la lapide rinascimentale del Vescovo Frangipani

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San Giusto, la bellissima pietra tombale rinascimentale del vescovo Frangipani. Dopo la morte del vescovo Rapicio nel 1573, Giacinto Frangipani, friulano, venne nominato vescovo nel marzo 1574, su raccomandazione dell’Arciduca Carlo d’Asburgo, ma morì l’8 novembre prima dell’arrivo della bolla di conferma da Roma .
La sua lapide, prima all’interno della cattedrale, venne portata fuori nei rifacimenti ottocenteschi e rimane sempre fuori addossata al muro esterno a destra delle facciata, spostata un paio di volte negli ultimi anni.


Dopo la sua morte venne nominato il vescovo Nicolò Coret le cui lapidi sono una sulla facciata dell’antico vescovado ed una all’interno del lapidario tergestino nei sotterranei del Castello ( E.M.)


Il testo della lapide: Hyacintho Frangipani de Castello summi Caroli archi -ducis Austriae providentia ad episcopatum assuncto praeveniens mors rapere non potuit quae ipse tanti principis judicio, animi pietate, religionis cura, ac generis antiquitate fuerat consecutis die VIII novembr MDLXXIV.

Bibliografia: san Giusto, Trieste 1970; Annuario diocesano Diocesi di Trieste 2006

La cappella Madre della Riconciliazione

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panoramica della Cappella Madre della Riconciliazione ( foto EM)

Adesso si chiama Cappella Madre della Riconciliazione, ed è la cappelletta al primo piano della ex chiesa dei santi Sebastiano e Rocco , aperta al culto nella primavera 2021 per rispetto del mandato testamentario dell’ultima proprietaria donatrice al comune : la storia della chiesa ” Sorta per desiderio testamentario del vescovo triestino Nicolò Aldegardis, che nel 1447 si auspicava la costruzione di una chiesetta dedicata al santo da erigersi dopo la sua dipartita, la realizzazione di San Sebastiano risulta essere in realtà più tardiva, né è plausibile la teoria seconda la quale la chiesetta risalirebbe addirittura al 1365 allorquando la Confraternita di S. Paolo dedicò il fondo “dannato e vacuo” dei Ranfi alla realizzazione di un edificio sacro che, andato in rovina, venne riedificato 85 anni più tardi proprio su commissione del vescovo. Un’ indulgenza di Papa Pio II accordata alla cappella unita ad una bolla di patronato, concessa ad Antonio de Leo proprietario dell’attiguo edificio, attestano l’esistenza di S. Sebastiano nel 1459. Tra il 1511 e il 1543 la chiesa venne sconsacrata a causa dell’imperversare della peste tanto che, forse, l’edificio venne addirittura demolito e sulle sue rovine ricostruita una nuova cappella dedicata non più solo a S. Sebastiano, ma anche a S. Rocco, santo protettore contro la peste. Nel 1602 la chiesetta perse però di importanza in concomitanza alla consacrazione della nuova chiesa di S. Rocco in Piazza Grande. Posta all’incanto da Giuseppe II nel1782 , fu quindi convertita in abitazione privata e venduta, nel 1785, al barone Francesco de Zanchi. Costui divise l’interno in due piani, aprendo nuove finestre e modificando la struttura della facciata esterna. Nel 1871 l’edificio passò in eredità a Regina Abriani vedova contessa Nugent e nel 1951, per volontà testamentaria della contessa Margherita Nugent fu Laval, divenne proprietà comunale.” ( dal sito del Comune).
La scelta della Madonna della Riconciliazione è stata fatta pensando all’immagine dell’Addolorata, davanti alla quale il vescovo Santin rimase in preghiera nel 1945 facendo il noto voto sulla non distruzione di Trieste che diede poi luogo al santuario di Monte Grisa. Per incorniciare l’immagine e aggiungere altre decorazioni, l’attuale vescovo ricorse al pittore russo Oleg Supereco, specializzato anche in arte sacra. In questi giorni l’immaginetta delle madonna è collegata ad una preghiera per la fine della pandemia..

Il dipinto della vergine Addolorata invece è opera ottocentesca di un pittore spagnolo, Luis Ferrant y Llausas

l’immaginetta della Vergine Addolorata

la pala coi Santi triestini, Giusto, Sergio, Servolo, Eufemia e Tecla che circondano l’immagine ( foto EM)
Il tondo della Pentecoste sul soffitto (foto EM)
Natività ( foto EM)
Angelo annunciante
Annunciata

Piazza Grande o meglio Piazza san Pietro attorno al 1820

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Piazza san Pietro nel 1820 circa.
a sinistra la chiesa di san Pietro, demolita a fine Ottocento.Al suo posto, palazzo Modello. e dietro la Dogana vecchia, dove oggi c’è il Tergesteo. La fila di edifici stretta e lunga in alto verrà inglobata nel Municipio di fine Ottocento, la A sta per la cancelleria del governo, la B è la Loggia – ricordata dagli attuali archi sotto il Municipio e difatti dietro c’è la stretta via della Loggia. Casa Jovovich è sempre al suo posto anche se adesso la chiamano casa Pitteri e c’è sotto il Despar. I due circoli al centro dovrebbero essere la fontana e la colonna di Carlo VI
Attaccata a san Pietro la casa di Nicolò Stratti che diventerà palazzo Stratti e gli Specchi, e davanti il teatro Vecchio o teatro san Pietro, che fu pure sede del Comune, e fu demolito anch’esso.
Poi ci sono le carceri, con un cortile ed un deposito.. la Locanda Grande che occupava parte della piazza e fra le carceri e la locanda la torre del Porto. Oltre la quale via dell’orologio che esiste tuttora- in parte e che ora sbocca a metà dell’attuale piazza.
Dopo via dell’orologio, che per anni tagliò la piazza con le rotaie del tram, viene il mandracchio, il porto riparato e protetto. Quello che viene ricordato dalle lucine blu per terra per ricordare che c’era il mare. Su cui, dopo interrato, sorse un effimero giardino. A sinistra il primo palazzo governatoriale, più piccolo dell’attuale e la cui facciata principale era su piazza del teatro, che si vede a sinistra . Il molo che proteggeva il mandracchio aveva una batteria di artiglieria ed una punta che rimase visibile dopo l’interramento, fino all’allargamento delle rive .

Si tratta della piazza, che , ingrandita, diventerà Piazza Unità e poi Piazza Unità d’Italia

 

Fonti: Celli Tognon e altri: la piazza nella città moderna, Rutteri : Trieste spunti dal suo passato, Zubini. Cittavecchia

TRIESTE – Rievocazione storica del Palio delle Tredici Casade. Anni ’70

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Rievocazione storica del Palio delle Tredici Casade. Anni ’70

Foto: Ferruccio Crovatto
Post di Livio Crovatto

Ferruccio Crovatto nasce a Trieste il 14 marzo 1920, da genitori provenienti dalla Dalmazia. Dopo il diploma in ragioneria presso l’istituto tecnico “G. R. Carli” si iscrive alla Facoltà di Economia e Commercio, ma ben presto deve interrompere gli studi in quanto chiamato sotto le armi in occasione della Campagna di Grecia. Quivi rimase fino all’armistizio dell’8 settembre 1943, dopo il quale alterne vicissitudini lo portarono prima in un campo di prigionia tedesco, in Germana, poi in uno inglese in India. Ritornato in Italia alla fine del conflitto, vinse un concorso per entrare in banca, al Credito Italiano. In seguito a ciò andò a lavorare per un paio d’anni a Reggio Emilia, città in cui trovò degli amici che gli trasmisero la passione per la fotografia. Rientrò poi a Trieste, ove fu impiegato nella storica filiale di Piazza della Borsa per più di trent’anni, fino al pensionamento avvenuto nel 1984. Venne a mancare pochi anni dopo, il 20 giugno 1989, in seguito ai traumi riportati in un incidente stradale, avvenuto in Istria tre mesi prima, nel corso di quella che sarebbe stata la sua ultima gita fotografica.

Le prime foto. Fra quelle conservate, risalgono al 1951/52 – non sempre annotava luoghi e date delle riprese – e già nel 1958 era membro della FIAP, ossia la federazione internazionale degli artisti fotografici, mentre gia da alcuni anni si era associato al Circolo Fotografico Triestino, di cui sarebbe diventato negli anni a venire uno dei membri più rappresentativi. Nel contempo cominciò a pubblicare foto su giornali e riviste specializzate, affermandosi anche in vari concorsi, in Italia e all’estero.

Al periodo tra la metà degli anni ’50 e quella dei ’70 risalgono le sue serie fotografiche più note e caratterizzanti: i bimbi ciechi dell’istituto Rittmeyer, i musicisti jazz al castello di San Giusto, gli artisti circensi, i vetrai di Murano, le merlettaie e i pescatori di Burano e molte altre ancora.

I soggetti più ricorrenti nelle sue opere sono da una parte gli anziani, dall’altra i bambini spesso interrelati e colti con semplicità nei momenti di riflessione e di svago. E poi i lavoratori, specie artigiani e pescatori, impegnati nelle loro occupazioni, visti con occhio partecipe ma alieno da ogni sentimentalismo di maniera.

Gli ambienti suoi privilegiati sono sempre stati quelli rurali e agresti del Carso e dell’Istria, nonché il paesaggio della laguna di Grado-Marano e quella di Venezia (Burano e Pellestrina in primis), della quale, in particolare, seppe cogliere con maestria le magiche suggestioni.

I sentimenti che predominano sono quelli degli affetti e dei rapporti familiari, le malinconie e le gioie delle piccole cose e delle situazioni comuni, mollo spesso l’umorismo e il surrealismo insito in certe scene della vita quotidiana.

(Testo di Livio Crovatto)

Trieste : Prospetto del Porto e città di Trieste, 1755

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Prospetto del Porto e città di Trieste, 1755
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Ferdinando I d’Asburgo-Lorena lascia Trieste, 16 settembre 1844

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Ferdinando I d'Asburgo-Lorena lascia Trieste. 
Collezione Dino Cafagna

Lunedì, 16 settembre 1844, l’Imperatore e il suo seguito si congedano da Trieste. La carrozza imperiale si allontana dalla città e, al confine del Territorio di Trieste con la Contea di Gorizia e Gradisca. I Sovrani vengono salutati dalle massime autorità locali, dalla Deputazione di Borsa, dai capi delle comunità religiose non cattoliche, dalla Direzione del “Lloyd”. Ferdinando e Maria Anna fanno fermare la carrozza e si intrattengono con i presenti.
Le due colonne (tuttora esistenti in quel punto sulla strada che porta da Prosecco verso Sistiana) erano state addobbate con ghirlande e bandiere e con delle iscrizioni che salutavano l’Imperatore e la consorte. Esse furono erette per solennizzare un precedente avvenimento del genere: la visita dell’Imperatore Francesco I. Il 20 aprile 1816, infatti, in quel punto ove iniziava il Territorio di Trieste, egli fu accolto dalla “civica rappresentanza”, che perciò fece porre in cima alle colonne “di marmo istriano” (veramente sono di “pietra bianca”) il tradizionale simbolo della città. La riproduzione cioè dell’acroterio sormontato dall’alabarda che era sul campanile di San Giusto sino al 1421, quando venne abbattuto da un fulmine. Simbolo da tempo conosciuto e amato dal popolino e battezzato “el melon”, a causa della sua struttura che ricorda tale frutto.
Data la località, anche se innalzate per tutt’altro fine, nella comune credenza le due colonne da tempo sono ritenute semplici segni di cessata circoscrizione territoriale.
. (Dino Cafagna)

Prosecco (Proseco in dialetto triestino, Prosek in sloveno) è una frazione del comune di Trieste. Si trova sull’altopiano carsico, a metà strada circa tra le frazioni di Opicina e di Santa Croce
Il temine Prosecco significa bosco tagliato, dalle aree disboscate per la coltivazione della vite; la frazione infatti è celebre per aver dato il nome ad uno dei vini più famosi al mondo, il prosecco.
Nella periferia del paese, inizia la strada Vicentina, detta anche Napoleonica, che si collega all’Obelisco di Opicina. (Margherita Tauceri)

L’Antiquarium di via Donota

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Le immagini durante gli scavi, dai pannelli presenti

 

L’Antiquarium nasce in seguito alle scoperte degli anni 80-84  in coincidenza coi primi lavori di restauro in Cittavecchia, zona Donota: si scoprono resti di una domus/sepolcreto e di mura cittadine romane. Per cui è stato messo in evidenza quanto  trovato, alcune vetrinette di oggetti, a cui sono stati aggiunti altri relativi al successivo scavo sovrastante di via Barbacan. I pannelli esplicativi spiegano anche qualcosa relativamente al Teatro romano, le cui sculture sono però al Lapidario tergestino al castello.

Questi risultano essere i primi scavi sistematico condotti a Trieste dopo quelli degli anni Trenta, caratterizzati quelli da un obiettivo di esaltazione della romanità tergestina, questi con criteri più attuali.

La via Donota viene considerata come la strada che congiungeva Aquileia con la parte centrale dell’antica Tergeste, sul prolungamento del Cardo maximus, anche se il suo andamento risulta parallelo alla linea di costa e al teatro romano. Gli edifici risultano esterni alle mura urbiche, quindi.
Nel piccolo antiquarium sono  esposti resti romani, lucerne, ceramiche, vetri, ma a differenza di quelli esposti  al Civico Museo, che spesso provengono dal mercato antiquario e non ne è nota la provenienza, questi sono giunti direttamente dagli scavi locali per cui attestano la vita in loco.
Com’era la zona prima dell’inizio dei lavori, dai pannelli, nemmeno la torre Donota medievale era distinguibile.

Gli scavi riconoscono una domus – casa romana costruita in due epoche: una prima più di lusso nel I secolo a C ed una successiva nel I secolo d C; nel II secolo le due case risultano abbandonate come abitazione, forse in parte trasformate in fabbrica, e sul davanti si installa una zona cimiteriale (quelle erano sempre fuori dalle mura).

Della casa sono riconosciute due latrine (forica, successus); esse a volte erano collegate a sistemi idrici come qua che l’acqua non doveva mancare, anche se poi passò a pozzo nero. C’era una “seduta” e un bastone con spugna che serviva come noi usiamo lo scopino…

il sepolcreto che è la parte verso l’esterno, diviso da un corridoio dal resto dalla domus, è delimitato da pietre con copertura semisferica conteneva parecchie tombe, quelle di bambini erano in anfore.

All’esterno, una  macina, probabilmente per olio

Il successivo reperto è dato dalle mura urbiche romane, che in quel punto formano un angolo, risalendo verso il colle e verso l’arco di Riccardo che sempre più si sta qualificando come porta romana.

Pannelli presenti illustrano la storia delle mura, e del solco tracciato con l’aratro, il famoso buris/is che ci facevano studiare fra le eccezioni latine!

Nelle vetrine sono conservati oggetti ritrovati, si tratta  di oggetti di vita quotidiana o di decorazioni dell’interno come mosaici o pezzi di intonaco dipinto.

 

Oggetti domestici quali stoviglie, pentole da cucina. molte di quella caratteristica ceramica lucida rossiccia detta terra sigillata. Alcune col sigillo della fabbrica. Dal tipo di terra , dalla forma delle stoviglie e dal marchio gli esperti riconoscono la provenienza, dall’Africa, dalla Grecia…


Tante lucerne, le case romane non erano molto luminose

è interessante confrontare il frammento a sinistra sotto, con una Iside/Diana/Selene con una lucerna più integra del Museo Civico. sotto a destra

oggetti di uso quotidiano: vetri, aghi di osso o avorio, scatolette, uno strigile per le detersione del sudore degli atleti, un elemento di bronzo probabilmente di mobile

Oggetti provenienti dalle tombe: collanine, fibbie,  pendente a forma di mezzaluna, bicchiere di vetro, lama di coltello, monete

a parte, il Tesoretto di piazza Barbacan: un gruzzoletto di monete ritrovate assieme: paura di invasioni? proprietario accumulatore?

Da ultimo, un sigillo di piombo del doge Vitale II Michiel (1156 – 1172) Vitalia Michael Dei Gratia Venecie Dalmacieatque Chroatie dux

 

testo e foto di Elisabetta Marcovich


 

Bibliografia suggerita dalla Sovrintendenza ai monumenti:

D. Briquel, La leggenda di Romolo e il rituale della fondazione della città, dalla Mostra. Milano, 2000;

De Vecchi Resciniti, Vidulli Torlo: Tutto Città vecchia – Percorsi di storia cittadina. Trieste, 1992;

Filippi, le procedure i riti di fondazione. Modena, 1993;

Lettich, Trieste Romana Archeografo  triestino 1984;

Maselli-Scotti, Trieste uno scavo archeologico per la città. Trieste, 1989;

Maselli-Scotti, Tergeste.  Antichità altoadriatiche, 1990;

Maselli-Scotti, Trieste alla luce delle recenti indagini – Convegno. Trieste-Roma, 1987;

Maselli-Scotti, Edilizia abitativa a Tergeste, 2001.

 

 

 

Il faro della Lanterna di Trieste

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La Lanterna di Trieste si trova al Molo Fratelli Bandiera (già Molo Teresiano), vicino alla nuova Piscina Comunale e prima dell’ingresso al Porto Vecchio.

La costruzione del faro, le cui fondazioni poggiano su quello che una volta era lo Scoglio dello Zucco (fino a fine ‘700 staccato dalla terraferma), fu voluta dal governatore della città Carlo Zinzendorf, su progetto di Matteo Pertsch e doveva svolgere anche una funzione di vigilanza e difesa del Porto.

Alla base della Lanterna sorge una sorta di fortino, che per tipologia appartiene al tipo fortificatorio della torre casamattata per artiglieria a tracciato circolare, o torre massimiliana. Queste fortificazioni traggono il loro nome dalle torri costruite a Linz tra il 1831 ed il 1833 dall’arciduca Massimiliano, già in uso nelle costiere svedesi del tardo Seicento. La loro struttura massiccia e circolare le rendeva inespugnabili, e consentiva il controllo a 360°.

La Lanterna, alta quasi 35 metri, con una portata di una quindicina di miglia marine, entrò in funzione l’11 febbraio 1833. All’inizio si utilizzò olio combustibile, sostituito dal 1860 con il petrolio e successivamente con l’elettricità.

 

 1899. La Lanterna, di giorno e di notte.
Cartolina Trasparency, prodotta dalla ditta Back & Schmitt di Vienna 

Già ai tempi della Tergeste romana esisteva una sorta di faro nella stessa area in cui sorge la Lanterna, i cui ruderi, secondo le fonti, erano visibili fino al 1600. Dopo quella data vi sorse una cappella, dedicata a San Nicolò, attrezzata anche per la segnalazione notturna, funzione sostituita con l’edificazione di una nuova Lanterna, per volere di Maria Teresa d’Asburgo (Vienna, 1717 – Vienna, 1780), in uso fino al 1833, quando venne inaugurata l’attuale.

Dalla fine dell’Ottocento, un cannone posto alla sua base segnava, con una salva, il mezzogiorno. Agli inizi del Novecento sulla Lanterna veniva mostrata la pressione dell’aria con un indice mobile, regolato manualmente sui valori registrati dall’Osservatorio Marittimo.
Per anni la Lanterna si presentò dipinta a strisce bianche e nere.

Con l’inaugurazione, nel 1927, del Faro della Vittoria, la Lanterna decadde dall’originaria funzione e il 25 novembre 1969 venne spenta definitivamente. Nel 1992 è stata restaurata dalla Lega Navale di Trieste, che ne ha fatto la propria sede. (g.c.)

 

 

 

 

Trieste – Inverno del 1929 – via Carducci angolo via Battisti

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Inverno del 1929 - via Carducci angolo via Battisti.                  Foto Collezione Sergio Sergas

L’inverno del 1929 è stato uno dei più freddi e nevosi degli ultimi 150 anni, in molte zone d’Italia e d’Europa si registrano copiose nevicate. L’ondata di gelo cominciò a manifestarsi negli ultimi giorni del 1928, quando le temperature cominciarono a farsi sempre più rigide e si intensificò nel mese di febbraio 1929, che viene ricordato come il mese più freddo.
In gennaio a Trieste nevica e il manto nevoso raggiunge in molti punti una notevole altezza, le comunicazioni ferroviarie sulla linea Trieste-Postumia e Trieste-Fiume sono interrotte. La violenta bufera di neve è accompagnata da fortissime raffiche di bora che provocano notevoli danni. Il periodo più freddo arriva il giorno 11 febbraio e prosegue fino al 15, a Trieste la temperatura più bassa si raggiunge il 13 febbraio con -15.6°C, ma causa la bora viene percepita una temperatura notevolmente più bassa, si hanno danni alle linee elettriche, telefoniche e alle coltivazioni. Il freddo continuerà anche nel mese di marzo. (Margherita Tauceri)

Trieste – Strada del Friuli

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Trieste - Strada del Friuli. Foto Collezione Sergio Sergas
Questa è una strada molto antica, nell’immagine ancora in terra battuta; nel ‘700 era chiamata “Strada d’Italia”, nell’800 “Strada di Prosecco” nel 1919 sarà chiamata “Strada del Friuli”.
In questa foto datata 1914, un carro sta passando davanti al forte Kressich, si tratta di una batteria che l’Austria aveva costruito nel 1854 (progetto dell’architetto Karl Moring), per difendere il golfo di Trieste dal bombardamento di eventuali squadre navali nemiche, sistema poi sorpassato dai progressi delle artiglierie navali.
Sul bastione rotondo nel 1923 inizierà la costruzione del faro della Vittoria. (Margherita Tauceri)

Trieste – Caserma Grande

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Trieste - Caserma Grande - Foto collezione Sergio Sergas
Questo edificio del 1769, sito in via del Torrente (odierna via Carducci), fu l’ospedale voluto da Maria Teresa.
Per ordine di Giuseppe II, nel 1785 fu convertito in caserma, lo scopo era di contenere le spese militari derivate dai vari dislocamenti e quello di avere la milizia concentrata in un medesimo edificio.
Vennero intrapresi numerosi lavori di ampliamento, sorsero le costruzioni con i nuovi alloggi, i magazzini, il deposito delle provvigioni e della farina con i forni, una vasta zona fu riservata alle scuderie. La parte prospiciente l’attuale via Coroneo fu adibita ad ospedale militare e funzionò fino al 1868, poi venne trasferito nel nuovo Ospedale Militare appena concluso in via Fabio Severo, all’epoca denominata via Commerciale nuova o Strada nuova d’Opicina. Lo spazio fino ad allora occupato dall’ospedale, dal 1875 diventerà sede della Scuola dei Cadetti di Fanteria.
Nel 1820 venne donato dal Comune un terreno confinante, la piazza d’armi divenne molto estesa ed oltre ad essere usata per le esercitazioni militari, ospitò spettacoli, corse di bighe, esercitazioni di cavallerizzi e di gruppi ginnici, ascensioni aerostatiche e circhi equestri. Si creò uno ampio spazio anche dietro alla caserma, in questo luogo si teneva principalmente il commercio di paglia e fieno e venne denominata “Piazza del Fieno”.
Nel 1927, conclusa la costruzione delle caserme di Rozzol, la guarnigione della Caserma grande venne trasferita in questi nuovi alloggi.
Nello stesso anno inizieranno le demolizioni dell’edificio.
(Margherita Tauceri)

Trieste – Il Faro della Vittoria il giorno dell’inaugurazione, 24 maggio 1927

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Trieste - Il Faro della Vittoria il giorno dell'inaugurazione, 24 maggio 1927

Il Faro della Vittoria nasce su progetto dell’architetto triestino Arduino Berlam (1880 – 1946), che si fa promotore dell’iniziativa già dal 1918, quando la Grande Guerra si è da poco conclusa. Per l‘edificazione del grande monumento, commemorativo i marinai caduti durante la guerra, e faro guida alla navigazione notturna nel Golfo di Trieste, venne scelta una posizione dominante a 60 metri sul livello del mare. Il Poggio di Gretta, un terreno roccioso che aveva già offerto le fondamenta a un’altra costruzione, l’ex forte austriaco Kressich, attivo dal 1854, che con i suoi cannoni proteggeva la spiaggia di Barcola.
La costruzione del Faro, iniziata nel gennaio 1923, vide il progetto originario del Berlam modificato dall’architetto Guido Cirilli, che ne dirigeva i lavori. L’opera venne completata il 24 maggio 1927, con un’inaugurazione solenne, presenziata dal Re Vittorio Emanuele III e dalla regina consorte, Elena di Montenegro. La possente struttura, costata 5.265.000 lire, del peso complessivo di 8.000 tonnellate, è rivestita esternamente di pietra – carsica di Gabria la parte inferiore e pietra istriana di Orsera nella parte superiore. La lanterna, collocata a 115 metri sopra il livello del mare, compie un giro intorno al proprio asse ogni 30 secondi e sprigionando una luminosità di 1.200.000 candele copre una portata di 30 miglia. Sopra la grande colonna cava, un capitello sostiene la “coffa”, riferimento agli alberi delle navi, in cui è inserita la gabbia di bronzo e cristalli della lanterna, coperta da una cupola di bronzo decorata a squame. Sopra la cupola svetta la grande statua in rame della Vittoria Alata, 7 quintali di peso, opera dello scultore triestino Giovanni Mayer (1863 – 1943), realizzata dal fabbro artigiano Giacomo Sebroth.
In basso si trova la figura del Marinaio Ignoto, 8,6 metri di pietra di Orsera, sempre su disegno di Giovanni Mayer, del maestro scalpellino Regolo Salandini. Sotto la statua è stata collocata l’ancora dell’Audace, la prima nave della Regia Marina Italiana, che il 3 novembre 1918 entrò nel porto di Trieste sbarcando il generale Carlo Petitti di Roreto, incaricato di proclamare l’annessione della città all’Italia. Dopo un viaggio a Zara il 7 novembre, per portare provviste alla popolazione civile, la nave tornò a Trieste il 10 novembre con a bordo il re Vittorio Emanuele III e i generali Armando Diaz e Pietro Badoglio. L’allora Molo San Carlo venne ribattezzato Molo Audace, mentre il lungomare contiguo assunse il nome di Riva 3 novembre.

Anche se convenzionalmente viene dichiarato che l’ancora collocata nel Faro è quella dell’Audace, probabilmente si tratta dell’ancora di un’altra nave, della R.N. Berenice. L’Audace, che alla proclamazione dell’armistizio, l’8 settembre 1943, venne Incorporata nella Kriegsmarine tedesca ed utilizzata in Adriatico in missioni di scorta, trasporto truppe e posa di mine, il 1º novembre 1944 venne affondata da unità navali inglesi al largo di Pago e il relitto venne individuato alla profondità di 80 metri soltanto nell’agosto del 1999, dai subacquei triestini Leonardo Laneve e Mario Arena.
Ai lati dell’ingresso del Faro sono posti due proiettili della corazzata Viribus Unitis, nave ammiraglia della Marina imperiale austriaca, che doveva il suo nome al motto dell’imperatore Francesco Giuseppe.
Una lastra in pietra posta alla base del Faro reca l’iscrizione: “ A.D. MCMXXVII « SPLENDI E RICORDA I CADVTI SVL MARE (MCMXV – MCMXVIII) ». (Giorgio Catania)

Trieste – La Basilica di San Silvestro in Androna dei Grigioni

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Trieste - La Basilica di San Silvestro in Androna dei Grigioni

La basilica di San Silvestro, in stile romanico, fu costruita presumibilmente nella seconda metà del XII secolo per volere del vescovo Bernardo (1149-1187) in onore di papa Silvestro. Tuttavia la tradizione popolare, supportata da una lapide commemorativa del 1672 murata sulla parete postica dell’edificio, afferma che la chiesa sia sorta, nel 313 d.C., sull’area precedentemente occupata dall’abitazione delle martiri cristiane Tecla ed Eufemia, dove i primi cristiani triestini si sarebbero riuniti per assemblee clandestine. Nel 256 d.C., ai tempi delle persecuzioni cristiane, in quella antichissima casa nel corso dell’anno 256 d.C. vennero orrendamente torturate e decapitate le figlie di Epifania, vedova del senatore Demetrio: la dodicenne Tecla e la quattordicenne Eufemia. La loro storia fu scritta da Ginevra Bonomo, l’Abbadessa Eufrasia, conservata nell’Archivio Diplomatico.

Nel 1233, pare che il popolo fosse convocato nella basilica per accogliere gli ambasciatori veneziani. Nel XIV secolo la basilica fu la cattedrale di Trieste. Dalle memorie del canonico Matteo Camnich risulta che fu restaurata già nel 1332. La basilica fu più volte rimaneggiata, con l’apporto di elementi stilistici posteriori, ma il restauro a cui fu sottoposta nel 1927, sotto la direzione dell’architetto Ferdinando Forlati, la alleggerì da tutte le strutture barocche che si erano accumulate nel corso dei secoli, riportandola così alle sue linee romaniche originali.
Durante i lavori, furono scoperte e riportate alla luce due finestre a lato del campanile, risalenti a un periodo posteriore alla costruzione originale. Furono anche trovate tracce di affreschi che rappresentano l’imperatore Costantino che viene colpito dalla lebbra.
Nel 1785, sotto l’imperatore Giuseppe II, la chiesa fu posta a pubblico incanto e acquistata nel 1786 dalla comunità Evangelica Elvetica, che la ridusse al proprio rito e la dedicò a Cristo Salvatore.
Nel 1963, a seguito dei lavori di costruzione della scalinata di accesso da via del Teatro Romano, l’intera struttura basilicale ha subito grossi dissesti statici. Di conseguenza, la Soprintendenza ha promosso un restauro integrale ultimato nel 1967, che ha comportato il rifacimento delle fondazioni, la rimessa a piombo del colonnato interno e ha interessato anche le opere murarie di finitura. Ulteriori lavori di restauro e di manutenzione straordinaria sono stati eseguiti nel 1990.

La chiesa presenta una planimetria a forma di parallelogramma irregolare. Le facciate suggeriscono la strutturazione interna a tre navate, con una parte centrale più elevata e due laterali con i tetti a spiovente. La facciata principale, a Nord-Ovest, è caratterizzata da un rosone con raggiera ad archi a tutto sesto e da una porta d’ingresso aperta successivamente.
Sul lato Nord-Est si trova l’ingresso principale della chiesa, costituito da un protiro romanico in pietra bianca con due colonne su cui si imposta il campanile a pianta rettangolare. Il campanile, decorato da alcuni listelli e da una cornice in pietra bianca, termina con una cella campanaria traforata su ogni lato da una bifora.

Sul lato sinistro si trova l’ingresso principale, con un portico romanico su cui si erge il campanile. Secondo la tradizione, la torre campanaria era una torre medievale di difesa nelle mura cittadine, ricostruita con delle eleganti bifore. Al suo interno c’è una campana del 1785.
Sulla facciata anteriore: Il rosone romanico del XII secolo e la finestrella a transenna, un protiro bianco che sostiene il campanile.
La bifora sul campanile fu ricostruita nel restauro avvenuto nel 1927-1928, utilizzando un capitello a gruccia.
Sopra i pilastri del protiro, che sostengono il campanile, si vedono due protomi umani che sono elementi decorativi di origine ellenistica, utilizzati nella architettura romanica e poi anche nel periodo carolingio.

L’interno della basilica è diviso in tre navate da due file di tre colonne con capitelli cubici. Il soffitto delle navate è a capriate, mentre il soffitto sopra il presbiterio rialzato è costituito da una volta a crociera, con un agnello raffigurato al centro della volta. (Biblioteche Comune Trieste) – Dalla assimetria della chiesa dove il muro perimetrale che riguarda il campanile è ben più spesso del muro opposto, si può dedurre che questa parte è stata costruita addossata all’antica cinta muraria romana. Lo stesso campanile potrebbe avere origine da una torre di guardia.
All’interno della chiesa sono visibili sulle pareti dei frammenti di affreschi risalenti al 1300, con una scena relativa alla vita dell’imperatore Costantino dove è rappresentato con la lebbra, San Paolo Apostolo e una probabile Annunciazione.
Dietro all’altare è collocato un crocefisso in ferro battuto del 1700 e sul pavimento davanti all’altare si trova la tomba della famiglia Calò del 1585. La basilica di San Silvestro è ritenuta il luogo di culto più antico di Trieste. (Paolo Carbonaio)

Trieste – La Basilica di San Silvestro in Androna dei Grigioni

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Trieste - La Basilica di San Silvestro in Androna dei Grigioni. Foto Paolo Carbonaio

 

La basilica di San Silvestro, in stile romanico, fu costruita presumibilmente nella seconda metà del XII secolo per volere del vescovo Bernardo (1149-1187) in onore di papa Silvestro. Tuttavia la tradizione popolare, supportata da una lapide commemorativa del 1672 murata sulla parete postica dell’edificio, afferma che la chiesa sia sorta, nel 313 d.C., sull’area precedentemente occupata dall’abitazione delle martiri cristiane Tecla ed Eufemia, dove i primi cristiani triestini si sarebbero riuniti per assemblee clandestine. Nel 256 d.C., ai tempi delle persecuzioni cristiane, in quella antichissima casa nel corso dell’anno 256 d.C. vennero orrendamente torturate e decapitate le figlie di Epifania, vedova del senatore Demetrio: la dodicenne Tecla e la quattordicenne Eufemia. La loro storia fu scritta da Ginevra Bonomo, l’Abbadessa Eufrasia, conservata nell’Archivio Diplomatico.

Nel 1233, pare che il popolo fosse convocato nella basilica per accogliere gli ambasciatori veneziani. Nel XIV secolo la basilica fu la cattedrale di Trieste. Dalle memorie del canonico Matteo Camnich risulta che fu restaurata già nel 1332. La basilica fu più volte rimaneggiata, con l’apporto di elementi stilistici posteriori, ma il restauro a cui fu sottoposta nel 1927, sotto la direzione dell’architetto Ferdinando Forlati, la alleggerì da tutte le strutture barocche che si erano accumulate nel corso dei secoli, riportandola così alle sue linee romaniche originali.
Durante i lavori, furono scoperte e riportate alla luce due finestre a lato del campanile, risalenti a un periodo posteriore alla costruzione originale. Furono anche trovate tracce di affreschi che rappresentano l’imperatore Costantino che viene colpito dalla lebbra.
Nel 1785, sotto l’imperatore Giuseppe II, la chiesa fu posta a pubblico incanto e acquistata nel 1786 dalla comunità Evangelica Elvetica, che la ridusse al proprio rito e la dedicò a Cristo Salvatore.
Nel 1963, a seguito dei lavori di costruzione della scalinata di accesso da via del Teatro Romano, l’intera struttura basilicale ha subito grossi dissesti statici. Di conseguenza, la Soprintendenza ha promosso un restauro integrale ultimato nel 1967, che ha comportato il rifacimento delle fondazioni, la rimessa a piombo del colonnato interno e ha interessato anche le opere murarie di finitura. Ulteriori lavori di restauro e di manutenzione straordinaria sono stati eseguiti nel 1990.

La chiesa presenta una planimetria a forma di parallelogramma irregolare. Le facciate suggeriscono la strutturazione interna a tre navate, con una parte centrale più elevata e due laterali con i tetti a spiovente. La facciata principale, a Nord-Ovest, è caratterizzata da un rosone con raggiera ad archi a tutto sesto e da una porta d’ingresso aperta successivamente.
Sul lato Nord-Est si trova l’ingresso principale della chiesa, costituito da un protiro romanico in pietra bianca con due colonne su cui si imposta il campanile a pianta rettangolare. Il campanile, decorato da alcuni listelli e da una cornice in pietra bianca, termina con una cella campanaria traforata su ogni lato da una bifora.

Sul lato sinistro si trova l’ingresso principale, con un portico romanico su cui si erge il campanile. Secondo la tradizione, la torre campanaria era una torre medievale di difesa nelle mura cittadine, ricostruita con delle eleganti bifore. Al suo interno c’è una campana del 1785.
Sulla facciata anteriore: Il rosone romanico del XII secolo e la finestrella a transenna, un protiro bianco che sostiene il campanile.
La bifora sul campanile fu ricostruita nel restauro avvenuto nel 1927-1928, utilizzando un capitello a gruccia.
Sopra i pilastri del protiro, che sostengono il campanile, si vedono due protomi umani che sono elementi decorativi di origine ellenistica, utilizzati nella architettura romanica e poi anche nel periodo carolingio.

L’interno della basilica è diviso in tre navate da due file di tre colonne con capitelli cubici. Il soffitto delle navate è a capriate, mentre il soffitto sopra il presbiterio rialzato è costituito da una volta a crociera, con un agnello raffigurato al centro della volta. (Biblioteche Comune Trieste) – Dalla assimetria della chiesa dove il muro perimetrale che riguarda il campanile è ben più spesso del muro opposto, si può dedurre che questa parte è stata costruita addossata all’antica cinta muraria romana. Lo stesso campanile potrebbe avere origine da una torre di guardia.
All’interno della chiesa sono visibili sulle pareti dei frammenti di affreschi risalenti al 1300, con una scena relativa alla vita dell’imperatore Costantino dove è rappresentato con la lebbra, San Paolo Apostolo e una probabile Annunciazione.
Dietro all’altare è collocato un crocefisso in ferro battuto del 1700 e sul pavimento davanti all’altare si trova la tomba della famiglia Calò del 1585. La basilica di San Silvestro è ritenuta il luogo di culto più antico di Trieste.

Trieste – Il torrione alla base della scalinata della chiesa di Santa Maria Maggiore

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Trieste - Il torrione alla base della scalinata della chiesa di Santa Maria Maggiore
Alla base della scalinata della chiesa di Santa Maria Maggiore, si vede il torrione sul quale, un tempo facevano l’albero di Natale. Il torrione apparteneva alla cinta difensiva eretta tra fine IV e inizio V secolo d.C. Per la costruzione sono stati utilizzati anche materiali di recupero: si riconoscono blocchi lavorati appartenenti a monumenti funerari e forse al limitrofo Teatro Romano. (M. Tauceri)

Trieste – Porto Vecchio, i primi capannoni

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Porto Vecchio - I primi capannoni

Il Porto Vecchio d Trieste fu costruito per volontà dell’Impero Austro-ungarico tra il 1868 e il 1887 dopo una ampia fase progettuale che ebbe origine da un concorso bandito dal Governo di Vienna nel 1863.
Il Porto Vecchio copre un’area di circa 617.000 mq. Estendendosi dallo sbocco del Canale di Ponterosso all’abitato periferico di Barcola. L’area comprende 5 moli (0; I; II; III e IV), 3.100 metri di banchine, 23 grandi edifici tra hangar, magazzini ed altre strutture ed è protetto da una diga foranea. E’ altresì collegato con la vecchia ferrovia (1857). (Fonte: rete civica del Comune di Trieste)

Arco di Riccardo

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“L’arco di Riccardo” è uno dei più antichi monumenti della città risale al 33 a.C.; ci sono sempre state delle dispute sulle sue origini, su il suo nome e sulle sue funzioni. Nel 1910 il Comune acquistò i diritti delle aree circostanti, per ristrutturare l’arco e per liberarlo, per quanto era possibile, dalle case che gli erano addossate. Nel 1913 ebbero inizio gli scavi attorno all’arco sotto la direzione del prof. A. Puschi, direttore del civico Museo di Antichità e del dott. Pietro Sticotti, durante gli scavi vennero alla luce le mura della città dello spessore di due metri che andavano ad incontrarsi con l’arco, la cui parte laterale andava ad addentellarsi con le mura stesse, si suppose che nonostante il suo aspetto di arco trionfale, fosse stato una delle porte della città, ma vennero trovati anche una serie di muri e canali di scolo probabilmente legati al tempio della dea Cibele, (o “Magna Mater” madre di tutti gli dei) eretto in quella zona, questo portò a pensare che l’arco potesse essere l’ingresso del tempio stesso.
Diverse sono anche le interpretazioni fornite per spiegare l’etimologia del nome “Riccardo”: gli storici propendono per una deformazione popolare del termine “cardo maximus” ,nome di una delle principali strade romane, una leggenda popolare ritiene che il nome derivi da Riccardo Cuor di Leone, il quale, di ritorno dalla Terra Santa, fu tenuto prigioniero a Trieste, un’altra leggenda locale racconta che il nome, si riferisce a Carlo Magno, a cui l’arco sarebbe stato dedicato in occasione di un suo passaggio per la città.
Nei commenti del Gruppo gli scavi.  (M. Tauceri)
Foto collezione privata

Medaglia per la “Posa della prima pietra del tempio di S. Antonio Taumaturgo” 4 ottobre 1828

 


Medaglia per la "Posa della prima pietra del tempio di S. Antonio Taumaturgo" 

4 ottobre 1828

Medaglia per la "Posa della prima pietra del tempio di S. AntonioTaumaturgo"

Diritto: Veduta prospettica del nuovo tempio secondo il disegno dell’ architetto Pietro Nobile, con bassorilievi nel timpano e statue sotto il pronao, ornamenti che per economia non vennero mai eseguiti.

Medaglia per la "Posa della prima pietra del tempio di S. AntonioTaumaturgo"

 

Rovescio: Su sette righe: LAPIDE AVSPICALI RITE POSITO AN . M • DCCC • XXVI TERGESTE
Diametro : mm. 57
metalli: oro, argento, rame, rame dorato.

Esemplare della collezione Giulio Bernardi

Medaglia per l’Apertura del Lazzaretto nuovo, detto di Santa Teresa, 1769


 

Trieste, 1769 – Medaglia per l’Apertura del Lazzaretto nuovo“, detto di Santa Teresa.

 

Medaglia per l' " Apertura del Lazzaretto nuovo ", detto di Santa Teresa.

Diritto: Busti di Maria Teresa e di Giuseppe II, suo figlio, di profilo, affrontati. L' imperatore sta a sinistra, con la testa laureata, in abito militare, col Toson d'oro sul petto; alla destra l' imperatrice - regina, sua madre, con diadema sul capo e velata per vedovanza.
In alto, le scritte:
 IOSEPHVS . II . M. TRERESIA . AVGG.
 Sotto, in piccolo, il nome dell' incisore : A. WIDEMAN.

 

Medaglia per l' " Apertura del Lazzaretto nuovo ", detto di Santa Teresa.

 

Rovescio: Pianta topografica del nuovo lazzaretto col suo porto e tre bastimenti, di cui due entro lo stesso, delimitato da moli. In alto, la scritta :
SECVRITATI PVBLICAE ET COMERCIO
Nell' esergo :
POS. TERGEST. 31 IVLY
II . D . CCLXIX

Realizzata in : oro, argento, rame, stagno.

(Collezione Giulio Bernardi; la descrizione è tratta da "Medaglie Triestine coniate" di Antonio Ciana)

Trieste – La Civitas


La Civitas

Giulio Bernardi

Civitas, nella terminologia latina, è una società di uomini liberi, organizzata a difesa in un singolo agglomerato urbano e ricavante i mezzi di sussistenza dal breve contado circonvicino.
Nelle prime monete triestine si nomina soltanto il vescovo: TRIES E PISCOP, come ad Aquileia soltanto il patriarca : AQUILEGIA.P. 
L’uso del nome TRIESE, che, osservando bene la forma dell’ultima E, può essere letto TRIESTE, prima dell’adozione del latineggiante TERGESTVM, è documentato da queste antiche monete e forse da poche altre fonti. Secondo A. Tamaro il «Chronicum Venetum», che è del X o dell’XI secolo, porta la forma neolatina cioè italiana di TRIESTE, in una carta del 1106 si legge IN EPISCOPATO TRIESTINO, nell’anno 1115 compare il nome di persona TRIESTO e Santa Maria de TRIESTO è detta l’ «ecclesia maior» un atto del 1172.
In epoca romana il nome della città, come si legge nelle lapidi, fu sempre TERGESTE indeclinabile.
Nelle monete immediatamente successive alle prime, viene nominata anche la CIVITAS TRIESTE, parallelamente alla comparsa sulle monete patriarcali dell’iscrizione CIVITAS AQUILEGIA. Non succede così nella vicina Gorizia, dove il nome della città è legato solo al titolo del COMES e al nome di Lienz, né a Latisana, designata come PORTUM. A Lubiana il nome della città definisce invece i denari: LEIBACENSES DE, ma esistono anche esemplari con CIVITAS LEIBACVN. Venezia non è mai Civitas nelle sue monete: il nome della città è sempre predicato del titolo dogale.
La CIVITAS è ricordata dalle monete aquileiesi fino al 1256, cioè per l’ultima volta nelle monete di Gregorio con il titolo di Electus, prima della sua consacrazione episcopale. A Trieste, invece, l’uso continua ancora all’epoca del vescovo Ulvino de Portis (1282-1285), mentre non c’ è più nei denari di Rodolfo (1302-1320), che si fregia del titolo di TERGESTINUS, come AQUILEGENSIS si nomava il Patriarca fin dall’epoca di Raimondo (1273-1298). Quale significato ha il riconoscimento, contemporaneo alla corte patriarcale e nella curia triestina, dell’esistenza della rispettiva CIVITAS? Quale la permanenza di questo riconoscimento a Trieste più a lungo che in Aquileia? Innanzitutto è prova della stretta interdipendenza iniziale tra le due monetazioni, ma nel contempo mostra che Arlongo vescovo di Trieste dal 1254 al 1280 eredita, dal periodo di coniazione comunale, una regia monetaria più autonoma, meno strettamente legata alla patriarcale. In secondo luogo testimonia la considerazione del Patriarca e del Vescovo per l’insieme dei cittadini, dei quali è presupposto in tal modo il consenso, anche nell’iniziativa monetaria che pure era, come abbiamo visto, finalizzata anzitutto ali’ accrescimento delle risorse finanziarie del sovrano.
Qui occorre una nota di carattere filologico, che andrebbe sviluppata in altra sede. Con una frequenza tale da non permettere di pensare che sia frutto di errore, il nome di Trieste è scritto, sulle monete dei tempi più antichi: ATRIESE. Atria, da cui il mare Adriatico, è una parola che deriva da atrium, che significava in dialetto italico un luogo ove si spandevano le acque, cosicché ATRIA veniva ad indicare la città di fondazione tusca che si trovava alle foci del Po. ATRIESE potrebbe essere espressione del desiderio di legare il nome di Trieste al nome del mare Adriatico, producendo anche nell’etimo un’affermazione d’italianità d’origine che pare si sentisse necessaria già nel 1200.

I Podestà istriani


I Podestà istriani

 

Giulio Bernardi

 

Ad onta degli screzi, che spesso nascevano, l’esser sede vescovile era considerato un onore e un fattore di potenza. Infatti Capodistria, da due secoli priva di un proprio antistite e riunita alla diocesi di Trieste, impetrò nel 1186 il ripristinamento del suo vescovado, e lo dotò del reddito di cinquecento vigne e d’altri fondi rustici e con la decima dell’olio. In quest’occasione ci si presenta il primo podestà istriano, con tre consoli. Autonomia sufficiente a fare patti direttamente con Venezia era stata conquistata già nel 1150 da Cittanova, Rovigno, Parenzo, Umago e Pola, retta da una balìa di nobili.
Nel 1192 il regime podestarile e consolare appare anche a Pirano, indi lo ritroviamo a Pola (1199), mentre Parenzo ha ancora un gastaldo con tre rettori. 
Trieste continua ad avere gastaldi per tutto il secolo: il Ripaldo del 1139 ricompare dopo tredici anni, e un Vitale è gastaldo nel 1184 e figura di nuovo tra coloro che giurano fedeltà a Enrico Dandolo, a nome di Trieste nel 1202. E anche nel duecento si notano gastaldi, Mauro (1233 e 1237) ed Ernesto (1257). 

Trieste – Sigillo comunale del 1369


Trieste – Sigillo comunale del 1369

Giulio Bernardi

Disegno tratto dall'impronta del sigillo comunale del 1369 e dai due tipari conservati al Museo di Trieste.

Disegno tratto dall'impronta del sigillo comunale del 1369 e dai due tipari conservati al Museo di Trieste

 

Questo sigillo appare per la prima volta a stampa nell’ «Historia di Trieste» del Padre Ireneo della Croce del 1698 in quella forma che ci è stata tramandata nei due tipari conservati nei Civici Musei che (Kandler?) giudica «di fattura moderna».
Non ho mai trovato un documento antico con l’impronta di questi suggelli, tanto che dubito fossero mai stati usati dal Comune di Trieste in senso proprio. Forse si tratta di copie fatte per essere tramandate, all’epoca (1516) in cui il sigillo triestino fu ricreato, con lo stemma dell’alabarda in campo fasciato, sormontata dall’aquila bicipite.

Impronta del sigillo del Comune di Trieste su un documento del 1369

Impronta del sigillo del Comune di Trieste su un documento del 1369

 

Ho avuto occasione di vedere un’impronta dell’anno 1369 ma il sigillo è di fattura assai differente.

Trieste – Affermazione del Comune


Trieste – Affermazione del Comune

Giulio Bernardi


Precipuo carattere di rappresentante della «civitas», anzi già del «commune Tergestine civitatis», ha quel gastaldo di Trieste che incontriamo nel lòdo arbitrale pronunciato da Ditmaro, vescovo di Trieste, per la lite fra il comune di Trieste e Dieltamo (sic), signore di Duino nell’ anno 1139.
Tra le varie signorie formatesi dopo il mille in Istria e nella Carsia è notevole quella dei Duinati che dalla loro rocca dominavano la via litoranea. Molesta riusciva ai triestini quella rocca tedesca appollaiata come un falco e croniche furono le contese di confine. Il Comune e il signore di Duino, che si accusavano a vicenda di turbazioni di possesso, si accordarono infine di rivolgersi a Ditmaro. La città aveva quale procuratore il gastaldo Ripaldo, assistito da dodici «boni homines», i quali provarono con giuramento che tutte le terre dalla strada carreggiabile al mare, tra Sistiana e Longera, erano «possessio communitatis Tergestine civitatis». Le parti contendenti s’impegnarono a rispettare questa linea di confine, e il vescovo «posuit inter eos» la penale di cinque lire d’oro. In questo importantissimo lòdo ricorre per la prima volta il nome di «commune Tergestine civitatis». Szombathely richiama particolare attenzione sulla distinzione tra «civitas» e «commune». Questo appare come parte, avente una sua personalità, e investe di piena rappresentanza un suo procuratore: vanta diritto di proprietà sul territorio che è limitato dalla via pubblica tra Sistiana e Longera, e poi dalla catena dei monti Vena e dal mare. Non si tratta della zona di signoria del vescovo, ristretta a un cerchio di tre miglia di raggio, ma proprio dei beni dei cittadini. Il lòdo prova dunque che agli inizi del secolo XII i cittadini hanno già costituito l’associazione volontaria giurata, onde è nato e s’evolve il nuovo ente, e che questo ha ottenuto il riconoscimento, almeno tacito, del vescovo. Esso è ancora infante, ma già pieno di promettente vigore; e già si delinea preciso il territorio del futuro piccolo stato sovrano, in perfetta corrispondenza con la dicitura del suggello trecentesco: SISTILIANU PUBLICA CASTILIR MARE CERTOS DAT MICHI FINES.

Trieste – Locopositi e Gastaldi


Trieste – Locopositi e Gastaldi

Giulio Bernardi

In un documento del 933, Trieste è rappresentata da un «locoposito», forse designato o eletto dal vescovo. Primo tra gli «scabini» (rappresentanti della cittadinanza), egli forse corrisponde al primate che appare di questi tempi nelle città dalmatiche, però sembra prevalere in lui il carattere di primo rappresentante cittadino. Nel corso del secolo XI, il locoposito perde via via la sua importanza e il titolo si riduce a una qualificazione onorifica ed ereditaria. In sua vece spunta, nel secolo XII, il gastaldo che poco ha a che fare con il gastaldo longobardo o franco, ma invece sembra assumere anche nelle città istriane il posto di primo ufficiale, come magistrato elettivo, facente parte del collegio dei giudici, cioè delle supreme cariche cittadine perpetuanti quelle del municipio romano.
A Trieste il gastaldo, preposto dal vescovo signore della «civitas», riuniva in sé ai poteri amministrativi e giudiziari conferitigli dal vescovo, che egli esercitava in qualità di agente, anche la rappresentanza dei cittadini. A seconda della sua maggiore o minore potenza, la «civitas» designava al vescovo la persona dell’ eleggendo e talvolta addirittura forse lo imponeva.

Trieste – Gli inizi del Comune


Trieste – Gli inizi del Comune

Giulio Bernardi

Torniamo al diploma di Lotario del 948. Esso segna una data importantissima nella storia, purtroppo lacunosa e oscura, della «civitas» triestina dell’alto medioevo. In pericolo d’esser travolti dal feudalesimo montante che li avrebbe aggregati a potenti principi d’oltralpe, i triestini si strinsero al loro vescovo, da loro stessi eletto e salutarono certo con gioia il privilegio che sottraeva la custodia delle mura, l’esazione delle imposte e dei dazi, l’amministrazione civile e la giudiziaria ad altro signore.
La vecchia classe degli «honorati», detti poi «boni homines et idonei» continua ad esercitare modeste funzioni amministrative, in posizione subalterna, ad esprimere dal suo seno i giudici di prima istanza nel civile, conservando e tramandando tenace il ricordo dell’antico municipio e della sua curia, le consuetudini, il sentimento di solidarietà economica e sociale. L’autorità vescovile non dava loro fastidio, finché il presule era eletto per lo più tra di loro o quantomeno con il loro concorso, ed essi avevano gran parte nel Capitolo e nella curia dei vassalli episcopali, finché, insomma, gli interessi e le persone del pastore, del clero e della classe dominante furono quasi i medesimi.
Ma pare che già Ricolfo (1007-1017) provenisse direttamente dalla chiesa di Eichstaett in Baviera e fosse investito dall’Imperatore. Così i suoi successori Adalgero (1031-1072) e Eriberto (1080-1082). Certo nei secoli XI e XII sempre più i vescovi assunsero il carattere di vassalli diretti dell’Impero. Ne conseguiva la partecipazione a campagne militari e politiche lontane che, stremando in gigantesche competizioni le loro energie e i redditi della diocesi, senza soddisfazione alcuna della città, interessavano solo pochi membri della «curia vassallorum». Ciò avviene in sintonia con la storia del patriarcato di Aquileia, il cui soglio pervenne in mano a famiglie tedesche, legate alla grande politica imperiale germanica, rimanendovi fino all’ elezione del patriarca Gregorio (1251-1269).
Il dissidio tra il vescovo e la cittadinanza si delinea, si acuisce e prende forma.
Destreggiandosi abilmente, i cittadini ottengono via via privilegi e riconoscimenti alla loro collettività, che, in pieno feudalesimo, è ormai un ente di fatto, non tutelato dai pubblici poteri.
In quest’oscuro periodo, nel quale cade il tramonto d’un assetto antico e rimpianto sempre, si formano e si stringono i nuovi interessi e i nuovi vincoli, si foggia e si rassoda la «civitas» novella. E’ peraltro noto che il Comune italiano non fu mai in possesso di tutti gli elementi originari che formavano la sovranità, ma che si appagava di un certo numero più o meno esteso di diritti sovrani, i quali garantivano lo sviluppo di un’ampia autonomia, senza raggiungere l’indipendenza assoluta: la piena sovranità fu conquistata solo tardi, da pochi Comuni e quando già il diritto comunale era in decadenza.
A Trieste già nel X secolo dunque accanto al vescovo signore esisteva una collettività abbastanza forte per essere apprezzata quale cooperatrice e fiancheggiatrice, con voce autorevole nel capitolo e nella curia dei vassalli vescovili. Negli scarsissimi documenti dell’epoca sono menzionati di solito il vescovo, o un suo ufficiale, e i rappresentanti della città.  (G.B.)

Le Monete di Trieste

 

Le Monete di Trieste

Giulio Bernardi

 

 

La prima Moneta di Trieste

La “monetazione della zecca di Trieste” consta di 22 tipi monetali differenti, coniati tra la fine del dodicesimo e l’inizio del quattordicesimo secolo. Le coniazioni di Friesach, Aquileia, Venezia, le più prossime città che avevano attivi traffici nelle nostre terre, certamente bastavano a rifornire di numerario i nostri mercanti. La monetazione triestina si può quindi considerare, poco più che un’appendice della coeva monetazione dei patriarchi di Aquileia. Perché in questa città allora così piccola (4800 abitanti) si sentì il bisogno di fabbricare moneta propria? Inoltre, la gelosia con cui i vescovi di Trieste conservarono il loro diritto di zecca, il fatto che esso venisse esercitato (dal 1253 al 1257) dal Comune che lo deteneva in pegno, il prolungarsi nel tempo (fino all’inizio del Trecento) della continuità di emissioni, la grande quantità di pezzi emessi che si arguisce dalle numerose varianti di conio, sono elementi che concordano nel dimostrare che la monetazione triestina fu, in ambito locale, economicamente importante. In numerosi documenti dell’epoca troviamo la memoria che, anche dopo che Trieste ebbe moneta propria, qui le monete allogene continuarono a circolare insieme a questa e quasi tutti i ripostigli rinvenuti ne danno conferma. Nell’urna di San Servolo, riaperta in occasione della solenne ricognizione del 1986, sono state trovate monete duecentesche, ma nessuna di esse era triestina.

Trieste Medievale - Denari triestini pubblicati da Ludovico Muratori

Le emissioni monetarie di Aquileia, Trieste, Latisana e Lienz danno l’impressione di essere prodotte dalle stesse mani, certamente con le medesime tecniche. I rapporti politici tra i patriarchi di Aquileia e i vescovi di Trieste non inducono a pensare che, per questi ultimi, si trattasse di imitazioni non autorizzate o illegali. In questo senso certamente non danno spazio a congetture le analisi ponderali e qualitative delle serie parallele. La somiglianza dei tipi fu già osservata dagli studiosi del passato, anche se essi non ne trassero tutte le conseguenze. La fabbricazione delle monete, eseguita da artigiani specializzati riuniti in confraternite, era una cosa distinta dalla loro emissione, che veniva «preconizzata» cioè bandita a viva voce dal «praeconius» nelle pubbliche piazze, per conto dell’autorità. Ponendo attenzione sull’interazione di questi due momenti – fabbricazione ed emissione – ci accorgeremo che è molto probabile che le confraternite di zecchieri avessero una parte determinante nel promuovere le emissioni di monete, nello stesso modo che, oggi, una fabbrica di medaglie stimola i committenti a fare ordinativi per incrementare la sua produzione. Riguardo la monetazione duecentesca della zona che ci interessa, a nordest della Repubblica di Venezia, sappiamo (da documenti coevi e da quelli successivi che possiamo ritenere utili anche per il periodo che consideriamo, che essa non veniva gestita direttamente dall’autorità emittente, bensì era appaltata a confraternite di artigiani. Chi otteneva l’appalto corrispondeva al signore un utile percentuale. Ai fabbricanti venivano però tassativamente imposte le qualità intrinseche e anche quelle artistiche delle monete, sottoposte a regolari e rigorosi controlli. Tutti i problemi relativi all’approvvigionamento del metallo, alla manodopera, all’organizzazione della produzione erano a carico dei fabbricanti. L’autorità emittente ne traeva il vantaggio di poter usare numerario proprio e di avere un immediato controllo sul patrimonio liquido dei sudditi: ciò facilitava o meglio rendeva possibile l’esazione delle tasse. Un consistente vantaggio per il committente era la percentuale del coniato che i fabbricanti erano tenuti a versare al sovrano. Non indifferente era il beneficio legato al prestigio ed alla buona fama che potevano derivare da prodotti di qualità e di gradevole aspetto, adatti a tramandare nei secoli la memoria di un nome e di un sistema politico. Assai più immediato e capitale era l’interesse del fabbricatore, perché dalla decisione del sovrano di emettere monete dipendeva tutta la sua vita economica. È facile dunque immaginare quanto le confraternite di zecchieri si dessero da fare per convincere le massime gerarchie politiche della convenienza di emettere monete. Dove mancava o era debole la potenza economica e politica per imporle e diffonderle in ampie province, era necessario sopperire con la bontà del titolo e la bellezza e l’originalità del conio. È probabilmente questo il caso di Trieste. Il numero complessivo di monete triestine a me note è di poco superiore a 1600 (ho potuto averne le fotografie di 1457). Forse qualche centinaio di esemplari che la mia indagine non ha raggiunto sono ancora sparsi nel mondo. Il totale delle monete superstiti è probabilmente inferiore a duemila pezzi. Il numero dei coni identificati (237 d’incudine e 375 di martello) lascia supporre un volume di produzione complessivo di qualche milione di pezzi. E’ dunque sopravvissuto, dopo sette secoli, meno di un millesimo delle monete emesse. “Scritti sulle monete triestine”. Già nel Seicento gli storici si occuparono di monete medioevali triestine: il canonico Vincenzo Scussa (1620-1702), nella sua «Storia Cronografica di Trieste» del 1697 vi fa cenno. L’anno seguente il carmelitano scalzo Padre Ireneo della Croce (1625-1713), nella sua «Storia di Trieste», scrive di denari triestini, dandone perla prima volta riproduzione grafica. Nell’edizione del 1881, in cui l’opera di Ireneo della Croce venne pubblicata nella suainterezza, leggiamo ancora di denari triestini nel terzo volume. Ludovico Muratori nella sua ventisettesima dissertazione del 1739 (pag. 715-717nell’ edizione del 1774), riportata anche dall’ Argelati (I pag. 95-96) descrive nove denari triestini. Il Padre F. Bernardus M. de Rubeis nella sua prima dissertazione «de Nummis Patriarcharum Aquileiensium» (Venezia 1747, anche in Argelati 1750) pubblica a pag. 101 e sulla tavola 5 un denaro di Volrico (VM), con la nota che si trattava di soldo da dodici piccoli. Giangiuseppe Liruti di Villafredda nella sua dissertazione «Della moneta propria, e forastiera ch’ebbe corso nel Ducato di Friuli dalla decadenza dell’Imperio Romano sino al secoloXV», pubblicata a Venezia nel 1749, e l’anno dopo nel II volume dell’Argelati, dedica il capitolo XXIII (pag. 189) alla Moneta di Trieste.

Nella zecca, i coni della zecca triestina, come quelli di Aquileia, appaiono fabbricati da due categorie di operai: i maestri e gli allievi. I primi si distinguono per esattezza di tutti i particolari, per la particolare grazia e armonia del disegno, per la gradevolezza e la nitidezza dei contorni. I secondi danno l’impressione di minore esattezza, di opera maldestra e frettolosa. Le differenze sono tuttavia assai ridotte perché ambedue le categorie di artisti adoperano, nel fabbricare i coni, gli stessi punzoni che, in certi casi (denaro di Arlongo con Tempio e Santo AT) non si limitano a singoli particolari, ma comprendono intere figure. La somiglianza di ogni particolare con le parallele monete patriarcali conferma la fabbricazione dei coni delle due zecche dalle stesse mani. Come più tardi codificato da Cellini, nella zecca si preferiva fare ricorso, per fabbricare i coni, a punzoni della massima esattezza, piuttosto che al cesello. Si rendevano in questo modo particolarmente difficili le imitazioni, perché a monte della fabbricazione dei coni occorreva tutta un’attrezzatura professionale, sorretta da grande esperienza specifica. Nessun conio fu rimpiazzato finché era ancora integro e adoperabile. Quando, per l’uso, era diventato inutilizzabile, veniva distrutto e sostituito. (G.B.)

Sciopero dei fuochisti, febbraio 1902 – I funerali

 


Sciopero dei fuochisti, febbraio 1902

I funerali a seguito dello sciopero dei fuochisti, febbraio 1902

Una brutta pagina di storia di Trieste. Nella foto i funerali degli operai uccisi durante lo sciopero febbraio 1902.
Il lavoro del fuochista oltre che molto faticoso era estremamente pericoloso, gli operai chiedevano delle nuove norme di lavoro e di abrogare quelle nate all’epoca Teresiana.
Dopo mesi di tensione fra la direzione del Lloyd ed i fuochisti, questi ultimi, agli inizi del 1902 scesero in sciopero, a questi via via si aggiunsero altri che sbarcavano dai piroscafi in arrivo, ben presto si trasformò in uno sciopero generale cittadino. Ne derivò una progressiva paralisi portuale. La direzione del Lloyd Austriaco, in un primo tempo tentò di sostituire gli scioperanti con altri lavoratori, ma lo schieramento dei fuochisti e di tutta la classe operaia triestina era estremamente unito. Il 15 febbraio 1902, dopo una dichiarazione di disponibilità alla trattativa da parte del Lloyd, che aveva verificato come risultasse impossibile rompere il fronte dei lavoratori, si svolse un grandioso comizio al Politema Rossetti, organizzato dal Partito Socialista al quale parteciparono Carlo Ucekar e Valentino Pittoni, e in rappresentanza dei fuochisti in sciopero, Ferdinando Castro Ucekar.
Concluso il comizio, il corteo scese lungo l’Acquedotto e giù per Corso Italia (allora Contrada del Corso) sino a raggiungere Piazza Grande sotto al palazzo del Lloyd. Mentre la manifestazione si svolgeva tranquillamente, in Piazza della Borsa la polizia, agli ordini di de Conrad von Hoetzendorf, caricò i dimostranti alla baionetta pare su ordine del luogotenente del Litorale von Goess ed aprì successivamente il fuoco. I manifestanti in fuga verso piazza Verdi vennero accolti a fucilate. Alla fine degli incidenti rimasero a terra quattordici morti e più di una cinquantina di feriti.
Alla fine della giornata si diffuse in città la notizia che il giudizio degli arbitri scelti dal Lloyd e dagli scioperanti, aveva accolto in pieno le richieste dei fuochisti: pagamento dello straordinario, orario di lavoro di dieci ore durante la permanenza nei porti e di otto ore durante la navigazione, drastica riduzione dei turni di guardia notturna durante le soste dei piroscafi nel porto. L’accordo venne siglato alcuni giorni dopo. Le tragiche giornate triestine furono seguite da grandi manifestazioni di solidarietà da parte operaia e socialista a Vienna, Praga, Trento, Pola. Pola. Il governo parlò di una congiura “anarchica”, anche se mancano elementi oggettivi che provino tale tesi ufficiale. Nei giorni successivi la polizia diede a Trieste una caccia spietata agli anarchici, forte anche del fatto che un militante anarchico aveva preso la parola durante il comizio al Politeama Rossetti inneggiando allo sciopero generale quale prima tappa sulla via della insurrezione generale. (M. Tauceri)
Foto collezione Sergio Sergas.

Trieste a lutto per la morte di re Umberto I a Monza il 29 luglio 1900

 


Trieste a lutto per la morte di re Umberto I a Monza il 29 luglio 1900

Trieste a lutto per la morte di re Umberto I a Monza il 29 luglio 1900

Veli neri ricoprirono tutto il giorno la fontana del Mazzoleni “Giovanin di Ponterosso”, che in questa foto è irriconoscibile, gli stessi drappi si videro sulle finestre di molti edifici, furono ricoperte con tessuti neri anche le colonne della chiesa di Sant’Antonio, dove si tenne la messa a suffragio alla presenza di autorità austriache e consoli esteri.
Due righe sul giorno della morte del re.
Umberto Rainerio Carlo Emanuele Giovanni Maria Ferdinando Eugenio di Savoia ( Torino, 14 marzo 1844 – Monza, 29 luglio 1900) fu Re d’Italia dal 1878 al 1900. Figlio di Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia, e di Maria Adelaide d’Austria, regina del Regno di Sardegna, morta nel 1855. Le sue azioni e condotte politiche gli costarono diversi attentati prima di quello fatale. Il 29 luglio Umberto I fu invitato a Monza per onorare con la sua presenza la cerimonia di chiusura del concorso ginnico organizzato dalla società sportiva Forti e Liberi; egli non era tenuto a presenziare, ma fu convinto dalla circostanza per cui al saggio sarebbero state presenti le squadre di Trento e Trieste, atleti ai quali, stringendo le mani, disse: “Sono lieto di trovarmi tra italiani” (frase che scatenò un uragano di applausi). Sebbene fosse solito indossare una cotta di maglia protettiva sotto la camicia, a causa del gran caldo, e contrariamente ai consigli degli attendenti alla sicurezza, quel giorno Umberto non la indossò. Tra la folla si trovava anche l’attentatore,Gaetano Bresci, un anarchico toscano emigrato negli Stati Uniti, con in tasca una rivoltella a cinque colpi. Alla sera mentre il sovrano stava raggiungendo la sua carrozza, Bresci gli sparò alcuni colpi uccidendolo. L’attentatore processato fu condannato all’ergastolo. (M. Tauceri)
Foto collezione Sergio Sergas

Trieste Medievale – Monetazione della zecca di Trieste – Tavola di denari triestini pubblicata da Bonomo


Tavola di denari triestini pubblicata da Bonomo

Tavola di denari triestini pubblicata da Bonomo

La ” monetazione della zecca di Trieste ” consta di 22 tipi monetali differenti, coniati tra la fine del dodicesimo e l’inizio del quattordicesimo secolo.

Le coniazioni di Friesach, Aquileia, Venezia, le più prossime città che avevano attivi traffici nelle nostre terre, certamente bastavano a rifornire di numerario i nostri mercanti. La monetazione triestina si può quindi considerare, poco più che un’ appendice della coeva monetazione dei patriarchi di Aquileia.

Bibliografia:

Giulio Bernardi – Il Duecento a Trieste, Le Monete. Giulio Bernardi Editore, 1995.

Trieste Medievale – Denari triestini pubblicati da Ludovico Muratori


Trieste Medievale - Denari triestini pubblicati da Ludovico Muratori

Denari triestini pubblicati da Ludovico Muratori

La ” monetazione della zecca di Trieste ” consta di 22 tipi monetali differenti, coniati tra la fine del dodicesimo e l’inizio del quattordicesimo secolo.

Le coniazioni di Friesach, Aquileia, Venezia, le più prossime città che avevano attivi traffici nelle nostre terre, certamente bastavano a rifornire di numerario i nostri mercanti. La monetazione triestina si può quindi considerare, poco più che un’ appendice della coeva monetazione dei patriarchi di Aquileia.

Bibliografia:

Giulio Bernardi – Il Duecento a Trieste, Le Monete. Giulio Bernardi Editore, 1995.

Trieste Medievale – Disegno tratto dall’impronta del sigillo comunale del 1369 e dai due tipari conservati al Museo di Trieste.


Disegno tratto dall'impronta del sigillo comunale del 1369 e dai due tipari conservati al Museo di Trieste.

Disegno tratto dall’impronta del sigillo comunale del 1369 e dai due tipari conservati al Museo di Trieste.

La ” monetazione della zecca di Trieste ” consta di 22 tipi monetali differenti, coniati tra la fine del dodicesimo e l’inizio del quattordicesimo secolo.

Le coniazioni di Friesach, Aquileia, Venezia, le più prossime città che avevano attivi traffici nelle nostre terre, certamente bastavano a rifornire di numerario i nostri mercanti. La monetazione triestina si può quindi considerare, poco più che un’ appendice della coeva monetazione dei patriarchi di Aquileia.

Bibliografia:

Giulio Bernardi – Il Duecento a Trieste, Le Monete. Giulio Bernardi Editore, 1995.

Trieste Medievale – Impronta del sigillo del Comune di Trieste su un documento del 1369


Impronta del sigillo del Comune di Trieste su un documento del 1369

Impronta del sigillo del Comune di Trieste su un documento del 1369

La ” monetazione della zecca di Trieste ” consta di 22 tipi monetali differenti, coniati tra la fine del dodicesimo e l’inizio del quattordicesimo secolo.

Le coniazioni di Friesach, Aquileia, Venezia, le più prossime città che avevano attivi traffici nelle nostre terre, certamente bastavano a rifornire di numerario i nostri mercanti. La monetazione triestina si può quindi considerare, poco più che un’ appendice della coeva monetazione dei patriarchi di Aquileia.

Bibliografia:

Giulio Bernardi – Il Duecento a Trieste, Le Monete. Giulio Bernardi Editore, 1995.

Trieste Medievale – Impronta del sigillo di Volrico negli Archivi Vaticani


Trieste Medievale - Impronta del sigillo di Volrico negli Archivi Vaticani

Impronta del sigillo di Volrico negli Archivi Vaticani

La ” monetazione della zecca di Trieste ” consta di 22 tipi monetali differenti, coniati tra la fine del dodicesimo e l’inizio del quattordicesimo secolo.

Le coniazioni di Friesach, Aquileia, Venezia, le più prossime città che avevano attivi traffici nelle nostre terre, certamente bastavano a rifornire di numerario i nostri mercanti. La monetazione triestina si può quindi considerare, poco più che un’ appendice della coeva monetazione dei patriarchi di Aquileia.

Bibliografia:

Giulio Bernardi – Il Duecento a Trieste, Le Monete. Giulio Bernardi Editore, 1995.

Trieste – Sigillo di Volrico pubblicato da Bonomo


Sigillo di Volrico pubblicato da Bonomo

Sigillo di Volrico pubblicato da Bonomo

 

 

 

La ” monetazione della zecca di Trieste ” consta di 22 tipi monetali differenti, coniati tra la fine del dodicesimo e l’inizio del quattordicesimo secolo.

Le coniazioni di Friesach, Aquileia, Venezia, le più prossime città che avevano attivi traffici nelle nostre terre, certamente bastavano a rifornire di numerario i nostri mercanti. La monetazione triestina si può quindi considerare, poco più che un’ appendice della coeva monetazione dei patriarchi di Aquileia.

Bibliografia:

Giulio Bernardi – Il Duecento a Trieste, Le Monete. Giulio Bernardi Editore, 1995.

Denari triestini pubblicati da Ireneo della Croce


Denari triestini pubblicati da Ireneo della Croce

Denari triestini pubblicati da Ireneo della Croce


Nel 1698, il carmelitano scalzo Padre Ireneo della Croce (1625-1713), al secolo Giovanni Maria Manarutta, nella sua «Storia di Trieste», scrive di denari triestini, dandone per la prima volta riproduzione grafica. A pag. 94 sono riprodotti 6 denari (LT, AT, L, T, AL, AC, C), a pag. 95 altri 3 (GA, VA, AS) a pag. 646 ancora 3 (T, AT e ancora una volta il T, in una trasfigurazione fantasiosa). In tutto 9 tipi differenti.

La ” monetazione della zecca di Trieste ” consta di 22 tipi monetali differenti, coniati tra la fine del dodicesimo e l’inizio del quattordicesimo secolo.

Le coniazioni di Friesach, Aquileia, Venezia, le più prossime città che avevano attivi traffici nelle nostre terre, certamente bastavano a rifornire di numerario i nostri mercanti. La monetazione triestina si può quindi considerare, poco più che un’ appendice della coeva monetazione dei patriarchi di Aquileia.

Bibliografia:

Giulio Bernardi – Il Duecento a Trieste, Le Monete. Giulio Bernardi Editore, 1995.

Monetazione della zecca di Trieste – La prima moneta di Trieste


La prima Moneta di Trieste

La prima moneta di Trieste


Questa moneta anonima ricalca il tipo di Aquileia attribuito a Pellegrino II, del 1195. Vescovo di Trieste era allora Wolcango, eletto nel 1190, confermato il 1° giugno 1192 da papa Celestino III, riconfermato il 23 giugno 1192 dal patriarca Gotifredo, morto infine il 26 maggio 1199.

Dritto: Vescovo seduto di fronte con pastorale nella destra e libro chiuso nella sinistra. La sua mitra ha un corno a sinistra. Iscrizione: +TRIES.E PISCOPi
Rovescio: Tempio a cinque colonne, contorno perlinato. 
Pesi tra 1.08 e 1.29 grammi 
Collezione Giulio Bernardi.La " monetazione della zecca di Trieste " consta di 22 tipi monetali differenti, coniati tra la fine del dodicesimo e l'inizio del quattordicesimo secolo.

Le coniazioni di Friesach, Aquileia, Venezia, le più prossime città che avevano attivi traffici nelle nostre terre, certamente bastavano a rifornire di numerario i nostri mercanti. La monetazione triestina si può quindi considerare, poco più che un’ appendice della coeva monetazione dei patriarchi di Aquileia.

Bibliografia:

Giulio Bernardi – Il Duecento a Trieste, Le Monete. Giulio Bernardi Editore, 1995.

La monetazione della zecca di Trieste


 

Le monete di Trieste

Confronto tra un denaro aquileiese e uno triestino (Bonomo)

 

La ” monetazione della zecca di Trieste ” consta di 22 tipi monetali differenti, coniati tra la fine del dodicesimo e l’inizio del quattordicesimo secolo.

Le coniazioni di Friesach, Aquileia, Venezia, le più prossime città che avevano attivi traffici nelle nostre terre, certamente bastavano a rifornire di numerario i nostri mercanti. La monetazione triestina si può quindi considerare, poco più che un’ appendice della coeva monetazione dei patriarchi di Aquileia.

 

Bibliografia:

Giulio Bernardi – Il Duecento a Trieste, Le Monete. Giulio Bernardi Editore, 1995.

Trieste 1900 – Viaggio inaugurale del primo tram elettrico


Trieste, ottobre 1900, primo tram elettrico

Ottobre 1900: viaggio inaugurale del primo tram elettrico, sulla linea Portici di Chiozza-Barcola

Il Novecento si apre in uno scenario socio-culturale caratterizzato da costanti cambiamenti, causati dal vorticoso e sorprendente sviluppo della scienza, della tecnologia e della società industriale. Un mondo tramonta, con i suoi riti e tradizioni, travolto dal progresso, e ben presto il modo di vivere delle persone cambierà radicalmente. Il telefono, l’automobile, il cinema, da poco comparsi assieme alla più grande innovazione di tutti i tempi, l’elettricità, si diffonderanno a macchia d’olio in ogni città. Trieste non sarà di meno, accogliendo con prontezza ed entusiasmo ogni novità. Nell’ Ottocento Trieste era stata tra le prime ad avere i tram a cavalli su rotaia, e nell’anno 1900 inaugurò la linea di tram elettrico Portici di Chiozza-Barcola.

Trieste nell’Ottocento – Alessandra Doratti


Trieste nell’Ottocento – Alessandra Doratti

 

Nel primo Ottocento la città conta ormai 65.000 abitanti, compresi i 5.000 contadini che gravitano nei dintorni e che giornalmente si riversano in città per vendere verdure, frutta e ortaggi e per procacciarsi il sostentamento quotidiano. Alcuni sono piccoli proprietari terrieri, altri affittuari o semplicemente braccianti delle campagne e sono chiamati con il nome generico di mandrieri. Essi si distinguono per il pittoresco costume che portano (i giovani formano un corpo militare speciale detto Milizia Territoriale) con la giubba corta e bordata di vario colore, grossi bottoni di metallo, calzettoni bianchi e scarpe con fibbia. Hanno il moschetto ed il loro ornamento più bello è un capello in feltro a larga tesa alla guisa dei Lanzichenecchi.

Nei sobborghi cerimonie fastose

Anche le donne del contado si presentano piacevolmente con la testa avvolta di bianco, come le donne della Carniola, però al posto dell’usuale cuffia imbottita si sostituisce un leggero fazzoletto. Le maniche della camicia sono di fine lana bianca e le calzature sono degli stivaletti di pelle nera fortemente chiodati sia nella suola che nel tacco. La gente è abbastanza alta, con un bel volto e, a differenza di come si parla in città, usa il dialetto sloveno.


Molto pittoresche nella campagna sono le cerimonie nuziali: già parecchi giorni prima delle nozze viene mobilitato l’intero vicinato dai paraninfi (coloro che con bastoni fioriti e nastri bussano alle porte di amici e parenti per partecipare l’invito a nozze). La sposa in abito nuziale fa il giro delle case dei parenti già due giorni prima: essa ha il corpetto scuro o rosso, le maniche e il copricapo bianchi e finemente ricamati e la gonna ricca di nastri, infine una corona di fiori e nastri intrecciati. La musica e i banchetti accompagnano sempre i matrimoni e così anche i doni in denaro che vengono messi durante la cerimonia in un dolce a ciambella detto buzzolà. Anche i più poveri festeggiano l’evento con banchetti meno ricchi, ma nei quali il vino non manca mai. In città le spose usano coprire il capo con un velo bianco e i viaggi di nozze non sono ancora molto di moda. Nel 1833 un panorama della città mostra il borgo teresiano ormai completato: esso ha inizio nella contrada del Canal Piccolo e prosegue per piazza della Borsa e lungo la contrada del Corso fino a piazza della Legna (ora piazza Goldoni).

 
Nasce il centro moderno

Da qui i confini si spiegano lungo il torrente che scorre a cielo aperto, proveniente dalla Stranga vecchia (piazza Garibaldi), attraversato da sette ponti e che giunge fino alla caserma. Qui una contrada fiancheggia il canale che, dopo un tratto coperto, si riapre nell’attuale via Ghega. Due dei ponti principali sono uno sulla contrada della Wauxhall (via Roma) e l’altro sulla contrada del Ponte Nuovo (via Trento).
Sorge una casa pubblica di beneficenza (Pio Istituto dei Poveri) e dalla piazza del Macello si dà inizio alla contrada del Lazzaretto nuovo che prosegue fino al torrente Roiano. La strada è fiancheggiata da un porticato aperto verso il mare dove vi è la corderia Bozzini. Lo strano nome della contrada Wauxhall deriva da un caffè concerto fondato nel 1786 in via Ghega, nella casa fronteggiante la contrada che porta questo nome. La contrada della Jeppa (Geppa) si forma là dove il corso d’acqua delle saline è ormai scomparso. In via Galatti sorge la contrada della Pesa e nel centro dell’odierna piazza Vittorio Veneto vi è una fontana che funge da abbeveratoio per quadrupedi. La Posta è sistemata nella contrada della Caserma (via XXX Ottobre), ma prima si trovava all’imbocco del Canal Grande; perciò esiste ora anche una riva delle Poste (via Rossini). Dietro alla Dogana si apre il quartiere Panfili e tra di loro c’è un grande spazio detto contrada dei Carradori (via Trento). La contrada della Dogana sormonta il Canal Grande e arriva fino al Corso passando per Ponterosso, mentre via Filzi è denominata contrada per Vienna.
Le vie longitudinali sono: la contrada del Balderin (via Valdirivo), la contrada di Carinzia (via Torrebianca), la contrada dei Forni (via Macchiavelli), la contrada del Canal Grande (via Cassa di Risparmio), la lunga contrada Nuova (via Mazzini) che va da piazza della Legna al mare, e la contrada S. Nicolò. In corrispondenza della contrada di Vienna ha inizio la nuova strada commerciale. In fondo al canale, nel 1849 verrà consacrata la nuova chiesa di S. Antonio Taumaturgo, patrono del borgo teresiano. In contrada S. Spiridione sorge la chiesa degli Illirici (serbo-ortodossi). Il campanile di destra dà nome alla contrada del Campanile, ora via Genova alta, che manterrà tale nome anche quando si procederà alla demolizione dell’opera per difetti fondazionali.

Ponterosso come la Concorde

Nella piazza Ponterosso sorge una fontana a tre bocche, è alimentata dall’acquedotto teresiano. La riva Carciotti prende il nome dal palazzo omonimo, opera prestigiosa del triestino Matteo Pertsch. Più in là il tempio greco-ortodosso costruito nel 1786 ed abbellito poi nel 1819 sempre da Pertsch in forme classiche. La contrada laterale era detta dei Bottai per le numerose botteghe dei bottai, che dopo la costruzione della chiesa si chiamerà S. Nicolò.
Sta sorgendo inoltre il nuovo borgo franceschino tra la contrada del Corono e quella del Molin Grande che corre al fianco del ruscello proveniente da S. Giovanni. La parte superiore è tagliata dalla contrada del Ronco, mentre sulla contrada del Coroneo è stato allestito un nuovo pubblico lavatoio e un orto botanico.
Sulla passeggiata dell’Acquedotto (viale XX Settembre) nuovi edifici sorgono nel borgo Chiozza e nella via Chiozza (via Crispi), terreno donato al Comune da Carlo Luigi Chiozza, genovese che aveva un saponificio nei pressi del Ponterosso. Parallele alla spina centrale della contrada Chiozza corrono le contrade del Farneto (via Ginnastica) e quella del Boschetto (via Slataper), al di là vi è l’aperta campagna e il terreno della famiglia Conti sul quale nel 1833 sorgerà l’ospedale Maggiore, progettato da Domenico Corti. Il borgo Maurizio si estende dalla contrada del Tintore (via Tarabocchia) a quella del Solitario (via Foschiatti), che raccoglie diverse piccole industrie: dalla fabbrica della maiolica, alla concia dei pellami, e alla fonderia. Anche la zona della Stranga Vecchia si va arricchendo di numerosi edifici.
Intorno al Mandracchio ci sono il nuovo teatro comunale e la Borsa, il palazzo governatoriale, residenza dal 1776 del primo governatore di Trieste, il conte Zinzendorf.
La piazza Grande è ora più larga con la porta sul Mandracchio, attraverso la quale i triestini nelle afose sere estive vanno a prendere il fresco sul lungomare. Sulla piazza dello Squero vecchio, dove sorgeva la Confraternita di S. Nicolò è stato trasferito il mercato del pesce che durerà sino al 1878, e poi si sposterà tra la via della Stazione e la riva del Sale, fintantoché nel 1913 verrà eretto l’attuale edificio a forma di chiesa detto S. Maria del Guato. Una doppia fila di belle ed eleganti case è sorta anche in piazza Giuseppina (piazza Venezia), molto alte e massicce intervallate dalla contrada della Sanità Nuova (via Cadorna). La riva del Lazzaretto vecchio (via Diaz) prosegue verso lo stabilimento contumaciale.

In periferia ancora contrasti

Le zone periferiche di Chiarbola sono ampiamente coltivate a vigneti, frutteti, giardini e orti; vi è qualche grossa villa padronale e alcune case rurali. Tra i monumenti più notevoli vi è la villa di Campo Marzio, meglio conosciuta con il nome di Villa Murat, per essere passata in possesso alla vedova del re di Napoli. La villa venne demolita ai giorni nostri per dar spazio ad una pileria di riso che venne poi abbandonata e bruciata. Un’altra famosa villa è quella di Giovanni Risnich nell’attuale piazza Carlo Alberto, demolita per far spazio alla via Franca.
L’edificio di Anna Voinovich sta sul primo passeggio di S. Andrea e guarda dall’alto della costa la spiaggia sottostante. La stupenda costruzione dell’architetto francese Champion è la villa di Girolamo Bonaparte (villa Necker). Sul colle, alla fine della contrada della Sanza sta la Villa Economo, abbellita da quattro colonne e un timpano. Sotto la Sanza di S. Vito le ville Budigna e de Dolcetti.
È questa la zona dove i ricchi vanno a villeggiare e i poveri coltivano gli orti e i vigneti che si allineano floridi nei dintorni.

Lo sviluppo urbanistico di Trieste tra Sette e Ottocento – Alessandra Doratti


Lo sviluppo urbanistico di Trieste tra Sette e Ottocento – Alessandra Doratti

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All’inizio del XVIII secolo, ammesso che si possa osservarla dall’alto, la città si presenta sotto forma di cuore, con la punta rivolta verso la cattedrale di S. Giusto. Tutta racchiusa, come una noce, nelle forti e possenti mura grigie e turrite; con in alto il castello, vano spauracchio dei turchi e con il mare che le fa da specchio. Di sotto il porticciolo interno, costruito nel 1620 dal goriziano Giacomo Vintana e difeso dal molo della Bandiera; nell’interno vi è un pullulare di barche con lunghe antenne svettanti tra l’intrico del sartiame. Dopo il tramonto, quando vengono chiuse le porte della città, una robustissima catena viene tesa tra i due moli (quello della Bandiera e quello a gomito).
Nella parte bassa tra il Mandracchio e la porta di Riborgo, si stende la plaga delle saline. Il principale collettore è il Canal Grande, o Maestro, che riceve l’acqua dal torrente S. Pelagio il quale scende dalla sorgente di S. Giovanni, anticamente sfruttata dai romani e che si congiunge al torrente delle Sexfontanis. Altra fonte d’acqua dolce indispensabile, alimenta il torrente di Colonia che si incanala nella Valdirif (Valdirivo) e che muove l’unica ruota del Mulino piccolo, ingrossato dalla fonte di S. Nicoforo, già detta della Zonta. Altra acqua ancora scorre giù da Romagna e s’incanala nel fossato detto della Jepa.
Il Canale del Vino o Canal Piccolo, dove si inoltrano le imbarcazioni da carico, taglia l’ultimo tratto delle saline all’esterno delle mura di Malcanton e si spinge dentro la città attraverso la Portizza. Dunque il commercio del vino si sviluppa nella Piazza Piccola, non lontano dalla chiesa della Madonna del Rosario. Un ponte sul canale assicura il passaggio lungo il pomerio interno alle mura.
Davanti al Mandracchio si apre la porta della torre del porto, detta anche dell’Orologio. Sotto l’arcata della torre un cesendolo illumina una pala della Beata Vergine con i Santi Giusto e Sergio, che sarà sostituita un secolo più tardi con un’altra immagine venerata della Madonna, detta Madonna del porto. Qui, ogni sera, dopo il colpo di cannone che metteva fine alla giornata di lavoro, i marinai pregano e recitano il rosario tutti riuniti.
Due automi di bronzo segnano i quarti e le ore dell’Orologio, che ha due quadranti uno interno alla piazza e l’ altro esterno, sul porticciolo. Il popolino ha dato loro un nome – Michez e Jachez – che durerà nel tempo e forse trae origine dal ricordo di due severi giudici che nel Medioevo facevano leggere al banditore le loro terribili sentenze a suono di campana. Sul molo Bandiera si erige maestosa la torre della Beccheria, dall’altra parte invece domina la torre Fradella.
Dunque le torri del porto sono tre. La cortina prosegue lungo la spiaggia dove ha sede lo squero della Confraternita di S. Nicolò dei Marinai, dal quale prenderà nome la prossima torre. La pescheria, che prima si trovava sulla riva del Mandracchio, si è spostata verso Cavana da dove l’accesso è facilitato. Oltre ancora troviamo il Fortino, un’ opera di difesa posta al gomito delle mura che da qui salgono verso la porta di Cavana dove si trova un ponte levatoio. La spiaggia è bassa e frastagliata e riceve le acque del Fontanone; la zona si presta al ricovero delle barche. Si costruiscono dei bacini coperti da canne di paglia che vengono denominati cavane.
Nei pressi del Fontanone, alimentato dall’acquedotto romano, vi è un grosso bastione e più in su il Barbacane o porta di S. Michele. Salendo la valle di S. Michele, dove vi è una strada, giungiamo alle mura del castello, dove non ci sono più porte ad eccezione di alcune segrete di sortita per l’uscita eventuale di pattuglie in caso d’assedio.
Dall’altro lato della città abbiamo varie porte ben difese dopo la porta del Vino o Portizza, vi è quella delle Saline, quella di Riborgo protetta da due torri e dal ponte levatoio con le statue protettrici di S. Filippo e di S. Giacomo. Più in alto un’importante porta s’ innalza: è quella di Donota. Poi c’è la torre–scudo detta Cucherna (di tutte la sola superstite che possiamo ancora vedere) alla quale venivano appiccati i traditori della patria. Tra questa e il castello si erge un’ulteriore torre detta delle Monache, proprio perché nel 1369 le Benedettine possedevano una vasta proprietà sotto il castello e lì vi era il loro convento. Le mura sono ancora quelle restaurate nel 1511 dopo il terribile terremoto giunto dal Friuli che fece crollare anche le torri del porto.

Fuori dalle mura, la vasta campagna sparse di casupole è coltivata a orti, vigneti e frutteti e a monte delle saline vi è una strada che parte da Contovello e porta verso il Friuli e la Carinzia passando sopra il torrente Roiano. Fuori dalla porta di Riborgo invece la confraternita di S. Nicolò dei Marinai è patrocinata dal Comune che riconosce benefici ai marinai inabili, vedove e orfani. S. Nicolò e la sua proprietà finiscono nella strada che porta a S. Giovanni dove vi è l’ospedale dei lebbrosi, che poi scomparirà per fare posto alla piazza Carlo Goldoni.
Lungo la strada per Lubiana ci sono le concerie gestite dagli ebrei e la chiesetta di S. Apollinare con il piccolo cimitero che raccoglie i defunti di campagna. Il cimitero israelitico invece si trova oltre la porta di Donota, dove il monte sale verso il castello. Di là dal castello vi sono chiese e cappelle ricordate poi nei toponimi di piazze e vie successivamente sorte. La riva di sinistra è denominata strada di S. Pelagio dalla chiesetta romanica posta alle sorgenti del corso d’acqua nella valle di S. Giovanni, che è tuttora esistente.
Interessante è la zona fuori dalla porta Cavana e la località dei Santissimi Martiri, dove si adagiano alcune piccole imbarcazioni di pescatori ed il convento dei padri cappuccini con la chiesa di S. Apollinare, demolita nel 1787. Di fronte all’ odierno palazzo Vicco, sede della curia vescovile, vi è la chiesa dell’Annunziata e l’ospedale delle donne. A monte la chiesa della Madonna del Mare con la torre e l’antichissimo cimitero dove si vuole sia stato sepolto S. Giusto. Importante è anche la chiesa della Beata Vergine del Soccorso, che il popolo chiama S. Antonio Vecchio nell’odierna piazza Hortis, dove allora sorgeva il chiostro del convento e subito dietro il cimitero. La chiesa era sede della confraternita delle Tredise Casade, ossia le famiglie patrizie triestine chiamate anche con vena canzonatoria dal popolo Confraternita del Moccolo, poiché i patrizi accompagnavano il Santissimo nelle processioni solenni con una lunga cappa purpurea, lo spadino e il cero in mano. Infine sulla destra dell’attuale via Torino, isolato nella campagna sorge il convento di S. Giusto con l’ospedale per i pellegrini, amministrato dai frati della Misericordia di S. Giovanni di Dio. Al tempo sei sono le chiese, due gli ospedali e tre i cimiteri che caratterizzano la zona fuori porta Cavana; lontana ed isolata sulla spiaggia dell’altro versante vi è la chiesa di S. Andrea, già esistente nel XII secolo e restaurata poi nel ‘600. Nel 1735 l’ edificio sarà circondato da un cimitero durante la guerra di secessione polacca, quando molti soldati moriranno nel lazzaretto di S. Carlo. Trieste, attraverso le stampe documenta lo sviluppo urbanistico della città dagli inizi del Settecento alla fine dell’Ottocento, sulla scorta di un importante lavoro di ricerche e di archivio. L’itinerario lungo due secoli ha visto l’antico borgo di pescatori assurgere a dignità di emporio e di unico sbocco sul mare dell’impero austroungarico. Da un’immagine di città rinchiusa gelosamente nella cinta muraria (quindi nelle sue istituzioni, nelle sue chiese, nella sua vita sociale), per poi documentare con ricchezza ed esattezza il grande sconvolgimento politico ed economico prodotto da Carlo VI con la concessione del portofranco (1719). Alla crescita economica si accompagna inevitabilmente il calo dell’autonomia, sicché Maria Teresa incontra non pochi ostacoli da parte del patriziato nel suo lungimirante disegno di “fondere il vecchio e il nuovo”.

Trieste nel Settecento – Alessandra Doratti


Trieste nel Settecento – Alessandra Doratti

 

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     La città nel 1731, dopo il primo vero censimento effettuato, conta 4.144 abitanti, compresi 108 ebrei e 301 forestieri residenti a Trieste.

L’aspetto politico e sociale della città è ancora legato alla tradizione di un passato municipalistico. Gli statuti del 1550 dureranno con progressivi mutamenti e limitazioni fino al 1812.
Sono sempre le Casade che eleggono i giudici ed i rettori che rappresentano la massima autorità politica della città; nominano i vicedomini, scelgono il giudice del maleficio (penale) e quello del civile, provenienti sempre da città più grandi nelle quali vi sono centri di studi giuridici; nominano i camerati (ragionieri del comune) e il fonti-caro al quale è affidato l’approvvigionamento del grano. Solamente la nomina del capitano è affidata all’autorità imperiale.
La legge degli Statuti è molto pesante, sia per reati di assassinio, furto o rapina che per i reati più comuni.
L’attività economica si basa principalmente sulla produzione e il commercio del sale, che viene poi trasportato nell’interno, nonostante la concorrenza dei veneti e dei muggesani, che a volte fa scoppiare aspre contese (specie per il possesso della salina di Zaule).
Le campagne intorno sono tutte coltivate a orti, vigneti, frutteti e oliveti; questi prodotti vengono tutti consumati in città.
La carne di maggior consumo è quella di maiale poiché il manzo è riservato ai ceti più abbienti ed è molto più costoso. Prosperosa è la pesca.
I cittadini depositano spesso il letame sulla pubblica via e questo dà luogo a numerose e ricorrenti malattie infettive (vaiolo e colera).
La lotta tra il potere imperiale e la libertà civica comincia paradossalmente nel momento in cui l’Austria dà avvio a quella profonda trasformazione economica che porterà a livelli di emporio internazionale.

La dedizione di Trieste all’Austria


La dedizione di Trieste all’Austria

La dedizione all’Austria del 1382 avviene a un anno di distanza da un’altra “dedizione” che Trieste aveva dovuto giurare, nel 1381, al Patriarca di Aquileia a seguito della pace di Torino del 24 agosto.

Quella all’Austria si concretizzò a Graz, in Stiria, il 30 di settembre, inviati i rappresentanti di Trieste Andelmo Petazzi, Antonio di Domenico e Nicolò di Pica, al cospetto del duca Leopoldo III d’Asburgo. Dell’atto si conserva un diploma presso la Cancelleria austriaca da cui si evince che si trattò di una richiesta triestina, accolta dal duca quale difensore della città, dei suoi castelli e del suo distretto, in cambio di “placida oboedientia”, ovvero l’accettazione di sudditanza.
Rodolfo I, originario della Svizzera, nel Sec. XIII si era portato nell’Oesterreich e nella Stiria, dove nel 1335, i suoi discendenti avevano esteso i loro possessi alla Carinzia e alla Carniola. Nel 1350 Alberto II duca d’Austria aveva tentato di spingersi a sud, fino alla Carnia, a Gemona a Venzone, ma era stato costretto a ripiegare. Nel 1366 Ugo VI di Duino, fino allora vassallo del Patriarca, era passato al più potente duca d’Austria; e quest’ultimo, in questo modo, era di fatto divenuto confinante con Trieste.
Nel 1374 gli Asburgo ricevettero per successione i possedimenti di Alberto IV conte di Gorizia. A questo punto Trieste si trovò accerchiata dagli austriaci e, tradizionalmente avversa a Venezia, con un Patriarcato indebolito dalle lotte interne delle città friulane. Nel 1369, quando Trieste venne assediata dai veneziani e stava per capitolare, aveva chiesto aiuto a Leopoldo III, ricevendolo contro una piena e formale “dedizione”, motivata anche da un inesistente diritto ereditario asburgico.  Quando nello scontro furono i veneziani ad avere la meglio, Leopoldo concluse con essi la pace rinunciando ad ogni suo diritto su Trieste e ricevette dalla Serenissima 75.000 fiorini d’oro.
Nel 1386, a Leopoldo III succedette Alberto IV.
Con l’Atto di Dedizione, Trieste manterrà una completa autonomia di governo con il potere legislativo e un Capitano (succeduto poi dal Podestà), e non verrà aggregata a nessuna delle provincie austriache, ma non deve venir meno al giuramento di fedeltà ecclesiastico prestato al Patriarca d’Aquileia.

I rapporti di Trieste con Venezia


I rapporti di Trieste con Venezia

I rapporti fra Trieste e la Serenissima, fin dai primi decenni del X secolo, furono conflittuali, a causa dell’egemonia che quest’ultima esercitava per terra e per mare, non consentendo a Trieste una propria autonomia commerciale. Venezia aveva il suo territorio e i suoi confini sull’Adriatico, e in esso agiva con forte politica, onde controllare le rotte, imponeva le sue regole e i suoi dazi. Un tributo navale che le città istriane pagavano anche a difesa delle incursioni e dalle scorribande dei pirati. Queste regole, Trieste le contravveniva per necessità e per sistema. Ragioni commerciali rendevano  intenso il contatto tra le due città, ma Trieste era sfavorita rispetto a Capodistria, da quando Venezia, nel 932  ne aveva fatto di  il maggior porto delle sue rotte. La città di Trieste, nel X secolo, troppo piccola per una sua autonomia, riconobbe l’autorità del Sacro Romano Impero, rappresentato in essa dal vescovo, ma dovette accettare anche quella di Venezia. Nella prima metà del X secolo, pur avendo potere politico proprio sul suo territorio, la città era legata a due autorità.

Trieste potrà spingersi sull’Adriatico solamente quando l’Austria gliene darà la possibilità e i mezzi, nel sec. XVIII, con una Venezia ormai avviata verso il declino dopo l’avvento dei Turchi nel Mediterraneo, e per il mutare delle rotte commerciali a seguito delle nuove scoperte geografiche.

Bibliografia:

Nelli Elena Vanzan Marchini, Venezia e Trieste sulle rotte della ricchezza e della paura. Cierre Edizioni, 2016

Trieste medievale – Dino Cafagna


Qual era la composizione urbanistica della Trieste medievale?

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Modello della città di Trieste

C’è un affresco dell’abside di San Giusto che raffigura il Santo con il modello della città di Trieste in mano. Questo modello rappresenta in assoluto la prima raffigurazione di Trieste. Infatti la più importante testimonianza iconografica tramandataci, nonché la prima e quindi la più antica raffigurazione di Trieste, è quella fornita da un affresco della cattedrale di S. Giusto. Databile attorno al 1370, è attribuito al Secondo Maestro di San Giusto e rappresenta il Santo Patrono con in mano il modellino della città circondata da possenti mura merlate. Tale rappresentazione faceva parte di un ciclo di affreschi, che in origine ornavano l’abside della navata di San Giusto, ricoprendo un analogo ciclo duecentesco (fatto quindi dal Primo Maestro di San Giusto). Questi furono strappati e collocati poi su pannello nella cappella di San Giovanni (o Battistero), dove oggi sono custoditi e visibili.

Pur essendo un modellino e nonostante la prospettiva molto approssimativa, che dava maggior risalto agli edifici principali senza badare alle reali proporzioni, l’autore dimostra alla fine una particolare cura al dettaglio. Sono, infatti, ben riconoscibili in alto: gli stipiti del portone di entrata di S. Giusto con la stele della famiglia romana dei Barbi, il rosone della facciata, gli archetti rampanti sotto le falde del tetto, l’edicola del campanile con la statua di S. Giusto, la chiesa di San Michele al Carnale (1328) con l’entrata alla cripta, il Monastero delle Monache della Cella (1265), il Palatium episcopatus o vescovado (1187), il campanile con il tetto appuntito, ecc. Il tutto corrisponde a una descrizione urbanistica ancora valida ai giorni nostri.
In questo dipinto le antiche mura di Trieste sono dotate di torri (qui son disegnate dodici), bastioni e porte, e racchiudono la città all’interno di uno spazio triangolare con vertice in cima al colle e base al mare. L’affresco ci tramanda anche l’aspetto strutturale delle mura: la gran parte delle torri, escluse quelle con complessi fortificati sopra le porte, vengono rappresentate come “scudate”, cioè chiuse solo da tre lati. La cortina interna è aperta, mentre i cammini di ronda, costruiti in pietra, poggiano su archi di sostegno o contrafforti interni ampi e molto solidi, con la merlatura guelfa a proteggere il camminamento e i ballatoi.
La presenza di torri quadrate scudate, cioè aperte all’interno, rappresentava allora il modo più semplice ed elementare per la costruzione di una torre, facile da costruire ma soprattutto ricostruire in caso di assedio nemico. Infatti, in caso di parziale distruzione, per esempio dopo un bombardamento da parte delle catapulte nemiche, diventava facile ricostruirla, con il favore dell’oscurità della notte, utilizzando le pietre d’arenaria anche delle vicine case distrutte, dando così la precedenza alla ricostruzione delle mura e delle torri che rappresentavano in assoluto la prima e più importante difesa civica. Al contrario la presenza di una torre cilindrica avrebbe reso molto problematica, per ovvi motivi strutturali, la ricostruzione rapida della torre. La mancanza poi della parte interna di queste torri, oltre che rendere per ovvi motivi ancora più facile la ricostruzione del manufatto, permetteva anche di scoprire subito il nemico che eventualmente fosse riuscito a scavalcare le mura e si fosse installato in una torre; avvistato facilmente, sarebbe stato subito catturato.

 

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Le tre Torri del Porto e il Palazzo Comunale

L’artista dimostra un’attitudine così realistica da far considerare questa rappresentazione della città un documento iconografico unico e molto attendibile. Infatti, anche se gli edifici della parte inferiore dell’affresco non esistono più, il particolare realismo, dimostrato nella parte superiore, ci permette di considerare praticamente certo il racconto visivo riguardante le tre Torri del Porto e il Palazzo Comunale. Ovviamente non è disegnato il castello di S. Giusto, la cui costruzione inizierà appena nel 1470.

Il fronte del porto – lato mare – venne infatti munito di un poderoso sistema difensivo. In un tratto così breve s’innalzavano ben tre possenti torri fortificate, la cui funzione era prevalentemente quella di difesa di una zona particolarmente vitale per l’economia cittadina: il porto. Esse, inoltre, rappresentavano un colpo d’occhio di grande effetto per chi giungeva in città via mare.

Esse erano:

  • a sinistra: la Torre della Beccheria;
  • quella di mezzo o centrale: Torre del Porto o torre del Mandracchio, con l’apertura a mare;
  • a destra: la torre Fradella o della Confraternita.

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Sigillo Trecentesco di Trieste

 

Per la potenza, l’importanza e la notorietà, le tre torri vennero utilizzate, come immagine stilizzata, assieme all’alabarda, quale Simbolo (oggi si direbbe “logo”) della città stessa: il Sigillo Trecentesco di Trieste.
Infatti nel sigillo trecentesco della città sono rappresentate, in forma “stilizzata”, le tre torri con porta (Beccheria-Porto-Fradella). La Torre del Porto appare più alta delle altre due, i merli sono alla guelfa, le porte chiuse. Il disegno ai lati della torre di due alabarde vuole rafforzare il significato simbolico del sigillo.

Dietro alle tre torri del porto s’intravede il primo palazzo duecentesco del municipio o del comune (palacium comunis), nato dall’emancipazione della città dal dominio vescovile iniziata nel 1252 e completata, con la cessione al Comune di tutti i diritti sulla città, nel 1295 (Kandler, Storia del Consiglio). In quell’anno la città sentì pressante il desiderio di avere un proprio Palazzo Comunale e di reggersi da sé con propri Statuti.
La sua struttura la conosciamo proprio dall’affresco trecentesco nella cattedrale dì S. Giusto; sappiamo che venne costruito in due tempi, tant’è che in documenti antichi si trovano citati un palazzo “vecchio” e un palazzo “nuovo”, a sottolinearne la diversa epoca di costruzione. L’edificio a sinistra della torre, infatti, rappresenta la parte vecchia, duecentesca, del palazzo, cioè costruito attorno al 1250, di stile romanico, con monofore ad arco a tutto sesto, cioè finestre a semicerchio a una sola apertura di luce; in quello di destra, più nuovo, finito all’inizio del ‘300, si caratterizza per le eleganti bifore gotiche, ad arco acuto.
Nel 1295, appena acquistata la piena autonomia, fu alzata al fianco del primo edificio una torre, autoritario simbolo del Libero Comune di Trieste, con un orologio, una loggia e la campana dell’“arrengo” che serviva a richiamare i patrizi alle riunioni del Consiglio comunale. In seguito vennero aggiunte anche due figure bronzee che scandivano le ore e che furono soprannominati del popolo, per il loro colore, “i Mori di piazza”.

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Il Palazzo Comunale

Il palazzo sorto su un terreno rubato al mare da progressivi interramenti, aveva la facciata principale rivolta verso l’interno, sulla Piazza Grande.
Era dotato di porticato e logge date in affitto dal Comune (del resto come si fa ancora oggi) per ospitare le botteghe di panettieri e merciai. La demolizione del primo palazzo comunale avvenne nel 1375, quando i veneziani intrapresero la costruzione del castello Amarina, costruito allora nell’area compresa tra il Palazzo Comunale e le mura con le tre torri del porto.

Guardando l’attuale palazzo comunale, più familiarmente chiamato “Municipio”, costruito nel 1875 dall’arch. G. Bruni, colpisce la rassomiglianza che si è voluto mantenere col primo Palazzo Comunale: la presenza di due corpi architettonici ai lati di una torre centrale, la presenza di una loggia, l’orologio e le campane con i due Mori. In pieno irredentismo tale scelta voleva, ricordando il primitivo palazzo comunale e il Libero Comune, ricordare in particolare quel periodo di libertà, autonomia, indipendenza, temi da sempre molto cari ai triestini.

Il Duecento a Trieste – Giulio Bernardi


Il Duecento a Trieste – Giulio Bernardi


La storia di Trieste nel Duecento risente naturalmente della sua posizione geografica. Affacciata sull’Adriatico essa è oppressa alle spalle dal dilagare di marchesi, baroni e castellani tedeschi. Essi si disseminano sul Carso devastato dai Magiari, spingendo due tentacoli sul mare, l’uno al castello di San Servolo (a oriente oltre Zaule), l’altro a quello di Duino. Trieste è baluardo di italianità in un nuovo mondo estraneo, esotico ed eterogeneo che si forma alle spalle della città isolata. E’ un baluardo che vuole però mantenere la sua indipendenza da Venezia, che sempre più l’accerchia risalendo le coste adriatiche. Cerca così l’appoggio del Patriarca, cui è legata per il vincolo di vassallaggio del suo Vescovo.
Patriarcato e parlamento friulano, come l’episcopato e il comune triestino sono realtà politiche ed economiche italiane nel XIII secolo unite e assimilate nella lotta per mantenere la propria integrità territoriale e culturale, difendendosi da tedeschi e ungheresi a nordest, dai veneziani a sudovest.
Attorno al 1400 entrambe perderanno molto della loro identità: Trieste aggregata all’Austria nel 1382, il Patriarcato conquistato dei veneziani nel 1420. I secoli di dominazione successiva tenderanno, anche per cosciente proposito dei dominatori, a far cadere in oblio e a cancellare le tracce della complessa, tenace, a volte gloriosa vitalità civile di queste due organizzazioni statali del Duecento italiano ai confini nord-orientali. Il loro destino si diversificò poiché il Friuli venne assorbito, si fuse e divenne parte integrante di un suo remoto rampollo, lo Stato veneziano. Trieste invece continuò, in modo nuovo ma con immutato vigore, la sua più che mai solitaria battaglia per mantenere integrità culturale, lingua italiana, autonomia comunale, immediato e indipendente rapporto con il Sovrano.

Trieste – Gli eventi in ordine cronologico – Giulio Bernardi


Trieste – Gli eventi in ordine cronologico – Giulio Bernardi


Rapporti con Venezia, con le città istriane e con il Patriarca di Aquileia.


Riassumo in un elenco cronologico i principali avvenimenti, inserendovi una tavola sinottica dei vescovi (TS ), dei patriarchi (°AQ°), dei conti di Gorizia (-GO-), dei dogi veneziani (:VE:), dei papi(+RO+) e dei re e imperatori (*IM*).

902      Diploma di Berengario – Bonomo documento I
948      Diploma di Lotario – Kandler.
1040    Conferma di Enrico III – Bonomo documento II
1050    Donazione al vescovo Erberto – Bonomo documento III
-GO- 1090-1149 Mainardo I e Engelberto I
1115    Donazione al vescovo Hartuico – Bonomo documento IV
:VE: 1130-1148 Pietro Polani doge 36°
°AQ° 1132-1161 Pellegrino I von Sponheim
TS 1135-1145 Detemaro
1139    Concordio per la definizione di confini – Bonomo documento V
1142    Conferma al vescovo Detmaro – Bonomo documento VI
*IM* 1144-1152 Corrado III di Svevia
+RO+ 1145-1153 Eugenio III Bernardino Pagnanelli
1145    Capodistriani e Isolani prestano al Doge solenne giuramento di «fidelitas».

Nel dicembre dello stesso anno i Polesi prestano analogo giuramento.
:VE: 1148-1156 Domenico Morosini doge 37°
1148-1152   Patti di sottomissione a Venezia di alcune città istriane.

Guerra tra il vescovo di Trieste Wernardo e le città istriane per le decime dovutegli e rifiutategli da Muggia,
Capodistria, Isola, Pirano e Umago.
1149     Conferma al vescovo Wernardo – Bonomo documento VII
TS 1149-1186 Vernardo.
-GO- 1149-1187 Enrico I e Engelberto II
1150     Il doge Morosini si fregia , nel patto di fedeltà di Parenzo, del titolo «totius Istriae inclitus dominator».
*IM* 1152-1190 Federico I Barbarossa
+RO+ 1153-1154 Anastasio IV

+RO+ 1154-1159 Adriano VI Nicola Breakspeare
:VE: 1156-1572 Vitale II Michiel doge 38°
+RO+ 1159-1181 Alessandro III Rolando Baldinelli o Brandinelli
°AQ° 1161-1182 Ulrich II von Treffen
:VE: 1172-1178 Sebastiano Ziani doge 39°
:VE: 1178-1192 Orio Malipiero doge 40°
+RO+ 1181-1185 Lucio III Ubaldo Allucingoli

°AQ° 1182-1194 Gotifredo
+RO+ 1185-1187 Urbano III Umberto Crivelli
+RO+ 1187-1188 Gregorio VIII Alberto de Morra

TS 1187 Enrico Odorico da Treviso
TS 1187-1190 Liutoldo da Duino
-GO- 1187-1220 Mainardo II e Engelberto III
+RO+ 1188-1191 Clemente III Paolo Scolari
1190     Trieste promette sottomissione a Venezia, ma non
TS 1190-1199 Volscalco
*IM* 1191-1197 Arrigo VI
+RO+ 1191-1198 Celestino III Giacomo Boboni-Orsini
:VE: 1192-1205 Enrico Dandolo doge 41 °
1194-1202   Creazione del Grosso Veneziano.
°AQ° 1195-1204 Pellegrino II von Dornberg
*IM* 1198-1218 Ottone IV di Brunswick
+RO+ 1198-1216 Innocenzo III Lotario dei Conti di Segni
TS 1199-1201 Enrico pretendente
TS 1199-1212 Gebardo
1202     I triestini, temendo più grave punizione, mandano a Pirano una commissione per invitare il doge Enrico Dandolo a Trieste. Il doge ivi si trovava con una flotta poderosa di navi, vascelli e galee e moltitudine di militi e fanti pronto a salpare per quella IV crociata che porterà alla fondazione dell’Impero Latino e della supremazia veneziana in Levante. A
Trieste lo accolgono con grandi onori e gli giurano fedeltà.
°AQ° 1204-1218 Wolfker von Erla
:VE: 1205-1229 Pietro Ziani doge 42°
1209     Infeudazione (dieta di Augusta) dell’Istria al patriarca di Aquileia.

1210     Patti tra il patriarca Volchero e il Comune di Pirano.
TS 1213-1230 Corrado Tarsot da Cividale
+RO+ 1216-1227 Onorio III Cencio Savelli
°AQ° 1218-1251 Berthold von Andechs
*IM* 1220-1250 Federico II di Svevia
-GO- 1220-1258 Mainardo III e Alberto I
1220-1230     Tra le diverse città costiere dell’Istria si stringe una vera lega, l’ «universitas Histriae» con a capo un veneziano, Tommaso Zeno
1223     Arbitrato tra Comune e Ugo di Duino – Bonomo documento VIII
+RO+ 1227-1241 Gregorio IX Ugolino dei Conti di Segni
:VE: 1229-1249 Jacopo Tiepolo doge 43 °
TS 1231-1233 Leonardo
TS 1233-1254 Volrico de Portis da Cividale
TS 1233-1238 Giovanni, nominato dall’Imperatore
1223     Patti tra Venezia e Trieste
1238     A conclusione di lunga ribellione, pace tra Patriarca e Capodistria che gli si sottomette, salvi i diritti acquisiti dai veneziani sul porto.

+RO+ 1241 Celestino IV Goffredo Castiglioni
1241     Conversione di due pranzi in somma di denari – Bonomo documento IX
1242     Pola ribelle ai veneziani viene messa a ferro e fuoco. Sconfitta, subisce l’anno seguente umiliante pace a Rialto.

+RO+ 1243-1254 Innocenzo IV Sinibaldo Fieschi
:VE: 1249-1253 Marino Morosini doge 44°
*IM* 1250-1254 Corrado IV
°AQ° 1251-1269 Gregorio di Montelongo
:VE: 1253-1268 Ranieri Zeno doge 45°
1253     Vendita di privilegi al Comune – Bonomo documento X
+RO+ 1254-1261 Alessandro IV Rainaldo dei Conti di Segni
TS 1254-1281 Arlongo da Voitsberg
1254     Trieste ha un podestà veneziano. Guerra tra Capodistria e Trieste, Venezia interviene e fa da mediatrice.
TS 1255 Guarnerio da Cuccagna da Cividale
-GO- 1258-1304 Mainardo IV e Alberto II
+RO+ 1261-1264 Urbano IV Giacomo Pantaleon
1264     Valle si dà ai veneziani, il Patriarca la recupera.
+RO+ 1265-1268 Clemente IV Guido di Folquois
1266     Rovigno si dà ai veneziani, per breve.” 7
1267     Montona si dà ai veneziani, per breve. Capodistria muove contro Parenzo per assoggettarla, Patriarca Gregorio di Montelongo catturato dalle masnade del conte di Gorizia e imprigionato. Si rafforza grandemente il potere del Conte di Gorizia in Istria. Intimorita, Parenzo, prima tra le città istriane, si dà ai veneziani definitivamente e passa sotto la sua signoria.
*IM* 1268 Corradino di Svevia
:VE: 1268-1275 Lorenzo Tiepolo doge 46°
1268     L’Istria tumultua. Capodistria piglia e distrugge il castello di Montecavo, assalta Castelvenere e Rovigno. I veneziani intervengono, pigliano Montecavo e lo restaurano, pigliano Capodistria.
1269-1273     Anarchia e crisi gravissima del Patriarcato di Aquileia, dopo la morte di Gregorioe prima dell’ elezione di Raimondo della Torre. L’ influenza veneziana in Istria si rafforza per il timore dei liberi comuni di cadere nelle mani dei conti goriziani.
1269     Umago si dà ai veneziani.
1270     Cittanova si dà ai veneziani.
+RO+  1271-1276 Gregorio X Tebaldo Visconti
1271      San Lorenzo si dà ai veneziani.
*IM*     1273-1291 Rodolfo I (IV) d’Asburgo
°AQ°     1273-1298 Raimondo della Torre
1273     Capodistria si dà ai veneziani, senza effetto.1 24
1274     Guerra in Istria fra Patriarca e veneziani; scissure fra Patriarca e conte Alberto d’Istria; pace e concordanza. Capodistria e Trieste si ribellano ai veneziani.
:VE: 1275-1280 Jacopo Contarini doge 47°

1275     Patriarca Raimondo e conte Alberto riconciliati si collegano contro Capodistria. 126
+RO+ 1276 Innocenzo V Pietro di Champigny
+RO+ 1276 Adriano V Ottobono Fieschi
+RO+ 1276-1277 Giovanni XX detto XXI Pier Giuliani
1276     Le città istriane ad istigazione dei veneziani tentennano contro il Patriarca, Montona riconosce il Patriarca, Pola lo ripudia, il Patriarca tenta inutilmente di prender Pola. 127
+RO+ 1277-1280 Niccolò III Gian Gaetano Orsini
1277     Novelle rotture fra Patriarca e conte Alberto e novella pace. Patriarca Raimondo prepara spedizione nell’Istria tumultuante, per le nomine di Podestà che vuol far da sé.
1278     Lega tra Patriarca e conte Alberto per sottomettere l’Istria patriarchina. Breve guerra, il Patriarca trasporta la sua corte in Albona e Pietrapelosa. Capodistria ostile al Patriarca, si collega col conte Alberto, collegata cogli Isolani tenta pigliare Parenzo. Capodistria sceglie a podestà il conte Alberto, che si collega al Patriarca, fa pace coi veneziani, abbandona Capodistria che fa da sé. Il Conte recupera Capodistria, assalta San Lorenzo, Parenzo e Montona. I veneziani assaltano e pigliano Capodistria, atterrano le mura da Porta San Martino a Porta Bossedraga, costruiscono il Castel Leone. Montona si dà ai veneziani.
1279     Patriarca Raimondo assalta Pirano, viene a componimento. I veneziani vengono all’ assalto di Trieste, il Patriarca la soccorre. L’ Istria vuol darsi ai veneziani, conte Alberto restituisce a questi San Lorenzo (per breve) e fa pace.
:VE: 1280-1289 Giovanni Dandolo doge 48°
1280 Guerra fra Patriarca e veneziani per l’Istria.
+RO+ 1281-1285 Martino II detto IV Simone de Brie o Mompiti
TS 1281-1285 Ulvino de Portis
1282     Scomunica del Patriarca contro gli usurpatori delle terre patriarchine. Isola e San Lorenzo si dànno ai veneziani. Discordie tra Patriarca e conte Alberto, composte da Mainardo di Gorizia e da Gherardo da Camino. I veneziani assaltano Trieste. Pace tra veneziani, Patriarca, Conte d’Istria e Trieste.
1282     Trieste consegna al vescovo Ulvino il castello di Montecavo, il Vescovo promette di consegnarlo al Capitolo.
1283     Pirano si dà ai veneziani. Patriarca Raimondo fa lega con il Conte d’Istria, con Trieste e Muggia, coi padovani, coi trevisani contro i veneziani. Il Conte d’Istria capitano generale.
Capodistria presa. Trieste presa dai veneziani, fa pace umiliante, atterra le mura verso mare, dà ostaggi, paga i danni e consegna le macchine di guerra per venire abbruciate sulla piazza di San Marco. Rovigno si dà a Venezia. La «guerra Triesti» (Vergottini pag. 122 nota 27) continuerà fino al 1291, con un’interruzione 1285-87.

1284     I veneziani pigliano l’isola alla foce del Timavo che era bocca del porto, costruiscono fortilizio cogli avanzi di antica lanterna, ne cangiano il nome da Belguardo in Belforte.
1284     (31 ottobre). Creazione del Ducato d’oro veneziano.
TS 1285 Giacomo da Cividale, non confermato
TS 1285-1299 Brissa di Toppo
1285     Il Patriarca, i veneziani, il Conte d’Istria e Trieste fanno pace, che non dura, ed è causa di nuove questioni.
1286     Nuove trattative di pace. Compromesso in giudici arbitri.

1287     Istriani e triestini si ribellano ai veneziani, ritornano al Patriarca. I veneziani ripigliano Capodistria. L’esercito del Patriarca muove verso Trieste, poi verso Capodistria, e verso Montecavo che è preso; manca di viveri, retrocede. I veneziani ripigliano l’offesa, pigliano Montecavo, battono i patriarchini. Trieste resiste all’assedio dei veneti. Muggia presa (29 maggio).
+RO+ 1288-1292 Niccolò IV Girolamo Masci
1288     Muggia presa dai veneziani, si dedica a loro, ripudiando il Patriarca. Papa Nicolò IV esorta
i veneziani a non molestare il Patriarca per le sue ragioni in Istria.
:VE: 1289-1311 Pietro Gradenigo doge 49°
1289 Il Patriarca torna a tentare la sorte delle armi, in colleganza al Conte d’Istria, raduna in Monfalcone 50.000 pedoni e 5.000 cavalli, e viene all’impresa del forte di Romagna, da cui i veneziani assediano Trieste. Il Conte abbandona il Patriarca, il Patriarca si ritira. Torna all’assalto, i veneziani sono costretti ad abbandonare il castello loro, Trieste è liberata. Tregua fra Patriarca, triestini e veneziani. Compromesso mediato da papa Nicolò IV. Trattative.
1290     Altre trattative, cui partecipa il Conte d’Istria. Nuove rotture, i veneziani sono battuti dal
Patriarca, dal Conte d’Istria e dai triestini, capitanati dal Conte d’Istria.
1291     (11 novembre, Treviso) pace tra veneziani da una parte e Patriarca Raimondo, conte Alberto «et comune et homines Tergesti» dall’altra, sotto l’arbitrato e la promessa mediazione, remunerata in caso di lite, di papa Nicolò IV. I veneziani dànno una prima base giuridica globalmente a tutte le loro occupazioni istriane. Trieste si emancipa, ed istituisce Consiglio di 180 a reggere il Comune; viene a lei restituito Montecavo per darlo ai Vescovi.
1291     Enrico, conte di Gorizia podestà a Trieste.
*IM* 1292-1298 Adolfo di Nassau
+RO+ 1294 Celestino V Pietro da Morone
+RO+ 1294-1303 Bonifacio VIII Benedetto Caetani
1295     Concessione di diritti al Comune – Bonomo documento XII
1295     Il Comune di Trieste acquista temporaneamente durante la vita del vescovo Brissa di Toppo «officium gastaldionis, cruentam et lividam et regalia».
1295     Concessione del Castello di Moccò al Comune – Bonomo documento XI
1295     Bolla di conferma di diritti sul vino – Bonomo documento XIII
1296     Scambio di decime tra Muggia e San Canziano – Bonomo documento XIV
1296-1307 Tentativi del Patriarca di ottenere dal Papa, giusta gli accordi di Treviso, sentenze arbitrali per salvaguardare i suoi diritti in Istria.
*IM* 1298-1308 Alberto I d’Asburgo
°AQ° 1299-1301 Pietro Gera degli Egizi
TS 1299-1300 Giovanni della Torre
TS 1300-1302 Enrico Rapicio
°AQ° 1302-1315 Ottobono Robari
TS 1302-1320 Rodolfo Pedrazzani da Robecco
+RO+ 1303-1304 Benedetto IV detto XI Nicola Boccasini Conferma di strumenti dal Vescovo Rodolfo – Bonomo doc. XV
-GO- 1304-1323 Enrico II e Alberto IV

+RO+ 1305-1314 Clemente V Bertrando de Got o Gotone
1307     (12 ottobre) Cessione perpetua a Venezia di tutti i diritti e le giurisdizioni del Patriarca nell’Istria occupata dai Veneziani. L’Istria ora divisa in tre domini: veneziano, patriarchino e goriziano.
*IM* 1308-1313 Arrigo VII di Lussemburgo
:VE: 1311-1312 Marino Zorzi doge 50°
1311-1313 Enrico, conte di Gorizia podestà a Trieste.
:VE: 1312-1327 Giovanni Soranzo doge 51°
1313 Il doge di Venezia protesta contro il Comune di Trieste per le ambagi di quest’ultimo nel prestar giuramento di fedeltà. La famiglia Ranfi a Trieste viene sterminata.
*IM* 1314-1347 Ludovico IV il Bavaro
*IM* 1314-1322 Federico III d’Asburgo, competitore
1314     Spettanze della Chiesa Triestina sul feudo Sipar – Bonomo documento XVI
+RO+ 1316-1334 Giovanni XXII Giacomo Caturcense d’Euse
°AQ° 1316-1318 Gastone della Torre
°AQ° 1319-1332 Pagano della Torre
1320, 1322     Enrico, conte di Gorizia podestà a Trieste.
1329     Sul feudo Sipar della Chiesa Triestina – Bonomo documento XVII
1333 Investitura di feudi in Istria da parte di Pace da Vedano – Bonomo documento XVIII.

Trieste – La Civitas – Giulio Bernardi


Trieste – La Civitas – Giulio Bernardi


Civitas, nella terminologia latina, è una società di uomini liberi, organizzata a difesa in un singolo agglomerato urbano e ricavante i mezzi di sussistenza dal breve contado circonvicino.
Nelle prime monete triestine si nomina soltanto il vescovo: TRIES E PISCOP, come ad Aquileia soltanto il patriarca : AQUILEGIA.P. 
L’uso del nome TRIESE, che, osservando bene la forma dell’ultima E, può essere letto TRIESTE, prima dell’adozione del latineggiante TERGESTVM, è documentato da queste antiche monete e forse da poche altre fonti. Secondo A. Tamaro il «Chronicum Venetum», che è del X o dell’XI secolo, porta la forma neolatina cioè italiana di TRIESTE, in una carta del 1106 si legge IN EPISCOPATO TRIESTINO, nell’anno 1115 compare il nome di persona TRIESTO e Santa Maria de TRIESTO è detta l’ «ecclesia maior» un atto del 1172.
In epoca romana il nome della città, come si legge nelle lapidi, fu sempre TERGESTE indeclinabile.
Nelle monete immediatamente successive alle prime, viene nominata anche la CIVITAS TRIESTE, parallelamente alla comparsa sulle monete patriarcali dell’iscrizione CIVITAS AQUILEGIA. Non succede così nella vicina Gorizia, dove il nome della città è legato solo al titolo del COMES e al nome di Lienz, né a Latisana, designata come PORTUM. A Lubiana il nome della città definisce invece i denari: LEIBACENSES DE, ma esistono anche esemplari con CIVITAS LEIBACVN. Venezia non è mai Civitas nelle sue monete: il nome della città è sempre predicato del titolo dogale.
La CIVITAS è ricordata dalle monete aquileiesi fino al 1256, cioè per l’ultima volta nelle monete di Gregorio con il titolo di Electus, prima della sua consacrazione episcopale. A Trieste, invece, l’uso continua ancora all’epoca del vescovo Ulvino de Portis (1282-1285), mentre non c’ è più nei denari di Rodolfo (1302-1320), che si fregia del titolo di TERGESTINUS, come AQUILEGENSIS si nomava il Patriarca fin dall’epoca di Raimondo (1273-1298). Quale significato ha il riconoscimento, contemporaneo alla corte patriarcale e nella curia triestina, dell’esistenza della rispettiva CIVITAS? Quale la permanenza di questo riconoscimento a Trieste più a lungo che in Aquileia? Innanzitutto è prova della stretta interdipendenza iniziale tra le due monetazioni, ma nel contempo mostra che Arlongo vescovo di Trieste dal 1254 al 1280 eredita, dal periodo di coniazione comunale, una regia monetaria più autonoma, meno strettamente legata alla patriarcale. In secondo luogo testimonia la considerazione del Patriarca e del Vescovo per l’insieme dei cittadini, dei quali è presupposto in tal modo il consenso, anche nell’iniziativa monetaria che pure era, come abbiamo visto, finalizzata anzitutto ali’ accrescimento delle risorse finanziarie del sovrano.
Qui occorre una nota di carattere filologico, che andrebbe sviluppata in altra sede. Con una frequenza tale da non permettere di pensare che sia frutto di errore, il nome di Trieste è scritto, sulle monete dei tempi più antichi: ATRIESE. Atria, da cui il mare Adriatico, è una parola che deriva da atrium, che significava in dialetto italico un luogo ove si spandevano le acque, cosicché ATRIA veniva ad indicare la città di fondazione tusca che si trovava alle foci del Po. ATRIESE potrebbe essere espressione del desiderio di legare il nome di Trieste al nome del mare Adriatico, producendo anche nell’etimo un’affermazione d’italianità d’origine che pare si sentisse necessaria già nel 1200.

I podestà istriani – Giulio Bernardi


I podestà istriani – Giulio Bernardi

Ad onta degli screzi, che spesso nascevano, l’esser sede vescovile era considerato un onore e un fattore di potenza. Infatti Capodistria, da due secoli priva di un proprio antistite e riunita alla diocesi di Trieste, impetrò nel 1186 il ripristinamento del suo vescovado, e lo dotò del reddito di cinquecento vigne e d’altri fondi rustici e con la decima dell’olio. In quest’occasione ci si presenta il primo podestà istriano, con tre consoli. Autonomia sufficiente a fare patti direttamente con Venezia era stata conquistata già nel 1150 da Cittanova, Rovigno, Parenzo, Umago e Pola, retta da una balìa di nobili.
Nel 1192 il regime podestarile e consolare appare anche a Pirano, indi lo ritroviamo a Pola (1199), mentre Parenzo ha ancora un gastaldo con tre rettori. 
Trieste continua ad avere gastaldi per tutto il secolo: il Ripaldo del 1139 ricompare dopo tredici anni, e un Vitale è gastaldo nel 1184 e figura di nuovo tra coloro che giurano fedeltà a Enrico Dandolo, a nome di Trieste nel 1202. E anche nel duecento si notano gastaldi, Mauro (1233 e 1237) ed Ernesto (1257). 

Trieste – Affermazione del Comune – Giulio Bernardi

 

Trieste – Affermazione del Comune.

Giulio Bernardi

 

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Precipuo carattere di rappresentante della «civitas», anzi già del «commune Tergestine civitatis», ha quel gastaldo di Trieste che incontriamo nel lòdo arbitrale pronunciato da Ditmaro, vescovo di Trieste, per la lite fra il comune di Trieste e Dieltamo (sic), signore di Duino nell’ anno 1139.
Tra le varie signorie formatesi dopo il mille in Istria e nella Carsia è notevole quella dei Duinati che dalla loro rocca dominavano la via litoranea. Molesta riusciva ai triestini quella rocca tedesca appollaiata come un falco e croniche furono le contese di confine. Il Comune e il signore di Duino, che si accusavano a vicenda di turbazioni di possesso, si accordarono infine di rivolgersi a Ditmaro. La città aveva quale procuratore il gastaldo Ripaldo, assistito da dodici «boni homines», i quali provarono con giuramento che tutte le terre dalla strada carreggiabile al mare, tra Sistiana e Longera, erano «possessio communitatis Tergestine civitatis». Le parti contendenti s’impegnarono a rispettare questa linea di confine, e il vescovo «posuit inter eos» la penale di cinque lire d’oro. In questo importantissimo lòdo ricorre per la prima volta il nome di «commune Tergestine civitatis». Szombathely richiama particolare attenzione sulla distinzione tra «civitas» e «commune». Questo appare come parte, avente una sua personalità, e investe di piena rappresentanza un suo procuratore: vanta diritto di proprietà sul territorio che è limitato dalla via pubblica tra Sistiana e Longera, e poi dalla catena dei monti Vena e dal mare. Non si tratta della zona di signoria del vescovo, ristretta a un cerchio di tre miglia di raggio, ma proprio dei beni dei cittadini. Il lòdo prova dunque che agli inizi del secolo XII i cittadini hanno già costituito l’associazione volontaria giurata, onde è nato e s’evolve il nuovo ente, e che questo ha ottenuto il riconoscimento, almeno tacito, del vescovo. Esso è ancora infante, ma già pieno di promettente vigore; e già si delinea preciso il territorio del futuro piccolo stato sovrano, in perfetta corrispondenza con la dicitura del suggello trecentesco: SISTILIANU PUBLICA CASTILIR MARE CERTOS DAT MICHI FINES.

 

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Trieste: Locopositi e Gastaldi – Giulio Bernardi


Trieste, Locopositi e Gastaldi – Giulio Bernardi

In un documento del 933, Trieste è rappresentata da un «locoposito», forse designato o eletto dal vescovo. Primo tra gli «scabini» (rappresentanti della cittadinanza), egli forse corrisponde al primate che appare di questi tempi nelle città dalmatiche, però sembra prevalere in lui il carattere di primo rappresentante cittadino. Nel corso del secolo XI, il locoposito perde via via la sua importanza e il titolo si riduce a una qualificazione onorifica ed ereditaria. In sua vece spunta, nel secolo XII, il gastaldo che poco ha a che fare con il gastaldo longobardo o franco, ma invece sembra assumere anche nelle città istriane il posto di primo ufficiale, come magistrato elettivo, facente parte del collegio dei giudici, cioè delle supreme cariche cittadine perpetuanti quelle del municipio romano.
A Trieste il gastaldo, preposto dal vescovo signore della «civitas», riuniva in sé ai poteri amministrativi e giudiziari conferitigli dal vescovo, che egli esercitava in qualità di agente, anche la rappresentanza dei cittadini. A seconda della sua maggiore o minore potenza, la «civitas» designava al vescovo la persona dell’ eleggendo e talvolta addirittura forse lo imponeva.

Trieste Inizi del Comune – Giulio Bernardi


Trieste – Inizi del Comune

Giulio Bernardi


Torniamo al diploma di Lotario del 948. Esso segna una data importantissima nella storia, purtroppo lacunosa e oscura, della «civitas» triestina dell’alto medioevo. In pericolo d’esser travolti dal feudalesimo montante che li avrebbe aggregati a potenti principi d’oltralpe, i triestini si strinsero al loro vescovo, da loro stessi eletto e salutarono certo con gioia il privilegio che sottraeva la custodia delle mura, l’esazione delle imposte e dei dazi, l’amministrazione civile e la giudiziaria ad altro signore.
La vecchia classe degli «honorati», detti poi «boni homines et idonei» continua ad esercitare modeste funzioni amministrative, in posizione subalterna, ad esprimere dal suo seno i giudici di prima istanza nel civile, conservando e tramandando tenace il ricordo dell’antico municipio e della sua curia, le consuetudini, il sentimento di solidarietà economica e sociale. L’autorità vescovile non dava loro fastidio, finché il presule era eletto per lo più tra di loro o quantomeno con il loro concorso, ed essi avevano gran parte nel Capitolo e nella curia dei vassalli episcopali, finché, insomma, gli interessi e le persone del pastore, del clero e della classe dominante furono quasi i medesimi.
Ma pare che già Ricolfo (1007-1017) provenisse direttamente dalla chiesa di Eichstaett in Baviera e fosse investito dall’Imperatore. Così i suoi successori Adalgero (1031-1072) e Eriberto (1080-1082). Certo nei secoli XI e XII sempre più i vescovi assunsero il carattere di vassalli diretti dell’Impero. Ne conseguiva la partecipazione a campagne militari e politiche lontane che, stremando in gigantesche competizioni le loro energie e i redditi della diocesi, senza soddisfazione alcuna della città, interessavano solo pochi membri della «curia vassallorum». Ciò avviene in sintonia con la storia del patriarcato di Aquileia, il cui soglio pervenne in mano a famiglie tedesche, legate alla grande politica imperiale germanica, rimanendovi fino all’ elezione del patriarca Gregorio (1251-1269).
Il dissidio tra il vescovo e la cittadinanza si delinea, si acuisce e prende forma.
Destreggiandosi abilmente, i cittadini ottengono via via privilegi e riconoscimenti alla loro collettività, che, in pieno feudalesimo, è ormai un ente di fatto, non tutelato dai pubblici poteri.
In quest’oscuro periodo, nel quale cade il tramonto d’un assetto antico e rimpianto sempre, si formano e si stringono i nuovi interessi e i nuovi vincoli, si foggia e si rassoda la «civitas» novella. E’ peraltro noto che il Comune italiano non fu mai in possesso di tutti gli elementi originari che formavano la sovranità, ma che si appagava di un certo numero più o meno esteso di diritti sovrani, i quali garantivano lo sviluppo di un’ampia autonomia, senza raggiungere l’indipendenza assoluta: la piena sovranità fu conquistata solo tardi, da pochi Comuni e quando già il diritto comunale era in decadenza.
A Trieste già nel X secolo dunque accanto al vescovo signore esisteva una collettività abbastanza forte per essere apprezzata quale cooperatrice e fiancheggiatrice, con voce autorevole nel capitolo e nella curia dei vassalli vescovili. Negli scarsissimi documenti dell’epoca sono menzionati di solito il vescovo, o un suo ufficiale, e i rappresentanti della città.

Trieste dal IX al XIII secolo – Giulio Bernardi


Trieste dal IX al XIII secolo

Giulio Bernardi

 

All’inizio del IX secolo, allorché fu costituita la marca del Friuli, l’Istria le venne aggregata.

Trieste invece, già nel 948 venne a trovarsi in condizioni particolari e diverse. I re d’Italia avevano direttamente attribuito feudi e privilegi ai vescovi triestini. Secondo Kandler, Lotario e Lodovico avrebbero donato loro una baronia. Da Berengario nel 911 e da Ugo nel 929 ebbero, fuori dell’agro triestino, altre baronie minori, che non li sottraevano però all’imperio del governatore regio. Ma nel 948 (Pavia, 8 agosto) Lotario II concesse al vescovo di Trieste l’alto governo facendolo dipendere direttamente dalla corona.

Il re dona, concede, largisce ed offre alla chiesa di San Giusto «omnes res iuris nostri Regni atque districtus et publicam querimoniam et quidquid publice parti nostre rei pertinere videtur, tam infra eandem Tergestinam civitatem coniacentes, quam quod extra circuitum circa et undique versus tribus miliariis portentis. Nec non et murum ipsius civitatis totumque circuitum cum turribus portis et porterulis…» Continua accordando al vescovo tutte le rendite e i balzelli di spettanza regia, vietando a qualunque persona grande o piccola del suo regno l’esazione della « curatura» d’ogni « vectigal» o «publica functio», ed esentando i triestini dall’osservanza delle sentenze d’altre autorità: «nec custodiant placitum auctoritate alicuius principis». Tutto ciò « tamquam ante nos aut ante nostri comitis presentiam palatii».
Quale sia stata la forza usata dai triestini per ottenere prima degli altri una situazione privilegiata non ci è oggi dato di sapere. L’occasione sembra essere stata quella di una nuova invasione di Magiari lungo la via di Postumia, che si riversò sui Carsi e in Italia. Berengario, supremo consigliere di re Lotario, li arrestò con una forte somma di denaro, raccolto dalle Chiese.
Dentro le antiche mura romane, i triestini, mentre il nembo passava sul Carso, cooperarono a raccogliere la somma del riscatto richiesta da Berengario. Il diploma dell’ 8 agosto 948 seguì forse per riconoscimento e gratitudine. Certamente, nel promuoverne la stesura, fu decisiva l’anima della città, espressa in vivissima attenzione all’immediatezza dei rapporti con l’autorità centrale, che sembra peculiare a Trieste in tutte le epoche. Comincia così «de iure» nel 948 quella particolarità di sviluppi che contrassegnerà Trieste di fronte alle città istriane attraverso il medio evo e l’età moderna e creerà nella città una coscienza particolaristica insopprimibile.
Col progredire del X secolo s’indebolisce generalmente l’assetto dato dai Carolingi all’Italia, e venendo meno il potere dei conti s’accresce a mano a mano quello dei vescovi, intorno ai quali si stringono le cittadinanze abbandonate a se stesse: vescovo e cittadini sollecitano dai re il diritto di rinforzare mura e torri in propria difesa. In seguito i conti si riaffermano in qualche misura, non sono però come gli antichi e solo in parte ne riprendono le mansioni; i vescovi stessi invece, se non di diritto, divengono di fatto conti nelle loro città. Enrico II Imperatore sistema giuridicamente questo stato di fatto, volgendo ai propri fini l’attività dei vescovi-conti, ai quali delega o cede parte delle cure del governo. In Istria fioriscono nuove signorie vescovili e i vescovi, divenuti ricchi e potenti baroni, infeudano decime e immobili a famiglie di cittadini e a castellani, costituendo curie di vassalli, delle quali serbano memoria gli statuti cittadini e i documenti. D’accordo con le cittadinanze, i vescovi-conti si sforzano di far coincidere i confini della diocesi-signoria con quelli dell’antico municipio. Non pare peraltro che tra il Vescovo e la «civitas» triestina si sia instaurato già in quell’epoca un rapporto di tipo feudale, come ad esempio, secondo Tamaro, era tra il Patriarca e Muggia.
Dalle monete del Duecento, appare invece chiaro che un rapporto di dipendenza feudale ormai intercorreva tra il patriarca di Aquileia e il vescovo di Trieste. La storia non lo nega: Enrico IV infatti conferì nel 1081 al patriarca aquileiese Enrico (e li riconfermò nel 1082) i diritti che aveva come Re d’Italia (rex si dice egli stesso nel diploma) sui vescovati di Trieste e Parenzo.  Sul vescovado di Trieste, che gli appare in condizioni miserabili, richiama la particolare protezione del Patriarca. Il vescovo triestino quindi, alla fine del secolo XI, da vassallo imperiale, dipendente dal patriarca di Grado, divenne vassallo del patriarca di Aquileia.
Il passaggio fu confermato dalla transazione intervenuta nel 1180 fra i patriarchi di Grado e di Aquileia per le giurisdizioni metropolitiche.
Nel corso del Duecento il vescovo di Trieste riconobbe ripetutamente di avere in feudo dal patriarca di Aquileia il dominio della città di Trieste. Così in un protocollo del 1289, stilato dal notaio Gubertino da Novate, comunicato dall’abate D.G. Bianchi a Kandler, che lo inserì nel Codice Diplomatico Istriano.
Il dominio feudale del vescovo si estende su: «in primis Civitatem Tergesti cum muris, cintis, portis, vectigalibus, cum Muta, Moneta, Regalia, intus et extra circumquaque tribus miliaribus portentis. Item habet Umagum Siparum Castrum Vermes, et totam insulam Patiani usque ad Fontanam Georgicam. Item habet Castrum Calisendi cum omnibus pertinentiis suis, quod Castrum, quedam Comitissa nomine Azika contulit Ecclesiae Tergestinae».
Che Trieste non fosse compresa tra le città istriane infeudate al Patriarca nel 1209 ad Augusta potrebbe anche significare che la permanenza dell’antico vincolo feudale non aveva bisogno di riconferme.