della chiesa, costituito da un protiro romanico in pietra bianca con due colonne su cui si imposta il campanile a pianta rettangolare. Il campanile, decorato da alcuni listelli e da una cornice in pietra bianca, termina con una cella campanaria traforata su ogni lato da una bifora.

Sul lato sinistro si trova l’ingresso principale, con un portico romanico su cui si erge il campanile. Secondo la tradizione, la torre campanaria era una torre medievale di difesa nelle mura cittadine, ricostruita con delle eleganti bifore. Al suo interno c’è una campana del 1785.
Sulla facciata anteriore: Il rosone romanico del XII secolo e la finestrella a transenna, un protiro bianco che sostiene il campanile.
La bifora sul campanile fu ricostruita nel restauro avvenuto nel 1927-1928, utilizzando un capitello a gruccia.
Sopra i pilastri del protiro, che sostengono il campanile, si vedono due protomi umani che sono elementi decorativi di origine ellenistica, utilizzati nella architettura romanica e poi anche nel periodo carolingio.

L’interno della basilica è diviso in tre navate da due file di tre colonne con capitelli cubici. Il soffitto delle navate è a capriate, mentre il soffitto sopra il presbiterio rialzato è costituito da una volta a crociera, con un agnello raffigurato al centro della volta. (Biblioteche Comune Trieste) – Dalla assimetria della chiesa dove il muro perimetrale che riguarda il campanile è ben più spesso del muro opposto, si può dedurre che questa parte è stata costruita addossata all’antica cinta muraria romana. Lo stesso campanile potrebbe avere origine da una torre di guardia.
All’interno della chiesa sono visibili sulle pareti dei frammenti di affreschi risalenti al 1300, con una scena relativa alla vita dell’imperatore Costantino dove è rappresentato con la lebbra, San Paolo Apostolo e una probabile Annunciazione.
Dietro all’altare è collocato un crocefisso in ferro battuto del 1700 e sul pavimento davanti all’altare si trova la tomba della famiglia Calò del 1585. La basilica di San Silvestro è ritenuta il luogo di culto più antico di Trieste. (Paolo Carbonaio)

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Trieste - La Basilica di San Silvestro in Androna dei Grigioni. Foto Paolo Carbonaio

 

La basilica di San Silvestro, in stile romanico, fu costruita presumibilmente nella seconda metà del XII secolo per volere del vescovo Bernardo (1149-1187) in onore di papa Silvestro. Tuttavia la tradizione popolare, supportata da una lapide commemorativa del 1672 murata sulla parete postica dell’edificio, afferma che la chiesa sia sorta, nel 313 d.C., sull’area precedentemente occupata dall’abitazione delle martiri cristiane Tecla ed Eufemia, dove i primi cristiani triestini si sarebbero riuniti per assemblee clandestine. Nel 256 d.C., ai tempi delle persecuzioni cristiane, in quella antichissima casa nel corso dell’anno 256 d.C. vennero orrendamente torturate e decapitate le figlie di Epifania, vedova del senatore Demetrio: la dodicenne Tecla e la quattordicenne Eufemia. La loro storia fu scritta da Ginevra Bonomo, l’Abbadessa Eufrasia, conservata nell’Archivio Diplomatico.

Nel 1233, pare che il popolo fosse convocato nella basilica per accogliere gli ambasciatori veneziani. Nel XIV secolo la basilica fu la cattedrale di Trieste. Dalle memorie del canonico Matteo Camnich risulta che fu restaurata già nel 1332. La basilica fu più volte rimaneggiata, con l’apporto di elementi stilistici posteriori, ma il restauro a cui fu sottoposta nel 1927, sotto la direzione dell’architetto Ferdinando Forlati, la alleggerì da tutte le strutture barocche che si erano accumulate nel corso dei secoli, riportandola così alle sue linee romaniche originali.
Durante i lavori, furono scoperte e riportate alla luce due finestre a lato del campanile, risalenti a un periodo posteriore alla costruzione originale. Furono anche trovate tracce di affreschi che rappresentano l’imperatore Costantino che viene colpito dalla lebbra.
Nel 1785, sotto l’imperatore Giuseppe II, la chiesa fu posta a pubblico incanto e acquistata nel 1786 dalla comunità Evangelica Elvetica, che la ridusse al proprio rito e la dedicò a Cristo Salvatore.
Nel 1963, a seguito dei lavori di costruzione della scalinata di accesso da via del Teatro Romano, l’intera struttura basilicale ha subito grossi dissesti statici. Di conseguenza, la Soprintendenza ha promosso un restauro integrale ultimato nel 1967, che ha comportato il rifacimento delle fondazioni, la rimessa a piombo del colonnato interno e ha interessato anche le opere murarie di finitura. Ulteriori lavori di restauro e di manutenzione straordinaria sono stati eseguiti nel 1990.

La chiesa presenta una planimetria a forma di parallelogramma irregolare. Le facciate suggeriscono la strutturazione interna a tre navate, con una parte centrale più elevata e due laterali con i tetti a spiovente. La facciata principale, a Nord-Ovest, è caratterizzata da un rosone con raggiera ad archi a tutto sesto e da una porta d’ingresso aperta successivamente.
Sul lato Nord-Est si trova l’ingresso principale della chiesa, costituito da un protiro romanico in pietra bianca con due colonne su cui si imposta il campanile a pianta rettangolare. Il campanile, decorato da alcuni listelli e da una cornice in pietra bianca, termina con una cella campanaria traforata su ogni lato da una bifora.

Sul lato sinistro si trova l’ingresso principale, con un portico romanico su cui si erge il campanile. Secondo la tradizione, la torre campanaria era una torre medievale di difesa nelle mura cittadine, ricostruita con delle eleganti bifore. Al suo interno c’è una campana del 1785.
Sulla facciata anteriore: Il rosone romanico del XII secolo e la finestrella a transenna, un protiro bianco che sostiene il campanile.
La bifora sul campanile fu ricostruita nel restauro avvenuto nel 1927-1928, utilizzando un capitello a gruccia.
Sopra i pilastri del protiro, che sostengono il campanile, si vedono due protomi umani che sono elementi decorativi di origine ellenistica, utilizzati nella architettura romanica e poi anche nel periodo carolingio.

L’interno della basilica è diviso in tre navate da due file di tre colonne con capitelli cubici. Il soffitto delle navate è a capriate, mentre il soffitto sopra il presbiterio rialzato è costituito da una volta a crociera, con un agnello raffigurato al centro della volta. (Biblioteche Comune Trieste) – Dalla assimetria della chiesa dove il muro perimetrale che riguarda il campanile è ben più spesso del muro opposto, si può dedurre che questa parte è stata costruita addossata all’antica cinta muraria romana. Lo stesso campanile potrebbe avere origine da una torre di guardia.
All’interno della chiesa sono visibili sulle pareti dei frammenti di affreschi risalenti al 1300, con una scena relativa alla vita dell’imperatore Costantino dove è rappresentato con la lebbra, San Paolo Apostolo e una probabile Annunciazione.
Dietro all’altare è collocato un crocefisso in ferro battuto del 1700 e sul pavimento davanti all’altare si trova la tomba della famiglia Calò del 1585. La basilica di San Silvestro è ritenuta il luogo di culto più antico di Trieste.

Trieste – Il torrione alla base della scalinata della chiesa di Santa Maria Maggiore

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Trieste - Il torrione alla base della scalinata della chiesa di Santa Maria Maggiore
Alla base della scalinata della chiesa di Santa Maria Maggiore, si vede il torrione sul quale, un tempo facevano l’albero di Natale. Il torrione apparteneva alla cinta difensiva eretta tra fine IV e inizio V secolo d.C. Per la costruzione sono stati utilizzati anche materiali di recupero: si riconoscono blocchi lavorati appartenenti a monumenti funerari e forse al limitrofo Teatro Romano. (M. Tauceri)

I Castellieri


Tra il XV e il III secolo a.C., nella zona del Carso e dell’Istria, fanno la loro comparsa i primi “castellieri” ad opera della popolazione degli Istri.

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Castelliere in Istria

Sono piccoli insediamenti in posizioni elevate, caratterizzati da una o più cinte murarie realizzate con rocce sedimentarie, spesso realizzate a secco o cementate con terra e  sterpaglia. I castellieri, talvolta venivano fortificati maggiormente con palizzate in legno, per migliorare la difesa del villaggio dove vivevano nuclei di popolazione dedita all’allevamento, all’agricoltura, alla caccia e alla pesca. I castellieri possono variare molto di dimensione, a partire dai 200 metri di circonferenza, fino a raggiungere il chilometro e più.

Il castelliere preistorico è l’equivalente dell'”oppido” romano (insediamenti cittadini fortificati). Con il trascorrere del tempo, sui resti di alcuni castellieri vennero innalzate fortificazioni medievali, chiese, villaggi o intere città. Si trovano traccia di castellieri in tutta la Venezia Giulia e Friuli e nella sola Istria ve ne sono più di 500.

Carlo De Franceschi (Moncalvo di Pisino 1809 - 1893)

Per secoli essi furono ritenuti fortilizi romani, fino a quando lo storico e scrittore Carlo De Franceschi  (Moncalvo di Pisino 1809 – 1893), ne intraprese lo studio e li classificò come sedi degli abitanti preistorici dell’Istria; allo stesso De Franceschi spetta anche il merito di aver identificato la posizione di Nesazio, capitale degli Istri.

Carlo de Marchesetti (1850 - 1926)

Nel 1903, l’archeologo e paleontologo Carlo Marchesetti (Trieste, 1850 – 1926), il quale nel 1883 aveva già fatto uno studio sul castelliere di Cattinara, pubblicava  una monografia sui castellieri della Venezia Giulia, classificandone un considerevole numero. Il Marchesetti, per oltre quarant’anni, fu direttore del Civico Museo di Storia naturale di Trieste, e dal 1903 venne anche nominato direttore dell’Orto botanico che annesso successivamente al Museo di storia naturale, raggiunse un grande prestigio scientifico. Nel corso di una serie di campagne di scavo e di ricognizione nell’Isontino e in Istria, intraprese dal Marchesetti tra il 1883 e il 1892,  vennero rinvenuti significativi reperti, ora conservati nei civici musei triestini. Le sue scoperte vennero pubblicate nel “Bollettino della società Adriatica di Scienze naturali”.

Negli atti del Museo Civico di Trieste del 1890, il Marchesetti scriverà: “Ricca messe di animali diluviali ci venne dalla Caverna di Gabrovizza, da quella di Sales, da quella del Diavolo di Monfalcone ecc… Ma la sezione ch’ebbe il massimo aumento nel nostro Museo fu quella che comprende l’Antropologia e la Preistoria, che fino a pochi anni fa constava unicamente di alcuni pochi oggetti dalle palafitte della Lombardia e di Lubiana. L’attiva esplorazione de’ numerosi castellieri che incoronano le vette de’ nostri monti e le ricerche fatte in parecchie delle innumeri caverne, che foracchiano il seno del nostro Carso, ci diedero una bella serie di oggetti paletnologici, illustranti lalba antropozoica delle nostre regioni. Più ricca ancora fu la messe, che venne tratta alla luce dagli estesi scavi praticati nelle nostre necropoli, le quali ci rivelarono una civiltà fiorentissima sparsa per le nostre contrade, molto prima che laquile romane spiegassero le loro ali verso la cinta gloriosa delle Alpi.” … “Ma l’uomo si è già arrestato al limitare delle caverne, gittando la suprema sfida alle fiere, che ne tenevano l’incontrastato dominio. Ma luomo ha già occupato il vertice dei colli circondandoli di forti muraglie e vi ha innalzato le sue case. Egli ha abbandonato la vita randagia ed è divenuto pastore. E la popolazione s’accresce, e già non v’è più grotta che non abbia i suoi abitanti. I castellieri si allargano, si moltiplicano: alla cinta primitiva se ne aggiungono delle altre più ampie per contenere le gregge e le mandrie. Ormai si contano nella nostra provincia più di cinquecento castellieri o villaggi fortificati, ed in essi si pigiano più di centomila abitanti. Troppa fatica costa la coltivazione della terra cogl’istrumenti primitivi di cui possono disporre quelle genti. Coll’accrescersi della popolazione sono grandemente diminuiti gli animali delle foreste, la pesca può offrire i suoi prodotti che agli abitanti in prossimità del mare. Essi sono quindi costretti a rivolgersi alla pastorizia, alla quale dedicano tutte le loro cure, … possedendo numerose gregge di capre e di pecore. Il bue ed il maiale venivano del pari allevati, se anche in minor numero.

____________

Sebbene i resti dei villaggi  e delle necropoli annesse a queste fortificazioni siano quasi totalmente scomparsi, nei più antichi sono state ritrovate ceramiche e utensili in pietra levigata, ossa di cervo; tra i rari oggetti metallici delle fibule di tipo la Certosa, risalenti al VI-V secolo a.C., scoperte nei castellieri di Trieste e del Carso. La ceramica è caratterizzata da un’impasto nero opaco, con varie tipologie di anse, base decorata a solchi circolari concentrici disposti attorno ad una rientranza concoidale. I manufatti di selce sono perlopiù martelli e accette di pietra verde, pietre da fionda, qualche macina.

Negli atti del Museo Civico di Storia Naturale di Trieste del 1903, ancora scriverà il Marchesetti: “Del pari gli sterri praticati in parecchi castellieri, come in quelli di Montebello, Contovello, Repentabor, Nivize presso Trieste, di Redipuglia, di Gradina a Cul di Leme, di Promontore, del M. Pollanza sull’isola di Lussino, ecc.., come pure in varie caverne, fornirono copioso materiale riferentesi principalmente all’epoca neolitica ed a quella del bronzo, alla qual’ultima sono da ascrivere pure in massima parte i nostri tumoli, la cui esplorazione, per la loro estrema povertà, non ci diede che parco ed inadeguato compenso.”


Dopo l’esplorazione scientifica, avviata nel 1925, sui castellieri di Monte Ursino e di Fontana del Conte, si giunse alla conclusione che il vallo non deriva sempre e soltanto dal crollo della cinta muraria, ma che può essere una tecnica più complessa di costruzione muraria, realizzata allo scopo di ottenere un livello orizzontale stabile. Venne stabilita anche l’esistenza di due tipi di castellieri: il tipo a muraglioni, comune nell’Istria meridionale e nelle isole del Carnaro, e il tipo a terrapieno, utilizzato nell’altipiano della Piuca, dove i più antichi appartengono all’età del bronzo e i più recenti a quella del ferro.
Oltre a difesa di un nucleo abitativo, i castellieri potevano essere utilizzati quale ricovero di animali, o in presenza di altari di pietra, destinati al culto votivo.

Per le loro caratteristiche, i castellieri sono stati riutilizzati, sia al tempo degli antichi romani, sia durante il Medioevo, alcune teorie fanno risalire Trieste e Pola ad antichi castellieri.

Castelliere di Rupinpiccolo, Veliko Gradišče. Comune di Sgonico

Presenta una cinta muraria di circa 250 metri (nel passato probabilmente 1 km), e due varchi d’ingresso. Credenze popolari indicano la sua cima come dimora di Attila, re degli Unni.

Alcune delle località dove sono presenti dei castellieri: Duino Aurisina “Castelliere Carlo De Marchesetti”, Cattinara, Conconello, Contovello, Elleri, Ermada, Gradez, Kluc’, Monrupino, Monte Castiglione, Monte Carso, Monte Coste, Monte d’Oro, Monte Grisa, Monte Grociana, Monte San Leonardo, Monte San Michele, Monte San Primo, Monte Spaccato, Montebello, Nivize, Prosecco, Rupingrande, Rupinpiccolo, San Giusto, San Leonardo, San Lorenzo, San Michele della Rosandra, Sales, San Polo a Monfalcone, San Servolo, Santa Croce, Slivia, San Vito, Sant’Elia, Slivia, Zolla…

Nel recente progetto ALTOADRIATICO sono stati censiti 280 siti archeologici nel territorio italiano e 50 nel territorio sloveno, dall’età dei castellieri alla tarda antichità, esclusi gli insediamenti preistorici in grotta. La ricerca sui castellieri di Trieste è stata curata da Ambra Betic, Federico Bernardini ed Emanuela Montagnari Kokelj.

Ne riportiamo una sintesi:

Il Carso Classico si estende dalla Slovenia sud-occidentale alla parte più orientale del Friuli Venezia Giulia affacciandosi sul mare Adriatico. Il Carso triestino occupa la parte sud-occidentale del Carso Classico e si estende per circa 40 km dal Monte S. Michele nel Goriziano alla Val Rosandra. Tutta la zona carsica si caratterizza per la scarsità di terreni coltivabili, limitati a depositi di terre rosse argillose concentrate per lo più sul fondo di doline, a differenza di quella marnoso arenacea, più fertile e attraversata da alcuni torrenti, non molto ampia.
I castellieri del Carso triestino sono distribuiti soprattutto sulle alture della catena costiera affacciata sul golfo di Trieste e di quella più orientale. Pochi insediamenti sono situati nell’area sub-pianeggiante compresa tra le due fasce parallele di rilievi. Allo stato attuale, per scarsezza di dati di scavo non è possibile proporre un quadro attendibile di quello che è stato lo sviluppo insediamentale dei castellieri durante la loro esistenza.
I siti distribuiti lungo il margine dell’altopiano carsico, ad alcune centinaia di metri di altezza, erano collegati da percorsi tuttora esistenti che portano al mare. Gli unici approdi costieri venuti alla luce sono quello di  Stramare di Muggia e nei pressi delle risorgive del Timavo.
Il sito di Stramare si trova a nord della parte terminale della valle del Rio Ospo, nel punto più interno e protetto della baia di Muggia, dove nell’immediato entroterra è documentata la presenza di una decina di castellieri posti per lo più in posizione dominante sulle alture, dove sono stati rinvenuti vari reperti.
Un raschiatoio di selce e una piccola lama d’ascia in pietra levigata, provenienti dagli scavi condotti negli anni Sessanta, sono attribuibili alla tarda preistoria e alla protostoria, un altro gruppo di reperti, più consistente, è invece riferibile all’età del Ferro. Fra le scodelle a orlo rientrante è da menzionare un frammento di orlo con solcatura orizzontale lungo il margine che trova analogie con materiali rinvenuti nei castellieri di Monrupino e Cattinara, attribuibili al VII-V sec. a.C., ovvero all’età del Ferro, documentata anche a Rupinpiccolo, Sales e Duino.

Altri reperti da segnalare, benché privi di chiare indicazioni di provenienza, sono un frammento di concotto probabilmente appartenente ad un forno, conservato in Soprintendenza; un frammento di intonaco decorato con motivi angolari, esposto al Civico Museo di Muggia; uno spillone a globetti in bronzo, genericamente inquadrabile nel VII secolo a.C. I materiali elencati fin qui sono gli unici che si possono riferire con sicurezza alla protostoria e sono quindi del tutto insufficienti per delineare un quadro attendibile e completo delle dinamiche di occupazione del promontorio di Stramare in questa fase. L’entroterra delle foci del Timavo è ricco di testimonianze archeologiche riferibili alla protostoria. Di questa zona del Carso si dispone di scarsi dati per l’assenza di indagini e per i danni causati dal primo conflitto mondiale. In età antica l’area delle foci del Timavo e dell’antistante piana del Lisert doveva essere in gran parte occupata dal mare, come le fonti antiche e i recenti studi dimostrano. Nel 1969, sono state intraprese delle ricerche subacquee da parte della Soprintendenza che hanno condotto alla scoperta di materiali attribuibili sia alla protostoria, sia al periodo romano. Fra i frammenti più antichi è da segnalare un unico orlo a corona con presa verticale sulla gola, attribuibile attribuibile all’età del Bronzo medio-recente. Altri frammenti sono pertinenti a orli di scodelle. Fra queste un frammento di teglia con vasca troncoconica e una serie di frammenti relativi a una scodella con cordoni lisci applicati. È interessante notare una certa standardizzazione delle forme e delle dimensioni, con fondi ascrivibili a tre differenti categorie: quelli compresi fra gli 8/8.5 cm, quelli fra i 9.5/10 e quelli fra gli 11/12 cm.  Allo stato attuale, i reperti rinvenuti nel Terzo Ramo del Timavo e a Stramare di Muggia sono le uniche testimonianze indirette di approdi protostorici nel golfo di Trieste: non sono infatti mai state individuate tracce di strutture o sistemazioni di sponda. La posizione dei due siti sopraccitati, in due tratti di costa bassa e protetta e in prossimità, in entrambi i casi, di acqua dolce, non sembra casuale. I dati archeologici a disposizione però sono purtroppo scarsi e confusi.  Solo l’avvio di nuove indagini stratigrafiche potrebbe consentire di sciogliere i numerosi nodi irrisolti relativi ai siti di Stramare e del Terzo Ramo del Timavo e più in generale alla protostoria del territorio triestino, in particolare per quanto riguarda le fasi più tarde prossime alla romanizzazione. (Ambra Betic, Federico Bernardini, Emanuela Montagnari Kokelj)

 

Articolo di approfondimento  (a cura di g.c.)

 

Bibliografia:

Battaglia R., I castellieri della Venezia Giulia, In: Le meraviglie del passato. A. Mondadori, 1958;

Andreolotti S., Duda S., Faraone E., I Castellieri della Regione Giulia nell’opera di Raffaello Battaglia,

Atti e Memorie della Commissione Grotte “Eugenio Boegan”, Trieste 1968;

Marchesetti (de) C., I Castellieri preistorici di Trieste e della regione Giulia. 1903, Atti del Museo Civico di Storia Naturale di Trieste – ristampa: Quaderno n. 3 della Società per la Preistoria e Protostoria della regione Friuli-Venezia Giulia. Ed. Italo Svevo, Trieste, 1981;

Cardarelli A., Castellieri nel Carso e nell’Istria: cronologia degli insediamenti fra media età del bronzo e prima età del ferro In: Preistoria del Caput Adriae, Catalogo della Mostra (Trieste, 1983). Istituto per l’Enciclopedia del Friuli Venezia Giulia, Udine 1983;

Maselli Scotti F., Le strutture dei castellieri di Monrupino e Rupinpiccolo (Trieste) In: Preistoria del Caput Adriae, Catalogo della Mostra (Trieste, 1983). Istituto per l’Enciclopedia del Friuli Venezia Giulia, Udine 1983;

Betic A., Bernardini F., Montagnari Kokelj E., I castellieri di Trieste tra Carso e mare In: Auriemma R., Karinja S. (a cura di): Terre di Mare. L’archeologia dei paesaggi costieri e le variazioni climatiche, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Trieste, novembre 2007). Università degli Studi di Trieste, Pomorski muzej Piran, Trieste 2008